L'altra libertà/Sezione prosa/Opere premiate/Stefano Di Cagno - Il bacio

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Autori vari - L'altra libertà (2009/2010/2011)
Sezione prosa - Stefano Di Cagno - Il bacio
Opere premiate Opere premiate

Il bacio
racconto breve di
Stefano Di Cagno

Un uomo dovrebbe morire, dopo che ha salvato una vita o compiuto

una grande opera o deposto il primo bacio sulle labbra della sua signora.

“Quando il diavolo era virtuoso”, R.L.Stevenson



La donna in camicia da notte rosa slavato aprì la porta finestra che dava sul balcone. Sostò qualche secondo sulla soglia, rabbrividendo per la differenza di temperatura tra l’appartamento e l’esterno. Di sfuggita, levò lo sguardo verso le nuvole tempestose che si rincorrevano nel cielo grigio, poi mosse un passo a piedi nudi, quasi incerta se procedere sulle piastrelle che trasmettevano uno spiacevole disinganno dal caldo del parquet di casa. Represso un brivido che le percorse la schiena, proseguì affacciandosi alla ringhiera, raccogliendo altro freddo al contatto del corpo col metallo gelato. Guardò in basso ed ebbe una vertigine, chiudendo subito gli occhi; sulle palpebre le rimase l’impressione in bianco e nero delle due file di macchine parcheggiate lungo la strada. Scavalcò lesta il parapetto con la gamba destra e si buttò senza esitazione. La gravità la prese tra le sue braccia e la tirò in basso con un’impetuosa accelerazione. Precipitando con gli occhi ancora chiusi, mulinò le braccia e le gambe come se nuotasse nell’aria, senza un suono, il sottile indumento svolazzante. Lo schianto sul tetto di una Fiat 1100 fu secco, come uno sparo, e fece cessare i rumori del vicinato. Il sangue colò sulla carrozzeria bianca in rivoli disordinati. Dopo un momento come di sospensione, un grido raccapricciato spaccò il silenzio.
«Condoglianze, camerata», disse Baschetto tendendo la mano per prendere l’avambraccio dell’amico nel saluto degli avanguardisti, che si scambiarono rigidi. Rimase a guardare gli occhi gonfi del Falco per qualche secondo, poi distolse lo sguardo, imbarazzato.
«Grazie», disse quegli.
«Falco, non so che dire», mormorò il Conte, che si era fatto dappresso ai due.

«Non c’è niente da dire, ha voluto così. Com’è la situazione in sezione?».

Il Conte restò un attimo in silenzio, perplesso per come Falco avesse liquidato il suicidio della madre e si fosse subito interessato al problema che avevano in corso, poi rispose: «I compagni da fuori sono arrivati tutti, hanno montato le tende e stanno tirando su un palco. Davanti alla nostra strada ce ne sono una quindicina che montano la guardia, non so se si aspettano che facciamo qualcosa o stanno lì tanto per». «Hanno messo una camionetta della Polizia sotto casa tua - disse Baschetto -, forse per evitare che ci siano casini in concomitanza con i funerali di tua madre». «Già», rispose laconico Falco. Si guardò intorno con aria corrucciata. Nella camera ardente dell’obitorio dell’ ospedale, tra familiari e conoscenti che sostavano infagottati con aria afflitta, c’erano almeno una quindicina di ragazzi vestiti come loro: i giubbotti Bomber di colore blue marine sopravanzavano quelli verde militare; quasi tutti portavano occhiali Ray Ban a goccia, perlopiù a specchio, jeans a tubo sugli stivali Camperos dalle punte rinforzate o anfibi neri dell’esercito. Baschetto si spostò di qualche metro e colse la conversazione tra due di loro: «…certo che è assurdo no? E’ la seconda madre di uno di noi che si suicida così…». In effetti era vero, dalla morte della mamma del Barone erano passati solo cinque mesi. Si erano domandati se poteva esserci qualche ragione attinente alle attività di militanza dei figli, ma sia Falco che Barone erano discreti, non avevano mai avuto problemi con la polizia e in famiglia coltivavano buoni rapporti. Doveva essere una coincidenza, una di quelle dimostrazioni che la vita è illogica e disperata anche se si ricerca la normalità e il tranquillo quieto vivere di un’esistenza borghese.

Baschetto arrivò col suo Ciao rosso all’angolo tra via P. e corso D. che erano quasi l’una e mezza. Aveva fame. Salutò con un cenno Lampadina, che trafficava coi fiori del banchetto del padre, sistemato davanti all’Ape celeste sul marciapiede sotto le mura del carcere. Svoltò rapido sul corso, diede un’occhiata a destra all’ingresso della casa circondariale, in un muto tributo al posto dove prima o poi sarebbero finiti se non li accoglieva prima una fossa, e poi imboccò la stradina della sezione. Parcheggiò il motorino tra due auto davanti alla saracinesca semi abbassata del locale e, invece di entrarvi, si precipitò con la busta di plastica contenente la focaccia ancora calda dentro l’enoteca a fianco, dove comprò una bottiglia di chinotto. A quel punto entrò nel vano di scarsi 25 metri quadri con un bagnetto mefitico sul fondo, dove fu salutato da una dozzina di militanti del Fronte della Gioventù. Chitarrella e il Conte stavano discutendo chini sulla scrivania sbrecciata, e capì subito che l’argomento era il testo da scrivere a pennarello sul retro di un manifesto del MSI. Da quando frequentava la sezione non ne avevano mai attacchinato uno solo dal verso giusto, scrivendo i loro testi e slogan solo sul lato bianco e firmandoli con la loro sigla e la croce celtica. Sulla fiamma ci pisciavano anche loro, come la canzonetta che i compagni avevano composto sull’aria di Funiculì funiculà. «Sei arrivato, finalmente», lo rimbrottò il Conte alzando la testa. «Uhm», si limitò a borbottare Baschetto, che aprì il fagotto di carta e il tappo della bottiglia e prese a masticare ostentatamente. «Vogliamo uscire a riempirgli i muri di tao tse bao a questi reazionari stalinisti?!», esclamò risoluto Chitarrella. Gli altri rumoreggiarono soddisfatti e audaci. Baschetto notò che due di loro, che si tenevano più a ridosso del muro, erano del Fronte del centro città. Immaginò cosa stessero pensando di quell’uso di termini del vocabolario comunista, ma scrollò le spalle: lui e i suoi erano fieri di essere nazi-bolscevichi strasseriani e schifavano i missini, anche se ne usavano una struttura per comodità. Diede un altro morso alla focaccia e disse senza alzare gli occhi dal cibo: «Ho fatto un giro intorno al parco, ci hanno cancellato le scritte, meno qualcuna. Bisognerà portare anche le bombolette». «E se ci attaccano?», chiese ‘U Gnur. Baschetto, il Conte e Chitarrella, imitati da tutti, lo guardarono. Aveva un ampio sorriso sotto il ciuffo di capelli nerissimi come gli occhi. Se stava avvampando per la temerarietà - ché di quella solo si trattava, non c’era ombra di preoccupazione in quello sguardo -, la pelle olivastra non lo dimostrava. «L’MLS che attacca? E quando mai?!», sbottò il Ciccione. «Occhio, ci sono quelli di Milano, e non sono come i nostri», avvertì Chitarrella. Il Conte si rizzò dal tavolo e subito si fece silenzio. «Se ci attaccano, ci scontriamo», disse, e la questione fu liquidata.

Uscirono in una dozzina, i rotoli di manifesti che nascondevano malamente spranghe e mazze di piccone sotto braccio, l’aria spavalda e strafottente dei loro sedici anni di età media. Il Ciccione portava i due secchi di colla e i pennelloni. Baschetto aveva le mani libere. Custodiva la chiave inglese del 32 nella tasca interna sinistra del giubbotto, sul cuore che batteva eccitato, e una bomboletta di spray nero in quella destra. Marciarono sui due marciapiedi con le spalle al portone del carcere, raggiungendo a passi rapidi l’altra estremità della viuzza. Passando tra i paramenti funebri che adornavano mestamente il portone della casa di Falco e la camionetta dei celerini, che li guardarono in tralice, più d’uno gettò un’occhiata al sesto piano del palazzo, da dove si era gettata la signora. Nessuno si fece il segno della croce come facevano gli altri passanti e la maggior parte di loro stava già fiutando il pericolo, mettendo nel mirino il largo, dove le tende brulicavano di vita e colore. Svoltarono compatti a sinistra, mantenendosi sul marciapiede opposto all’ampio spazio che veniva spesso occupato dai circhi che passavano per la città, e che ora era gremito dai giovani dell’opposta fazione. Iniziarono subito ad attaccare i primi manifesti, mentre gli altri si davano voce gridando «i fasci, i fasci» e cominciavano ad assembrarsi in un gruppo compatto. Baschetto tirò fuori lo spray e cancellò una falce e martello che a sua volta era stata sovrapposta a una croce celtica sotto la scritta “Non esiste notte tanto buia da impedire al sole di sorgere”. Evidentemente la frase era piaciuta anche agli stalinisti. Improvvisamente uno slogan riempì l’aria fredda di quei primi giorni invernali: «Camerata, basco nero, il tuo posto è al cimitero», urlarono un centinaio di voci. Baschetto si aggiustò istintivamente sulla testa il suo basco color amaranto come per smentirli. Si attardò dietro al manipolo che camminava compatto, fermandosi solo pochi secondi di volta in volta per appiccicare al muro uno dei manifesti. Cancellò un’altra falce e martello, sottoscrivendo la scritta “Moro boia” con la celtica, quindi vergò come aggiunta “Morire a ventanni, grazie DC”. I rossi ulularono la loro rabbia e un gruppetto di una trentina di loro si staccò dalla massa di tutti i partecipanti al meeting, ondeggiando sull’ampia carreggiata avanti e indietro verso i neri. Baschetto tirò fuori la chiave inglese e l’agitò minacciosamente sulla testa, facendo segno di venire pure avanti. In quel mentre due camionette della polizia imboccarono il viale con i lampeggiatori accesi e si frapposero fra le due fazioni. I ragazzi finirono di attaccare i manifesti e, presa una traversa, fecero ritorno appagati alla sezione cantando l’Horst Wessel Lied e lanciando slogan sbracciandosi nel saluto romano.

Baschetto ciondolava all’angolo diagonalmente opposto alla garitta del carcere sotto la quale si mettevano a vendere fiori Lampadina e il padre. Ogni tanto entrava nel Bar delle Rose e ordinava sempre la stessa cioccolata calda con la panna, ma si era stufato. Fare la vedetta gli urtava i nervi e malediceva la scarsità di militanti che contraddistingueva la sua banda, obbligando anche i capi come lui a mansioni che non riteneva gli si confacessero. I lampioni stradali proiettavano la loro luce arancione sul viale e riusciva a vedere l’altro capo dell’isolato, da dove potevano spuntare gli avversari. Non avevano abbastanza soldi per comprarsi delle walky-talky per comunicare fra loro e, nel caso, avrebbe dovuto correre ad avvertire gli altri in sezione. Per questo sapeva che era importante riuscire a vederli con largo anticipo, ma ciononostante era scocciato e spesso si perdeva nei suoi pensieri. Fu così che non si accorse della ragazza prima che questa fosse ad appena una decina di metri da lui. Era inequivocabilmente vestita da zecca: portava una cuffia di lana multicolore, di quelle che gli Intillimani avevano reso alla moda tra i giovani dell’estrema sinistra, un giaccone imbottito verde militare con una borsa di olona a tracolla, su cui, tanto per rendere l’identificazione sicura, in mezzo a tante scritte si notava campeggiare una falce e martello e il simbolo della pace usato dalle femministe. Anche lei lo aveva visto all’ultimo momento, come testimoniato dall’improvvisa incertezza nel passo. Ristette qualche secondo, immobile, e poi risolse l’indecisione entrando bruscamente nella cabina telefonica davanti al bar. Baschetto la guardò attraverso il vetro azzurrognolo, senza riuscire a capire com’era fatta sotto l’imbacuccamento. Si avvicinò, preso da un subitaneo impulso, e tenne le porte aperte col corpo. «Ho una pistola, compagna», mentì. «Che vuoi», rispose lei con asprezza. Aveva gli occhi verdi; il viso era ovale, pieno senza essere paffuto, l’incarnato liscio che diventava piacevolmente roseo sulle guance ad incorniciare un delizioso nasino all’insù; la bocca era semiaperta sulla chiostra di denti bianchi, le labbra tumide; i capelli, che uscivano dal copricapo dorati come spighe di grano, erano lunghi e ondulati. Baschetto doveva chinare leggermente il capo per osservarla, essendo più bassa di lui di una ventina di centimetri, sul metro e sessanta. Erano sicuramente coetanei, non poteva avere più di quindici anni, forse anche più piccola. Si era messa un profumo discreto, oppure era l’effluvio di balsamo per i capelli; soprastante il puzzo di sigaretta che aleggiava nella cabina, Baschetto inalava quell’essenza di cacao mista all’odore del suo corpo che lo inebriava. Stettero muti, guardandosi negli occhi. Nessuno dei due sembrava riuscire a scambiare ulteriore parola. Baschetto ebbe l’impressione che non fosse impaurita e che, al par suo, non avesse intenzione di muoversi. Preso da un turbamento interiore e da un’esigenza incontrollabile le avvicinò il volto. I respiri si fusero, facendosi più rapidi. Lei non mosse un muscolo quando le labbra del ragazzo si appoggiarono sulle sue e accolse il bacio con una passione che si esprimeva solo nel modo in cui la bocca ricevette quella dell’altro. Tenne gli occhi aperti, spalancati, da cui non traspariva paura o smarrimento. Baschetto appoggiò le mani sulle sue braccia senza osare stringerla, come se esercitando una qualsiasi pressione potesse smaterializzarsi in una nuvola di fumo. Stettero così a lungo, baciandosi estranei al mondo. «Posso telefonare?», chiese acida una voce di donna. Baschetto alzò il volto da quello della ragazzina e si girò a mezzo. Come se quello fosse un segnale, lei si scosse e gli sgusciò di fianco, riprendendo a passi rapidi la via da cui era venuta senza mai voltarsi. Il ragazzo trovò insopportabile anche solo l’idea di restare lì da solo, e con in bocca il gusto di lei che era come miele, si avviò altrettanto veloce verso il Fronte dove ci si preparava alla battaglia.

Sciamarono dal locale della sezione come un solo uomo, disponendosi sulla strada spalla a spalla, su cinque linee, lasciandosi dietro la bocca del carcere e affrontando di petto il combattimento. Quasi tutti avevano il casco in testa; pochi, che si tenevano più dietro, il solo passamontagna calato. Iniziarono subito a scandire i loro slogan, ma quelli della parte avversa coprivano quasi del tutto la loro voce, essendo molte volte superiori di numero. Arrivati al termine della stradina, dove lo sparuto gruppetto di poliziotti si era tolto di mezzo, cominciarono a lanciare bilie con le fionde e qualche molotov che, spaccandosi al centro del viale, riversarono la benzina incendiata più con un effetto scenico che altro. I rossi risposero con una fitta sassaiola e alcuni dei fasci furono colpiti, cadendo in terra. Poi si scontrarono, cozzando gli uni contro gli altri. Baschetto ruppe una breccia tra la prima fila e si trovò ad assestare colpi in mezzo alla calca di compagni. Ebbe la meglio su di un paio e si avvide che la compattezza della falange veniva meno. Improvvisamente fu assalito alle spalle e ruzzolò per terra, prendendo qualche altro colpo di bastone e dei calci. All’inizio il dolore lo intorpidì e sentì che non poteva più rialzarsi, ma poi le fitte ad ogni bastonata si fecero lancinanti e si ritrovò di nuovo in piedi, roteando a destra e a manca la chiave inglese come fosse una spada. S’era fatto largo ancora una volta nella mischia, quando vide poco più in là il volto della ragazzina sotto la cuffia di lana, tra la massa di compagni che non partecipavano alla lotta, ma restava compatta a urlare insulti e grida di guerra. Si fermò un attimo, esitante, distratto da ciò che gli avveniva intorno, e in quel mentre sentì le fitte dei due fendenti che lo raggiunsero in rapida sequenza al petto. Cadde piegato sulle ginocchia, un fiotto di sangue che gli lordava le mani raccolte sulle ferite; una terza coltellata lo colpì al collo, squarciandogli la carotide. Percepì la vita esalare con negli occhi gli occhi di lei, il suo profumo e il sapore del suo bacio. Morì sorridendo.