L'apologia di Socrate/Capitolo XIX

Capitolo diciannovesimo

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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo diciannovesimo
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Ma parrà strano che io dia consigli in privato andando attorno e affaccendandomi; e non ardisca montar su e in pubblico dare consigli alla città, in cospetto del popolo. La cagione l’avete da me udita molte volte: cioè, ch’ei m’avviene un che divino e demoniaco, come disse nella querela anche Meleto, pigliandosene gioco. Ed è una cotale voce, che, sino da fanciullo, sento io dentro. E tutte le volte che io la sento, mi svolge da quello che son per fare: sospingere, non sospinge mai. Ella mi si oppone che non metta mano nelle cose della città; e mi par che a ragione. Perché, Ateniesi, sappiate bene che se da un pezzo ci avessi messo mano, da un pezzo sarei morto, e non avrei niente giovato né a me né a voi. Non mi andate in collera, se dico il vero; ché uomo non si salva, chiunque sia, a voi o ad alcun’altra moltitudine generosamente contrastando e impedendo che cose ingiuste siano fatte nella città, e contrarie alle leggi; ed è necessità a chi combatte per la giustizia che non viva egli in pubblico, se pur vuole salvarsi per picciol tempo, ma sí privatamente.