L'Altrieri/Panche di scuola/VII

Panche di scuola – VII

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Due giorni dopo, scendendo poi per la ricreazione trovammo la berlina a otto molle della vecchia Izar dinanzi al pòrtico – con i suòi grossi e grigi quadrùpedi e con quel certo ghirigoro a cifre sullo sportello il quale la ex-venditrice di olio voleva che, almeno alla lontana, rendesse tanto quanto aria di una corona. Come era dì non festivo e come, attraversando la sala, non udivamo la parola «denaro» (ammirate buona circonlocuzione per dire che non vi sedeva la mercantessa) così ci guatammo l’un l’altro ed aspettammo, con batticuore, una tempesta. Infatti, al comparire del direttore insieme alla Izar, come più arrogante pareva costèi! quanto più leccascarpe, quello! – La dama, scorgendo la sua cara tristizia di un Daniele, se la chiamò vicino, e:

– Non t’offenderanno più, mia oliva – disse; poi, dritta come una stecca da bigliardo, con un teatrale sussiego, salì il montatojo. E un servitore chiùsele impetuosamente dietro lo sportello; un servitore che, a rischio di fiaccarsi il collo, intanto che i due robusti Meclemburghesi dàvano la scappata, si arrampicava presso al tranquillo auriga, crèmisi più de’ suòi calzoncini.

Clang... un tocco. Noi, sparito il nostro pane, consumata una mezza suola, torniamo alle panche.

Che fastidiose, pesanti due ore!

Ghioldi, il quale, ciò che noi vedemmo, avèa egli pure visto e ne sospettava il doppio, cercava inutilmente di dissimulare la sua emozione; chè il libro tremàvagli fra le mani e la lingua gli si storceva ad una folla tale di abbagli... di grossi abbagli, che, se noi fòssimo stati nelle condizioni sòlite, ce ne saremmo preso il più matto spasso del mondo. Ma – anche noi – ci sentivamo indisposti; il nostro ànimo era del pari mortificato; Betto, l’ammazza-sette-stroppia-quattòrdici, non gonfiava nessuno; Ciapino stàvasi mogio; Bobi, ingrugnatello... insomma, un così perfetto silenzio affreddava la scuola che, benìssimo, si udiva tratto tratto il malizioso scricchiare e stroppicciar delle palme di quello sguercio d’Izar e più ancora distintamente ci venne – tuttochè barbugliata – la timida voce di Rico Guinìgi della classe prima (un piccinino vestito alla Scozzese, con ghette e gambuccie nude, che bubbolava sempre pel freddo) quando, mettendo il suo grazioso visetto nell’àula, disse:

– Signov maestvo, il divettove la vuole. –

Come impallidì Ghioldi all’annuncio! Die’ intorno intorno una sbigottita occhiata, poi, bottonàndosi convulsamente, uscì.

Che avvenne allora tra il Proverbio e lui? Giustamente no’l sèppimo mai, non lo sèppimo quantunque di noi, due (su, confessiàmolo... io e Beco Grimaldi il figlio dell’offellajo) codiàssimo il dimandato, non arrestàndoci che a faccia di ròvere.

E là usciolammo. Non ci giungèvan che suoni: avrèbbero potuto dir tutto come le campane.

Proprio – in sul principio – il colloquio pareva tranquillo; pareva che la posata voce del direttore intavolasse questioni e che la trèmola, da pìffero, di Ghioldi pacatamente opponesse – ma, a un tratto, ecco le lingue andar fuori di squadra, incalzarsi i punti interrogativi, crèscere gli esclamativi e... una bestemmia.

Vero è che, sùbito, il parlare si ricondusse alla prima chiave, ma questo fu come pel salto – in cui si prende rincorsa. A qualche nuova arrischiata frase riappàrvero le esclamazioni, vi si accompagnàrono le ingiurie, le cose di fuoco, i colpi di pugno sopra la tàvola... una completa lite, in sostanza.

E, violentemente, si spalanca la porta (mancò poco che ci stramazzasse), si spalanca a Ghioldi che, con gli occhi fuor dalla testa, smaniando:

– No, no – grida – neanche un minuto; – ed a Proverbio, il quale, rosso come un papàvero, sudato come una caldaja:

– L’ha tempo – esclama – giovedì venturo... domènica... -

Ma Ghioldi non vuole udire una sìllaba – scappa...

E Proverbio, rimasto sul limitare dello studiolo, dopo un gesto sdegnoso, un mìmico: va, t’accoppa! – tanto per ripigliare contegno, dà una strappata d’orecchi al pòvero Beco.