L'Opera di Mario Rapisardi
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E' dunque salpato invano da Quarto il naviglio dei Mille? Giosuè Carducci chiudendo la fiera polemica Rapisardiana, scriveva: «E se dovesse esser vero che così misero fosse l'avvenire, che i nostri nipoti avessero da ricordarsi del Rapisardi e di me, mi colga subito la dissoluzione del nulla; perchè vorrebbe dire che il naviglio dei Mille salpò invano da Quarto».
I nipoti, pur nell'ora meno misera della Patria, non sembrano dimenticare il poeta maremmano e il suo antico protagonista, Giosuè Carducci e Mario Rapisardi, l'uno che compì il ciclo poetico dando intiera la potenza dell'arte sua, l'altro, che pur essendo balzato fuori con irruente audacia, parve colpito da una crisi di sviluppo, e si fermò e chiuse in forme e idee, che il mondo in cammino superava, senza che egli sapesse o volesse superarle.
Quando la polemica aspra si impegnò fra i due poeti, accompagnati ciascuno da una turba osannante di procaccianti arruffoni, il Carducci, il più forte fra i due, continuò la sua strada, l'altro invece si ripiegò su sè stesso, e chiuso nel disdegno e nel silenzio, scambiando quel che era irritabilità reciproca di artisti o suscettibilità d'uomini concorrenti a una stessa meta, per una lotta di scuole e di idee, parve armarsi maggiormente nella propria scuola e nella propria idea, così da farsi quasi il campione di una lotta che egli solo combatteva. Di una intervista avuta con Mario Rapisardi, Riccardo Artuffo riportava nella Tribuna il suo giudizio con queste parole: «Per Mario Rapisardi tutta la vita letteraria italiana gravita ancora intorno alla sua polemica col Carducci». Ed era vero: dopo trenta anni, il poeta catanese, sepolto nella sua camera onde mai non esciva, ricollegava tutta la letteratura d'Italia agli insulti scambiati fra lui e il Carducci, narrava come Isidoro Del Lungo, prima, il Pullè, poi, e lo Scarfoglio, per ultimo, tentassero vanamente di pacificare i due poeti e come egli sempre rifiutasse.
E anche questo era vero: poichè al Rapisardi poeta e all'uomo molti appunti potran farsi, ma è doveroso riconoscere che poche anime fiere e diritte s'ebbe l'Italia quanto la sua.
I poemi sovraccarichi di retorica giacobina, alcune poesie congestionate da un anticlericalismo da comizio, l'assoluta mancanza del senso di misura che è in tutta l' opera del poeta catanese, tutto ciò non deve oscurare le molte cose belle ch'egli scrisse: e così malgrado la polemica astiosa, e il duraturo rancore per l'antagonista glorioso, dobbiamo riconoscere che egli fu dimenticato perchè volle esser dimenticato, perchè solo dalla poesia volle la fama e non dal funambolismo sgambettante, perchè nulla chiese e nulla offrì di se, ma restò muto e solitario, sepolto nella città natale che lo amava come un figlio prediletto, e che, a lui vivo, eresse nel Giardino Bellini un busto che il Rapisardi stesso chiamava sorridendo le sue esequie anticipate.
Questo merito dovremo riconoscergli anzitutto: mentre altri d'una polemica con il Carducci avrebbe fatto lo sgabello per mostrarsi alle dame e ai cavalieri, egli quella polemica non sfruttò, verso il nemico serbò un insanabile rancore ma anche un nobile silenzio: e mentre i pontefici e i chierici della novissima scuola critica italiana raschiano il marmo dell'opera carducciana, sperando che così taluno si avveda di loro, egli che dal Carducci aveva ricevuto un colpo mortale non volle mai sparlare del nemico.
Lasciò che l'Italia si dimenticasse di lui, lasciò che molti italiani per altro non lo conoscessero che per le ingiurie onde ancor fremevano le pagine della Rapisardiana: non inveì, non protestò, non s'affannò per la fama.
Il poeta di Lucifero! ancor oggi Mario Rapisardi è chiamato così, e molti, per varie ragioni esaltano o denigrano il poema scritto nel 1877, il Lucifero, che è ancora una volta l'espressione artistica del problema che ha affaticato e affatica pensatori e poeti: quello della lotta fra la natura e il dogma, fra il libero pensiero e l'idea religiosa. La battaglia di due principi degenera spesso nelle forme di un pettegolezzo da letterati, Dio e Lucifero non lottano ma sembrano in polemica fra loro: l'antireligiosità assume spesso forme volgari, l'invettiva ha un tono da comizio: il poema, così come la Palingenesi, il Giobbe, l'Atlantide, ha un movimento e un crescendo da opera-ballo, una confusione da cinematografia fragorosa.
Pure, nel momento in cui ne siamo più stanchi, qualche cosa ci trattiene: qua e là, tra la fiumana irrompente dei versi, scorgemmo della poesia pura e compiuta; spesso di tra le invettive senza gusto abbiamo udito un accento robusto; tra i molti fantocci qualche uomo ci è apparso, tra i molti avvenimenti ve n'è qualcuno che si è fissato in noi. E questi lampi di poesia ci trattengono dal condannare in blocco il Lucifero.
Dimentichiamo per un attimo breve le nostre teorie, le nostre personali ideologie che non valgono più di quelle avverse: dimentichiamo per un istante naturalismo, positivismo, cattolicismo, religiosità, sgombriamo il campo dall'eventuale antipatia che possono ispirarci le idee del Rapisardi, e mettiamoci a contatto con l'opera d'arte, cerchiamo solamente quanto di vera poesia sia sopravvissuto a tutto quello che poesia non è, ne potrà essere mai.
Se lo spazio me lo concedesse potrei citare molti passi del Lucifero, del Giobbe, dell'Atlantide ove il poeta ha compiuto l'opera di liberazione dell'arte dalla ideologia, e dimostrerei facilmente come quei critici che han sepolto, senza appello, questi poemi sotto il peso della loro prosa, abbian compiuto un'opera che e tutta da rifare da chi, invece che godere a cercare tutto il brutto, si accinga a scegliere tra il molto superfluo o antipoetico ch'è nella produzione di Mario Rapisardi, quei passi di serena bellezza ch'è giusto contendere all'oblio.
E' doveroso compito per il critico indicate severamente i difetti dell'opera esaminata, ma egualmente doveroso è per lui salvare quel che è degno di sopravvivere. In caso diverso l'esegesi va, giustamente, confusa con la sedia elettrica o la ghigliottina.
Mario Rapisardi non ha trovato quasi mai nei suoi critici dei giudici, ma sempre dei giustizieri.
Ho indicato, rapidamente, come pur nei difettosissimi poemi del poeta siciliano, una serena ricerca possa trovare non comuni pregi: mi resta ora a parlare del Rapisardi lirico, infinitamente superiore al Rapisardi del Lucifero e del Giobbe.
Fin dal libro delle Le Ricordanze (1872) sentiamo un vero e grande temperamento poetico: non più la nota ampollosa e convulsa della Palingenesi; a sentimenti più miti e personali la poesia si fa più mite e personale: non sempre bella, ma non più epilettica. La preoccupazione filosofica non sovrasta queste rime. Il poeta canta se stesso, il suo dolore, il suo desiderio, e il canto è poesia. Essa ha ancora tutti i difetti della giovinezza, contiene il germe di tutti i futuri enormi difetti dell'arte di Mario Rapisardi, ma se ci si chiede che cosa fosse, a parte il Carducci, la poesia italiana nel 1872, si dovrà convenire che le Ricordanze sono, di quel momento, il solo volume di versi degno di tal nome.
Di varie epoche sono le poesie raccolte sotto il titolo di Giustizia. Versi politici e sociali, inspirati da avvenimenti attuali e quindi caldi d'ironia o di sdegno essi non hanno un grande valore: sono poi quasi tutti superati dall'idea che vi si agita. Offrono queste liriche accentuatissimo il fenomeno che ho già notato altrove: non ve n'è di compiutamente belle nè di compiutamente brutte. Quelle che appaiono migliori, hanno qua e là versi tirati via e imagini barocche: le più condannabili hanno strofe ed espressioni di non comune bellezza. La vendetta sociale, l'anticlericalismo, l'odio di classe li inspirano tutte. I mietitori che falciano le messi per l'altrui mensa, i minatori che muoiono per arricchire i potenti, gettano l'urlo della vendetta, sembrano rievocare, con la voce del poeta, il vespro siciliano per la nuova rivolta. Tutto questo ci lascia assai freddi, e ci consente di pesare ogni aggettivo che non piaccia, di sentire ogni verso che suoni male, di sorridere a ogni imagine mal costruita.
Tutto questo ci lascia freddi, ma non è freddo. Oggi che il socialismo ci ha avvezzi alla sua mansuetudine, oggi il Canto dei mietitori, o quello dei minatori, l'Ode al Re, o quella del Vespro son fuori tono, nè sapremmo accoglierle con lo stato d'animo in cui furono scritte. Ma, malgrado ciò, esse hanno molta forza di espressione, son calde e roventi di un odio grande quanto un amore, e, di tra i luoghi comuni e le imitazioni da Victor Hugo, restano come notevolissimi esempi di poesia sociale.
Alla «grande madre» , alla «santa Natura» dedicava Mario Rapisardi, nel 1887, Le poesie religiose, il suo libro di versi migliore ove si rivela quel grande poeta ch'egli stesso, tra i fumi dei suoi poemi, sembrò non voler essere, che la critica italiana non volle riconoscere.
L'invettiva che persiste, ma s'attenua, l'amore al Vero e alla Giustizia che accende il poeta ma non lo sovrasta, ha dettato quelle fra le poesie religiose ove ancora si agita la quistione sociale: la malinconia e il rimpianto delle Ricordanze si perfeziona.
E il convulso poeta di Lucifero scrive la soave Felicitas:
In cima a granitico scoglio
Cui batte l'eterna marea,
Troneggia su nitido soglio
La bianca impassibile Dea.
Sul mare purpureo s' aggrava
Il cielo qual volta di piombo;
Da' flutti bollenti qual lava
Perpetuo diffondesi un rombo,
Non l'orrida notte solenne,
Per astro novello si frange:
Nell'ombra perenne, perenne
La voce dell' Essere piange.
E il mare con fremito alterno
Di scherno ripete all'immane
Scogliera: Io mi nutro in eterno
Di sangue e di lacrime umane.
E assiduo rompendosi il vento
Al numie rimugola in giro:
Dei popoli io sono il lamento,
Dei secoli sono il sospiro.
E tutto che palpita ed ama
Nel ciel, nella terra, sull'onda,
In suon lamentevole esclama,
Perduto nell'ombra profonda:
Ahi; sempre sul monte starai
Col guardo su' naufraghi, o Diva?
Nessuno, nessun potrà mai
Baciar la tua magica riva?
Se vano miraggio tu sei,
Se vuoto fantasma di sogno
Perchè più del ver tu mi bèi?
Perchè più di tutto io ti agogno?
O Sfinge indomabile, o idea
Che tacita splendi lassù,
O bianca, impassibile dea,
Non forse la Morte sei tu?
E la pura e grande arte delle Poesie Religiose è anche nei Poemetti. Sono componimenti, nella più parte scritti in endecasillabi sciolti, ove il verso, l'imagine, il pensiero, si adagiano in una compiuta armonia di ritmo o d'espressione: Empedocle, Antinoo, Circe, Calcidonio... l'ispirazione è classica ma anche questo poeta ha sentito, come tanti altri, gl'influssi del romanticismo, e la fredda forma si anima d'un contenuto umano. Dalla prima all'ultima queste poesie di Mario Rapisardi si svolgono nel cerchio dei suoi quattro ideali: aveva preso il cammino con lo sguardo in essi, lo ha compiuto cantandoli ancora: traverso le ingiurie degli uomini e del tempo, non riuscendo che di rado a districarsi dalle ceppaie dei propri errori, vinto dall'oblio, il poeta ha continuato a cantare immutevolmente l'ideale che per lui non mutava.
L'eccesso della lotta che gli si faceva lo condusse all'eccesso della stabilità artistica, e, non svolgendosi, non potè liberarsi dai difetti che opprimevano la sua arte. Non si diede vinto, e attese forse, invano, dal pubblico una riparazione all'ingiusto oblio. Ma la riparazione non venne. Verrà, certo, nel tempo. Non sarà la risurrezione improvvisa e luminosa che getti nell'ombra tutta la generazione che non lo comprese, non sarà la rivelazione che abatta tutti gli idoli per sostituirne uno nuovo: sarà il movimento lento di un' opera di giustizia.
Quando, invece che tutte le opere, se ne ristamperanno le migliori, quando l' editore curerà la scelta della poesia rapisardiana, allora il pubblico che vorrà leggere questi versi, stupirà di averli per tanto tempo ignorati.
L'opera di Mario Rapisardi, sgombra da tutto quel che di contingente ed eccessivo l'opprime tuttavia, apparirà nella piena luce come poesia personale, come poesia di tendenza.
Personale, perchè il poeta ebbe un'attitudine sua, perchè la sua produzione non può essere confusa con quella di nessun altro poeta e di nessun'altra scuola: di tendenza, perchè fu l'espressione di un movimento di idee, rispettabilissimo come ogni altro.
Se l'ideale socialista è tramontato fra le nebbie del passato, non tutta l'arte ch'esso suggerì deve egualmente tramontare:la grave crisi sociale del mondo chiedeva i suoi poeti: li ebbe: e Mario Rapisardi è fra questi.
L'anticlericalismo degenerate in antireligiosità è tale da urtare i nervi a molti: ma in nome di quale verità obbiettiva deve valere maggiormente la sottomissione di Antonio Fogazzaro dell'invettiva di Mario Rapisardi?
Al poeta non chiediamo sistemi filosofici e costruzioni ideali: non gli chiediamo, per carità, il passaporto spiritualista o quello del naturalismo: chiediamogli arte, poesie, bellezza, null'altro, e le idee che esprime non varranno che a rendercelo più o meno caro, a farcelo più o meno sentire. Ciascuno fra quelli che giudichino serenamente l'opera del Rapisardi, sa quanto in essa sia da gettar via, ma vuole pur che resti quel che di essa deve restare.
Non odio stupido, nè idolatria insensata: le due cose egli non merita.
Merita la giustizia che non ebbe, la fama che gli si volle togliere ad ogni costo. Nel nome di questa giustizia, che la posterità s' ebbe sempre, avverrà che un giorno l'opera di Mario Rapisardi sia apprezzata per quel che vale, e quella parte di essa che può e deve vincere il tempo continuerà a parlare al cuore e alle menti degli uomini, quando le pagine dei critici fegatosi e quelle degli idolatri senza cervello giaceranno insieme, in affettuosa vicinanza, sui banchetti polverosi dei rivenditori ambulanti.
Vincenzo Picardi (fu un deputato del Regno), 1913.