L'altra libertà/Sezione prosa/Opere premiate/Stefano Di Cagno - Schiacciato
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Schiacciato
Racconto breve
di Stefano Di Cagno
Matto non sono e certamente non sto sognando, ma domani morirò e voglio liberarmi l’anima.
Il gatto nero, E.A. Poe
La Stella del Mare giaceva sul fondo fangoso da quasi due mesi ormai, a cinque miglia di navigazione dall’imboccatura del porto di Napoli.
Il sole primaverile cominciava a scaldare già alle sette di mattina, mentre fiancheggiavamo le affusolate, grigie navi della Guardia di Finanza, come schierate per la rassegna al nostro quotidiano passaggio.
Cristiano aveva steso un asciugamano dall’aspetto poco rassicurante sulla panca di destra, bagnata come il resto del tredici metri di Alessandro dall’umidità notturna. Vi si era steso sopra, appoggiando la testa rasata alla sacca mezza vuota di attrezzature subacquee, riprendendo a masticare con metodo il toast acquistato poco prima. Lo sguardo corrucciato dimostrava la concentrazione con cui divorava anche l’ultimo numero di Dylan Dog. Lettura interrotta solo per sbarcare dall’aliscafo, il mezzo con cui, un’ora e mezza prima, aveva lasciato Ischia.
Ciondolavo tra la camera iperbarica piazzata a metà barca e la cabina di comando, dove Alessandro, al timone, armeggiava con lo stereo in cerca di una stazione che trasmettesse del rock commestibile.
Cristiano non riusciva a nascondere un mezzo sorriso ironico, ogni volta che buttava l’occhio al cerotto di scopolamina in evidenza dietro il mio orecchio destro.
«Ma cosa c’avrai da ridere - borbottai mentre gli passavo davanti strascicando i piedi sulle assi della coperta -. Ridi su ‘sta mazza!»
Da prua, come sempre, guardavo preoccupato l’orizzonte, oltre la linea liquida che congiungeva i due fari alle estremità dei moli dell’imboccatura.
Strizzavo gli occhi per correggere la miopia, tipo talpa di un cartoon, valutando critico la sottile striscia in movimento delle onde. Come l’aria che si muove appena sopra l’asfalto in una calda giornata d’estate, quella massa tremolante non prometteva nulla di buono.
«Uhm, c’e’ mare pure oggi, che palle...», sospirai.
Cristiano alzò lo sguardo dal fumetto, fece una smorfia beffarda e tornò ad immergersi nella lettura.
«Dai, prepariamo ‘sta roba, guaglio’», sbraitò Alessandro. Si sbracciò un po’ tenendo il timone con la sinistra, un piede sulla murata e l’altro dentro la cabina. Sempre arzillo, anfetaminico come se avesse dormito chissà quante ore, e non gli pesasse per niente l’aver fatto le due di notte dando la caccia alle universitarie nei pub tra via Mezzocannone e il bar Gambrinus, su e giù per vicoletti dei Quartieri Spagnoli.
«Lo odio quando fa così – dissi –, ha rimorchiato tutta la notte mentre io mi stavo a sorbire le scoregge di quel coglione all’Ostello.»
Il gozzo riadattato a nave recuperi, iniziava intanto a prendere le onde lunghe fuori l’imboccatura, virando verso destra, per fiancheggiare il Castello dell’Ovo e raggiungere il punto di immersione.
Cercavo di dare una mano, ma mi sentivo già lo stomaco sottosopra.
«Ho messo il cerotto troppo tardi oggi...», dissi, rivolto a nessuno in particolare.
Cri mi squadrò da capo a piedi. «Seeh, non parliamo poi di quel che ti sei scofanato prima...», commentò.
«Oh, c’avevo fame, poi senti chi parla, me lo sono mangiato io mezzo chilo di panino da muratore!», cercai di controbattere, ma poco convinto. Il problema era che al bar Pic Nic m’ero sparato sul serio cappuccini e pasticciotti alla crema in dosi massicce, quanto di peggio possibile per un piede poco marino come il mio.
L’ischitano sorrise ineffabile, certo di avermi in pugno.
«Lo sai tra quanto ti risale su quella colazioncina latte e lievito?»
«Lo so, lo so, ma che ci posso fare? Non è una colazione vera senza...»
«Pasticciotti o sfogliatelle?»
«Pasticciotto… pasticciotti, due… caldi… boooooni...»
L’Abyss cavalcò la prima onda mandandola a scivolare sotto la chiglia e quel patetico tentativo di distrarmi naufragò con il bolo nauseabondo che dallo stomaco prese l’ascensore rapido verso la gola. Un velo di sudore freddo mi coprì la pelle e la stanchezza si fece piombo nelle gambe. In bocca dilagò un sapore metallico e la saliva si fece acida e copiosa. Crollai seduto, chiudendo gli occhi, pregando un dio crudele in cui non credevo che mi facesse scendere subito di lì.
«Dai, muoviamoci, avanti!», il latrato rabbioso di Alessandro mi scosse dai pensieri, ma il movimento del corpo provocò un ennesimo, prostrante conato di vomito.
«Ma porco dio, ‘sta bagnarola mi farà impazzire. Ma deve per forza mettersi al traverso ogni volta!?», brontolai la consueta lamentela.
«Muoviamoci, all’una c’ho da fare!», rispose di rimando Alessandro. Anche lui tanto per essere originale. Aveva sempre da fare.
Spense i motori, una volta certo che Cristiano avesse tirato a bordo almeno tre metri di cima e parabordo, e schizzò a dare una mano. Con puntigliosità, si occupò personalmente di fermare il grosso cavo alla bitta.
«Non ti fidi? – disse Cristiano, più per provocarlo che per altro –. Ho anch’io una barca...». Non ricevette risposta, né del resto l’aspettava.
Mentre il natante si muoveva e sbatacchiava sulle onde, incominciammo a vestirci.
«Dai, dai, vi chiudo casa - disse Cristiano impugnando la mia chiusura lampo -. Maronn’ Ste’, e mettici un po’ di paraffina! E’ dura come ‘na cosa.»
Sarebbe sceso dopo di noi e ora faceva assistenza a bordo. Spostò il peso da una gamba all’altra, mentre un’onda entrava da prua a poppa, portando pericolosamente verso l’imboccatura le mie scarpe da ginnastica bianche e rosse, come sempre abbandonate a se stesse. Già erano fradice, ora rischiavano pure di finire in mare! Le osservai rassegnato.
Ale staccò le rubinetterie del pesante bibombola dai lacci elastici che lo assicuravano al parapetto, e mi aiutò ad alzarmi. Non ce la facevo più. Sempre vomitando succhi gastrici e parolacce, mi spostai a poppa, infilai le pinne e issai una dopo l’altra le due bombole decompressive, agganciando i moschettoni agli anelli a D sugli spallacci del gav, attaccati a loro volta con cimette sfilacciate al collo delle bottiglie metalliche.
Cristiano mi posò la mano sulla spalla e intuii che voleva dirmi qualcosa. Sollevai la testa con uno sforzo terribile, sentendo i tendini del collo tirare tutto il mio apparato gastrico verso l’alto. Mi puntò con gli occhi e poi li abbassò sull’altra mano, chiusa a pugno. Lentamente aprì le dita e sul palmo solcato di linee sporche di grasso e tagli più o meno cicatrizzati, risaltavano alcune pillole bianche, di vario formato.
«Naaa, tu si scem’ – mi riuscii appena di farfugliare – e come lo butto giù ‘sto schifo?». Aveva sempre con se un mix di antinfiammatori e anticoagulanti, nimesulide e acido acetilsalicidico (Aulin e Aspirina per capirci), a cui ogni tanto aggiungeva vitamina E e qualche altro prodotto.
«Ficcatele al culo», aggiunsi con gentilezza. In pochi secondi, come se avessi il diavolo alle costole, saltai in acqua, tra il ribollire di erogatori in continua e la maschera pericolosamente in bilico sul cappuccio di neoprene.
Presi subito a pinneggiare controcorrente verso prua, ancora più nauseato dal sapore dell’acqua marina in gola. Alessandro, intanto, tutto preciso e perfetto nella sua configurazione, si buttava con calma a seguire.
«Oddio, oddio chi cazzo me lo fa fare… Cristià si nu rott’n’culo...».
Imprecavo, mentre Cristiano rideva sputandomi addosso dal lato di dritta.
Sotto la prua, le decompressive di rispetto calavano pericolosamente sopra la testa e minacciavano di sfondarmela. Venivano praticamente lanciate giù dal compagno rimasto a bordo, che sapevo si divertiva come un matto. Afferrai la cima arancione e senza sgonfiare né la muta né il gav iniziai a tirarmi giù.
Difficilmente procedevamo come si vede fare dai subacquei alla televisione. Ognuno a modo nostro, eravamo tre anarchici dell’immersione. Affrontavamo l’acqua con rispetto, ma anche con arroganza e sfidando le regole base, o riscrivendole a modo nostro. La maggior parte di coloro che ci frequentavano non capiva quel modo di fare. Tantomeno, ad onor del vero, a noi interessava spiegarglielo. Era troppo complicato e alla fin fine del tutto inutile, cercare di rendere partecipi del nostro mix esplosivo di vite borderline, esperienze particolari, continui problemi con soldi, legge, regole contestate, le persone che ci cercavano per noia, frustrazione, desiderio di imparare cazzate subacquee di cui non erano semplicemente all’altezza. Sia Ale che io e Cristiano, avevamo verso inetti e presuntuosi frustrati le nostre idiosincrasie, che come un corso d’acqua addomesticato tra gli argini, finivano per essere convogliate in rituali e pantomime, sceneggiate che dopo un po’ di tempo recitavamo anche da soli. Essendo uno dei più scemi, quando stavo male ma non abbastanza perché il mal di mare mi azzittisse – spesso però anche in quelle condizioni, solo con voce meno credibile – prima di saltare in acqua, solevo urlare: «Nettuno, ti sfido! Vaffanculoooo!». Quel giorno non mi riuscì…
A sei metri, dove le onde non avevano più grande effetto, mi fermai per guardare se Alessandro seguiva. Poi continuai a tirarmi verso il fondo.
Scendevamo veloci, compensando senza usare quasi mai le mani.
Mi entrava acqua nella maschera che avevo indossato alla bene e meglio. Volevo solo raggiungere la quota dei trenta metri, dove la narcosi avrebbe messo a posto il mio stomaco. Frenavo la discesa, sempre più rapida per la pressione crescente dell’acqua, con le pinne messe come se stessi in piedi su un pavimento solido.
Ormai non tiravo più. Mi mantenevo attaccato alla cima, quasi perpendicolare, con l’incavo del gomito. Assestando la maschera, facendo i primi controlli dei manometri e cambiando gli erogatori, passai senza guardare il profondimetro dalla miscela di viaggio e deco Nitrox a quella di fondo. Transitai come una scheggia dalla profondità limite della miscela binaria e realizzai nei meandri più lontani della mente che, forse, avrei respirato quella ottimale solo parecchio più a fondo. Ma non me ne fregava nulla di espormi ad una percentuale di ossigeno non adatta a quelle quote, ero troppo rapido nel cambio per avere problemi.
«‘Fanculo!», dissi nel boccaglio, ma suonò come “uahnuhò”. Era indirizzato alla volta di Alessandro, che mi sorpassava pinneggiando vigorosamente, a testa in giù, agitando una mano in segno di saluto derisorio.
Allora, vediamo un po’ se ‘sta roba funziona, pensai passando da un secondo stadio all’altro dei due erogatori del bibombola.
Respirai in entrambi, controllando che i manometri non cambiassero la pressione. Rubinetti aperti.
«Uhhh!Uh!Uhuuuuh!», Alessandro chiamava, accompagnando il farfugliamento ad ampi gesti.
La Stella del Mare giaceva inclinata di dieci gradi scarsi a dritta. Il tetto della plancia esterna stava sui settantotto metri, ma alcune reti più piccole venivano su più in alto e, quando la visibilità era decente, si intravedevano prima dello scafo.
Il napoletano era già sul ponte, tra il castello di prua e le gru sul passo d’uomo che accedeva alla sala motori. Inginocchiato, aveva cominciato a trafficare con la cima, assicurata alla murata di poppa al termine dell’immersione di una settimana prima. Dovevamo liberarla, attaccarla ad un pallone di sollevamento e mandarla in superficie, filandola sotto lo scafo.
Frenetico, mi chiamava perché gli dessi una mano a tirare, guardando il computer che cominciava il countdown. I diciotto minuti di permanenza pianificati sul fondo stavano già finendo.
Lo ignorai staccandomi dalla cima guida. Raggiunsi lo scafo con un paio di pinneggiate in diagonale, attratto dalla forza di gravità e dalla pressione della colonna d’acqua combinati. Mi diressi verso la piattaforma di comando della gru principale, godendomi per qualche momento la sensazione di assenza di peso.
In meno di dieci secondi raggiunsi la piattaforma, staccando, mentre mi approssimavo, i moschettoni che assicuravano al gav le due bombole decompressive. Le lanciai sul piancito metallico, senza fermare la discesa, e mi volsi verso il compagno per raggiungerlo. Alessandro continuava a mugugnare nel boccaglio, mentre cercava di tirare la cima puntando i piedi contro il parapetto del peschereccio. Mi avvicinai fluttuando, buttai una rapida occhiata fuori bordo e mi rivolsi verso di lui. Toccai la sua spalla per attirarne l’attenzione e scossi il dito indice della destra in segno di diniego. Si arrestò per guardarlo, poi usò la cima per tirarsi verso la murata e sporgersi. Dopo un attimo si catapultò fuori bordo. Lo seguii sapendo già cosa avremmo trovato. Sul fondo morbido, appena sotto lo scafo, giaceva l’estremità del cavo arancione. Non era venuto via per fortuna e nostra previdenza. La sbarra di ferro che avevamo legato a quello scopo alla sua metà, si era incastrata in un grosso copertone di camion usato come parabordo, a sua volta bloccato tra scafo e fondo. Ma bisognava nuovamente passarla tra timone ed elica, infilandosi sotto lo scafo, strisciando tra chiglia e fango. Ci guardammo con sguardi misti di rabbia e delusione.
Alessandro guardò verso l’alto. Compresi subito: Cristiano, in quel momento, teneva in tensione l’altro capo della cima, e noi avevamo invece bisogno fosse lasca, per provare a reinfilarla sotto lo scafo. Emisi qualche verso incomprensibile, scuotendo Alessandro e indicandogli l’unica soluzione, puntando l’indice sul computer dell’amico, sul suo petto e verso la superficie.
Esperienza, acume, intuito e freddezza fecero elaborare la stessa conclusione al cervello del mio amico in una frazione di secondo.
Eravamo giù da meno di tre minuti, poteva quindi risalire, saltare i pochi minuti di tappa deco che aveva accumulato, uscire in superficie e avvertire Cristiano, per poi ridiscendere ad assistermi, ricomprimendo le bolle di gas che avrebbero cominciato ad espandersi altrimenti nell’organismo, intrappolate, danneggiandolo. Tutto senza che io, restando giù, superassi i tempi massimi previsti e l’autonomia dei gas.
Annuì col capo una sola volta, e schizzò verso l’alto. Lo guardai per accertarmi che fosse sulla cima di risalita, dopodiché mi preparai al mio compito. Risalii verso la parte alta della murata, e assicurai la cima arancione a una delle fessure per lo scolo dell’acqua dal ponte. In questo modo potevo tornare giù e tagliare l’estremità incastrata nella gomma.
Lo feci in meno di un minuto, controllando il computer e il manometro. Sapevo che, nonostante le capacità e l’esperienza, stavo respirando con un consumo maggiore del normale. Succedeva automaticamente in casi di stress e, anche se abituato, ora ero solo, a ottantasei metri di profondità, con un compito gravoso.
La cima, spessa quattro centimetri, era del tipo galleggiante. Per questo dovevamo sempre assicurarla allo scafo, e per questo se filarla verso l’alto era più comodo, tirarla giù da solo diventava molto faticoso.
Mi portai sul ponte, dove la pressione era inferiore e, quindi, consumavo e saturavo un po’ di meno.
Controllai il tempo. Erano passati sei minuti da quando avevo cominciato la discesa e due da quando Alessandro era risalito.
Avrebbe volato fino a metà della quota, per poi rallentare la risalita a venti metri al minuto fino ai quindici, e poi farsi quest’ultimi in un minuto. Ce ne volevano almeno altri due, forse tre.
Guardai il computer e sobbalzai. Erano passati dieci minuti! Per quanto respirassimo una miscela a bassissima percentuale narcotica, a quella quota bastava distrarsi, perdersi nei propri pensieri un attimo, e il tempo scorreva in un lampo senza che ce ne accorgessimo. Mentre lavoravamo, o se avevamo un’emergenza, l’addestramento ci portava a controllare sistematicamente tempi, profondità e scorte di gas ogni pochi secondi, senza interrompere ciò che stavamo facendo. Ma avevo notato che, quanto minore era il rischio o ci si abituava al posto, tanto più ci si rilassava, aprendo così le porte all’errore fatale.
Iniziai a tirare la cima, che venne giù facilmente. Avevo ancora sette minuti. Ogni tanto guardavo verso l’alto, senza scorgere il mio compagno. Quando ritenni di averne portato giù almeno quindici metri, la legai alla murata, liberando con un colpo di coltello la parte assicuratavi in precedenza. Nuotai fuori bordo, acchiappando l'estremità fluttuante, e con forti colpi di gambe mi diressi verso la poppa. Ora dovevo entrare nella fossa che si era formata sotto la chiglia, all’altezza del timone e dell’elica. Lì dovevo infilare la cima tra queste ultime, passare dall’altro lato a riprenderla, per poi tirarla fino a che ne avessi recuperato tutto il possibile per risalire poi lungo la fiancata di sinistra. Avrei di seguito assicurato il capo di polipropilene al peschereccio, dove l’avrebbero preso Alessandro o Cristiano, per proseguire il lavoro.
Pensando a loro alzai di nuovo lo sguardo verso la cima di discesa. Ale non si vedeva. Mi domandai un attimo che fine avesse fatto, ma poi tornai a occuparmi del lavoro. Ogni secondo era prezioso. Controllai tempi e gas, poi mi infilai tra scafo e fango. Sapevo che in pochi secondi il sedimento si sarebbe alzato coprendomi la visuale, ma non era un problema, potevo far tutto a occhi chiusi.
Il fango era soffice, quasi vellutato.
Presi con la mano una delle pale dell’elica, prima di vederla scomparire in una nuvola grigia, e mi tirai ancora più sotto. Le bombole cozzarono rumorosamente contro lo scafo metallico, ma con la configurazione rovesciata, gli erogatori e la rubinetteria erano liberi e protetti appena sopra il fondoschiena. Il cavo tirava verso l’alto, passai l’estremità intorno all’albero dell’elica e la usai per fare forza e filarlo. Quando sentii che non veniva più giù, mi preparai a passare rapidamente dal lato opposto del timone, prendere la cima e lasciarmi tirare su dall’effetto combinato dei gas espansi nella muta e nella sacca del jacket.
In quel momento percepii una vibrazione.
Avvolto nella grigia, quasi nera nuvola di fango, schiacciato tra scafo e mota, ebbi una subitanea sensazione di deprivazione sensoriale, una vertigine accompagnata da un sapore metallico in bocca che mi atterrì.
Pensai a un errore nella composizione dei gas, a un avvelenamento per ritenzione di anidride carbonica. Immediatamente cercai di tirarmi con la mano sinistra lungo il timone, per uscire da là sotto. Sapevo che non potevo farmi prendere dal panico, che ora avevo pochi gas e poco tempo a disposizione. Un errore avrebbe potuto uccidermi. Le bombole raschiarono la vernice antivegetativa riducendo in poltiglia i balanidi attaccati alla lamiera. Non mi spostai che di pochi centimetri. Freneticamente provai a infossarmi nel fango per ridurre l’attrito con lo scafo e a spingermi indietro, senza successo. Riuscii a passare la mano destra sotto il petto, raggiungendo la valvola di alimentazione della muta stagna e premetti il pulsante. Il gas entrò velocemente. Cercai di alzare i piedi verso l’alto. Volevo sfruttare l’effetto di sollevamento della parte inferiore della muta, posta più su per aiutarmi a sgusciare fuori da lì. Per un secondo sentii che succedeva qualcosa, ma una seconda, più forte vibrazione, mosse tutto intorno a me.
Fui una cosa sola con il sedimento.
Come se la spinta avesse aperto una porta nel mio cervello, capii che quelle vibrazioni erano scosse telluriche. Il Vesuvio o comunque l’area sismica del Golfo, si erano risvegliati. La Stella del Mare si era assestata ancor più dentro l’abbraccio del fondo. Mi aveva schiacciato in una bara a sandwich, tra due fette di metallo e melma.
Rimasi fermo, in attesa, preda di sconforto e rassegnazione, con una grande voglia di mollarla lì. Ero stanco e sentivo di potermi addormentare in quell’abbraccio tra lenzuola di fango e acciaio.
Avevo vissuto a sufficienza? Ero riuscito a godermi ogni istante favorevole a raffronto dei tanti momenti bui?
A tutti capita prima o poi di andare a dormire augurandosi un risveglio ben oltre il mattino dopo. Congelatemi come un merluzzo (un tonno…) stecchito e tiratemi fuori quando la bufera è passata e andata a ‘fanculo! Dai, a chi non è mai successo di voler sfuggire a un evento improcrastinabile quanto spacca marroni!? Non è poi questo gran male. Certo, a me succedeva un po’ troppo spesso di desiderare un teletrasporto al futuro, magari non di giorni o settimane ma anche anni dopo… E questo non era bene.
Sentivo il peso della tonnara e, in attesa di morire, mi flashavano in testa momenti infernali in cui non avevo mollato.
Cominciai piano a scavare sotto di me, a cercare di aprire un varco per le braccia. La sinistra era bloccata, l’avevo stesa per fare presa sul timone e ora non aveva gioco. Con la destra riuscii ad arrivare alla fibbia dello spallaccio destro e poi a quella della cintura, aprendoli. Dovevo scavare, liberarmi. Potevo abbandonare le bombole incastrate, usando la frusta dell’erogatore, lunga quasi due metri, per assicurarmi di respirare finché fossi uscito da quella trappola. Avrei provato poi a tirarmi appresso il bibo, oppure a raggiungere in apnea le bombole decompressive e respirare da quelle, schizzando verso la superficie lungo la cima, fino a una quota non pericolosa.
Potevo farcela, mi dissi, dovevo solo restare calmo.
Mentre aprivo nel fango un buco sempre più ampio, sentii il secondo stadio farsi duro in bocca. I gas stavano finendo.
Continuai a scavare trattenendo il respiro, facendo delle brevi apnee che mi consentissero di ridurre il consumo di gas senza andare in affanno, rovinando quel misero risparmio con successive boccate a pieni polmoni. Riuscii a far scivolare appena sulla destra il bibombola e a conquistare un po’ di spazio. Liberai il braccio sinistro. Nello stesso istante sentii un velo nero scendermi sugli occhi. Non lo vedevo, lo sentivo, come una saracinesca che scende stridendo. Un singulto per la fame d’aria mi scosse il petto. Tenni duro, arrivando con la mano destra all’estremità del corrugato opposto, che comandava l’ingresso e il deflusso dei gas nella sacca di galleggiamento. Con un gesto frenetico sputai l’erogatore e lo sostituii con il boccaglio del tubo flessibile, premendo il pulsantino di comando. Mi costrinsi a soffiare i pochi gas ancora nei polmoni dentro la camera di lattice, per non sprecarli, e poi inspirai. Quella miscela di gas viziato dall’anidride carbonica entrò dentro il mio corpo come una benedizione. Il giubbotto ad assetto variabile era gonfiato con un bombolino aggiuntivo, da un litro e mezzo, contenente semplice aria. A quella quota era narcotica. Fresca, priva di elio, mi ottenebrò leggermente la mente sconvolta dal terrore, con l’effetto di desensibilizzarla.
Continuai a respirare dentro la sacca, immettendo ancora aria dal bombolino, mentre scavavo senza più convinzione e in modo scoordinato ma, senza accorgermene, sempre più sconvolto.
Ce la potevo fare, sì, ce la potevo fare, con il braccio libero avevo raggiunto le fibbie sul petto e alla cintura e stavo liberando il corpo da quell’attrezzatura divenuta una trappola mortale.
Avevo aperto un varco anche nel fango e cominciai a spingere, a tirare, a muovermi freneticamente per schizzare fuori da quella tomba.
La terza scossa arrivò subitanea, staccandomi di bocca la plastica e riempendomela insieme ai polmoni di acqua mista a melma.
Il corpo si contrasse. Sussultò sotto gli spasmi, mentre annegavo.
Non vidi colare a picco la barca di Alessandro, travolta dalla gigantesca ondata provocata dal maremoto. Si spezzò urtando la struttura d’acciaio della Stella del Mare e seppellì per l’eternità i miei resti nel fondo fangoso.