L'altra libertà/Presentazione di Ernesto Ferrero
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È un fatto confortante che il Premio Casalini, ora giunto alla ottava edizione, continui a crescere, coinvolgendo un numero sempre maggiore di partecipanti e attirando l’attenzione dei media, grazie anche alla sensibilità delle istituzioni che lo sostengono, in primo luogo la Provincia di Livorno, e alla dedizione appassionata di Lucia Casalini, che ne costituisce la vera anima. Significa che il ponte che si tenta di gettare tra dentro e fuori funziona, stabilisce contatti, attenua il peso di una solitudine psicologica che è anche più grave della costrizione fisica. Significa che scrittura e lettura si confermano più che mai strumenti fondamentali di conoscenza: di se stessi e delmondo. Un momento di riflessione, analisi, ricerca interiore, autoterapia, attraverso il riconoscimento delle differenze, di ciò che rende unica ogni storia anche se le vicende degli uomini obbediscono sempre alle stesse elementari pulsioni.
La scrittura che deve nutrirsi di lettura, perché ogni uomo è l’anello di una lunga catena, e la sua vicenda personale può acquistare un senso e una prospettiva solo confrontandosi con quanti lo hanno preceduto, misurandosi con le storie degli altri. Per questo il Premio Casalini, in collaborazione con la Fiera internazionale del libro di Torino, i Presìdi del libro del Piemonte e l’Unitre, ha intrapreso una serie di iniziative per incentivare la lettura e potenziare le biblioteche delle carceri. Tra queste la raccolta e la spedizione di alcune casse di libri alle case di Volterra e di Porto Azzurro, e i corsi e i laboratori di lettura organizzati con il Polo Universitario nella casa “Lorusso e Cutugno” di Torino.
Alla cerimonia di premiazione dell’edizione 2008 hanno partecipato gli scrittori Giuseppe Culicchia, Fabio Geda e Margherita Oggero, i cui romanzi hanno ispirato la serie tv che ha per protagonista la prof. Baudino, e cioè la brava Veronica Pivetti, che è anche una grande amica del Premio.
Nel novembre 2008 all’incontro di Torino hanno fatto seguito a Livorno quello con i ragazzi dell’Istituto Amerigo Vespucci, che hanno letto alcuni tra i racconti e le poesie premiati; e quello con alcuni concorrenti premiati e segnalati nel carcere della città, al quale hanno partecipato anche gli studenti delle scuole secondarie di Piombino. La loro partecipazione va ad arricchire in modo sensibile questa esperienza comune, e dimostra ancora una volta che i ragazzi sanno rispondere nel modo migliore agli stimoli “giusti” che vengono loro offerti. Se questo non accade, non è colpa loro, ma di chi quegli stimoli non riesce a fornire.
Una non minore importanza attribuiamo alla partecipazione dei ragazzi delle carceri minorili. Per loro il percorso di conoscenza e di scoperta è ancora più decisivo. Una selezione dei loro contributi è ospitata in questo volume. Valga come l’augurio più sincero a proseguire con impegno in un cammino di autocostruzione, e come ringraziamento agli insegnanti che li guidano.
Leggere e scrivere, dunque, per imparare a “vedere” oltre le
apparenze, per andare un po’ più a fondo. Per scoprire quello
che abbiamo dentro e non sapevamo di avere. È un’esperienza
che tutti coloro che scrivono, siano essi professionisti, dilettante
o neofiti, raccontano allo stesso modo. Scrivere è un andar
per mare in cui si conosce il porto di partenza, ma non quello
d’arrivo. Si cercano delle parole, e queste parole ne evocano
delle altre, creano dei cortocircuiti, producono immagini inattese,
ci portano chissà dove. È uno scavo nella propria archeologia
personale, in ricordi e sensazioni sepolti o rimossi, per
portare alla luce magari pochi cocci, dai quali però riusciamo a
capire la forma dell’oggetto che erano stati. Nessuno può dire,
all’inizio, di sapere che cosa scriverà. L’importante èmettersi in
questo atteggiamento di ricerca. Un grande poeta, Andrea Zanzotto,
ci ricordava che la parola “invenzione” viene dal latino
invenire, trovare, e cioè rimanda all’atteggiamento di chi si
mette alla caccia di qualche cosa.
Anche quest’anno ci sembra che i narratori se la siano cavata meglio dei poeti. La poesia è apparentemente facile, è una sorta di scatto breve e violento, altra cosa rispetto alle fatiche di una maratona; e poi adesso non c’è più nemmeno l’obbligo delle gabbie strette (come il sonetto) o delle rime. Ma l’urgenza del dire, lo sfogo improvviso, l’emozione del momento non bastano. Occorre dal loro una foggia, curvarli come fa il liutaio con i suoi legni pregiati, fino a costruire un violino capace di emettere un suono puro.
Il racconto richiede in maggior misura una struttura, uno svolgimento, una progressione e possibilmente il botto finale che lo illumina e lo spiega tutto, retrospettivamente. Esige insomma un impegno più meditato, uno sforzo di costruzione. Per questa edizione 2009, le preferenze della giuria sono andate al testo di Stefano di Cagno, Schiacciato, che è stato una bella sorpresa, ed esemplifica bene come la letteratura ci possa dare quello che altri generi espressivi non sono in grado di darci.
È un racconto già professionale, che sarebbe piaciuto a Italo Calvino o a Primo Levi proprio per la sua asciuttezza e per la precisione anche terminologica con cui ci introduce nella tecnica delle immersioni subacquee, e tutto quello che gli sta intorno. Chi ha letto o avesse voglia di leggere La chiave a stella di Primo Levi, in cui si raccontano appunto le avventure di un operaio specializzato in giro per il mondo, un bravo montatore di gru e di tralicci, capirà meglio quello che dico. Originale la storia, la sua ambientazione, la sua progressione angosciosa, il finale a sorpresa, che spiazza il lettore anche perché rapido e senza fronzoli. Anche questo accresce il merito dell’autore.
Al secondo posto troviamo Domenico Strangio, già premiato lo scorso anno. Il suo Una storia minima torna al nodo drammatico del rapporto con il proprio paese, San Luca d’Aspromonte, tristemente noto per le sue faide sanguinose, e alla propria travagliata storia personale. Strangio lo fa, come di consueto, a muso duro, in uno stile efficace tra l’epico e il risentito. È capace di raccontare un pezzo della propria storia senza camuffarla e senza lamentarsi, senza atteggiarsi a vittima.
Al terzo posto un racconto di tutt’altro tono, Il passo dei ladroni, di Matteo Mazzei. Spiritoso, rapido, divertente, evoca con leggerezza una vocazione al furto di destrezza che si trasmette di padre in figlio. Gli scatti, le invenzioni sono quelle del cartone animato: volutamente iperboliche, irrealistiche. Sembra un po’ di essere in un vecchio cartoon di Tom e Jerry, ambientato in una città d’oggi.
Come al solito, resta il dispiacere di non aver potuto premiare altri testi che pure lo meritavano. Così il canto d’amore che Francesco Felici dedica a Napoli, la sua città; o il testo di Valentino Robustelli, che si misura con un caso recente che ha dilaniato le coscienze, quello di Eluana, dando voce a una ragazza in coma, che sente e capisce perfettamente quello che avviene intorno a lei, e quel che si decide per lei.
Giovanni Arcuri firma una sorta di colorito reportage sull’inferno delle carceri venezuelane, che riproducono perfettamente al loro interno il sistema mafioso così diffuso in quel Paese, con tanto di boss strapotenti, picciotti, traffici di droga e armi. Carmelo Gallico, anche lui premiato nelle scorse edizioni, ci consegna un altro dolente spaccato carcerario, con i tentativi di suicidio, i drogati in crisi, le morti improvvise. Maria Buompastore racconta l’angoscia per l’assenza della figura paterna, e ugualmente autobiografico è il lungo, dolente monologo diMariaMistretta. Vorremmo segnalare con particolare calore proprio queste presenze femminili.
Carmelo Rollo si distingue per un intelligente apologo con animali, storia di una giraffa alla ricerca di un’identità. E Antonio Miccoli si segnala per l’originalità linguistica, lavorando con gli intarsi dialettali, al modo ormai celebre di Andrea Camilleri.
Quest’anno il Premio Casalini aveva introdotto anche una sezione saggistica, certo molto impegnativa. Ebbene, c’è chi ha raccolto la sfida con coraggio e capacità. Così le analisi approfondite che Antonio Vauro ha dedicato a uno dei più apprezzati narratori d’oggi, l’israeliano David Grossman. Mentre Francesco Tatò, con L’arte di essere infelici, si è misurato nientemeno con il Leopardi delle Operette morali: pensatore, prima ancora che poeta, di stupefacente modernità, come tutti i veri classici. Anche a loro i nostri complimenti.
Aral Gabriele (per chi ancora non lo sapesse, Aral è il nome) ha vinto anche quest’anno la sezione di Poesia. Ha acquisito regolarità e sicurezza senza perdere in originalità, segno che non si accontenta dei risultati già raggiunti, testimoniati tra l’altro dalla pubblicazione di una raccolta di liriche. Anche se i testi che vengono sottoposti alla giuria sono anonimi, abbiamo imparato a riconoscerlo: ma questo è Aral! E difatti è proprio lui.
In una sua lettera, Aral racconta come la scrittura lo abbia aiutato a uscire dall’isolamento interiore, che è il prodotto più pericoloso della condizione carceraria, persino peggiore della privazione della libertà: la rinuncia al dialogo, al rapporto con gli altri. La parola scritta è la chiave di volta che ci permette di arrestare questo processo e anzi invertirlo: “La scrittura – dice Aral – si è eleva al ruolo di strumento di liberazione intellettuale, che diventa infine liberazione morale”.
In un verso del secondo classificato, Alessandro Crisafulli, possiamo ritrovare il senso profondo di che cosa è fare poesia, là dove scrive: “Nel buio ritrovo il colore/ smarrito”. Di questo si tratta, di scavare nel buio dell’inconscio, dell’indistinto, del non detto, per portare qualcosa alla luce. E poco più oltre si parla di quel che ci può essere d’assoluto nel “volo disegnato a mano, con/ l’inchiostro presto a prestito dalle pupille, quando il vuoto/ diventa energia”. Che rimanda alla poesia come nuovo modo di vedere.
Della capacità di stupore che bisogna conservare allo sguardo parla anche Antonio Faulisi, già premiato l’anno scorso, con il suo Notte di silenzio. Dove al termine di una notte di memorie amare l’aroma del caffè non ancora bevuto, il profumo delle ginestre, e l’odore stesso della carta su cui scrive prendono miracolosamente a sapere di futuro.
Tra i segnalati, crescono le voci che arrivano da Paesi extraeuropei, quali quelle di Habib Abidi, Samjra Bajramovic, Hafedh Habibi, Kanoutè Saadron. Portano ritmi, colori, immagini che arricchiscono i modi di fare poesia con esperienze fresche e innovative, non diversamente da quanto accade nella musica o nelle arti figurative.
Bastano queste tracce a confermare che ovunque è in corso un meticciato, un’ibridazione di modi espressivi che sta cambiando e arricchendo la mappa culturale del pianeta. Il mondo globalizzato porta con sé tanti problemi e tante tragedie, ma anche un modo nuovo di stare insieme, di riconoscersi nella comune radice della parola poetica.
Ernesto Ferrero