L'Altrieri/La principessa di pimpirimpara
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Ah! bene. L’uscio non avèa cricchiato. Io lo aprìi soavemente e, sulla punta de’ piedi entrài nella càmera ratenendo il respiro e facendo, colla mano, intoppo tra il lume e il viso del mio fratellinuccio, di quel caro bottone di rosa che, tranquillo, là, nel suo lettino càndido, dormiva semiaperte le labbra. Come i mièi stivaletti sbrisciàvano sul lùcido pavimento della sala, il pèndolo avèa scattato e, dopo un breve e sordo ràntolo, con voce argentina sonava. Le tre! Quale straora per uno sbarbatello! Ve l’assicuro, in vita mia non m’era peranco occorso vedere che faccia mai mostrasse il mondo in sìmile freddo punto, in cui, nelle lunghe silenziose vie, le làmpade s’illùminano solo reciprocamente – tant’è vero che, nel rasentare l’ampio specchio della sala, gricciolài scontràndovi una figura e, con inquietùdine, guardài se, proprio io, dovèa èssere quel giovinetto pàllido che con un candeliere veniva verso di mè... in grigio sopràbito... calzoni neri... guantato e cravattato di bianco, il cilindro su’n occhio. Il cilindro! In quella stessa giornata me l’avèvano imposto: fu una delle prime càuse della sua memorabilità.
Il come
Io mi sedeva giusto a tavolino fra le dòdici e un’ora, non so se istroppiando i mièi pensieri entro un sonetto o imbrodolàndoveli di aggettivi, quando mamma, avanzàtasi cheta cheta nella stanza depose davanti a mè un... chissà-mài... incartato di azzurro.
Io levài la testa. Ella sorrise: – Èccolo. –
Al papa i versi! Gettài la matita e, d’una mano febrile, tolsi dalla cappelliera un cilindro incamiciato di carta finissima, svolta la quale, scoprìi un cappello, nero come inchiostro di China, lùcido più di un bicchiere molato. Calcàndomelo in capo corsi al mio consigliere di vetro, lo interrogài...
Uuh! a primo tratto ne fui malcontento; mi smaltì l’entusiasmo. E, certo, la rabbiolina mi trapelava sul viso, perocchè, mamma, premurosa, mi disse:
– Bibì, non istizzirti. Il cappello nuovo, vedi, è un arnese cui ci bisogna assuefare. Domàndalo un po’ alle donne! sentirài. E ci vuole anche l’assieme, Bibì...Una cravatta pulita, una giubba elegante, un panciotto... –
Io disarmadiài di furia i chiesti abbigliamenti: mamma andò a chiamare babbo.
E questi venne, poi sopragiunse una vecchia prozia, in sèguito la cuciniera: tutti ad una voce – salvo nondimeno Giorgetto il quale borbottava che il mio berrettone da mago gli metteva paura e giurava sfondàrmelo, così acquistando un severo: ciarlino! e rincantucciando poi con greppo e broncio; – tutti, dico, conchiùsero che un più gentile cappello non l’avèvano mai, per lo innanzi, veduto; che noi eravamo creati l’uno apposta per l’altro; dalle dalle, me ne convìnsero tanto, che, dimèntico affatto de’ versi alla Luna e non curando quelli del fratellino, uscìi a passeggiare fino a dì basso. Su tale soggetto – giova avvertirlo – ho poi cangiato di idèe: le idèe, a fortuna, sèguono la sorte delle ossa. Allora peraltro (quattr’anni or fà) quantunque ghignassi imbattèndomi ne’ collegialini dei Barnabiti, i quali in lunga fila scarpinàvano al Duomo schiacciati sotto de’ cilindroni senza un’ombra di grazia, tenevo ciò nondimeno il fermo convincimento che il salubre cappello – dico salubre rispetto ai colpi di canna – se dotato di una certa curva alla moda, felicissimamente si adattava (diàvolo di un periodo a qual confessione mi meni!) si adattava a un giovinotto, come mè – già, capirete che per tracciarmi almanco la dirizzatura dovevo ricòrrere allo specchio – un giovinotto – làh! modestia a parte – bello.
E mi fu, tale cilindro, origine di un grande avvenimento.
Era per mè, proprio nel ritornare a casa con lui, che l’avvocato Ferretti, il mio patrino, attraversava la via.
– Guido – egli mi disse fermàndomi – stasera mia moglie fà ballare. Sai... una torta, una bottiglia di vino spumante e quattro salti. Etichetta, zero. Vieni. Vi ha molte e molte belle ragazze che attèndono un cavaliere. –
Io gli opposi che babbo avèa la sera stessa seduta e che, quanto a mamma...
– Corpo delle Pandette! – esclamò l’avvocato ridendo ed appoggiàndomi su’ na gota un schiaffetto – E tu? che hai, tu? Non hai gambe, a caso? Poh! Un giovinotto in cilindro! –
Io arrossìi fino alla sèttima pelle: stringèndogli la mano, lo ringraziài.
Bene – fui al festino... Ma, alt! Prima di proseguire, è d’uopo ch’io vi presenti la spiegazione – intraveduta forse, pel buco della serratura, da qualcuno di voi – intorno a fatti toccati di già e, per sopramercato, vi unisca altre poche parole, affinchè quelli che seguiranno spièghinsi da loro medèsimi a voi senza nuove postille.
Casa e persona del vostro amico scrittore
Circa la prima, sappiate, i mièi carìssimi, che ora gli occhi della nostra pèntola vedèvano un’altra gola di camino, ben più stretta, ben più lunga dell’antica; vedèvano la cappa di una città. Babbo, con tutta la sua economìa, non pagava più tasse sopra la maggior parte delle possessioni di casa (due anni, pensate, che si tagliava, per così dire, il frumento colle cesoje e lo si stendeva a seccare nei cassettoni! due anni che si vendemiava coi panieri da calza!) babbo dunque, affittato il poco avanzàtoci, tasta di quà, tasta di là, giungeva alla fine a trovarsi un buon impiego nella vicina città qual segretario in una pùbblica amministrazione.
Del rimanente, il trasporto della nostra pignatta, lo avrèbbero richiesto anche i mièi studi. Non era ancor l’anno dalla partenza di Ghioldi, che, scivolato al grosso Proverbio il piede su que’pericolosi suòi pavimenti, rompeva a sè il collo, a noi canarini il graticcio – quindi – non più maestri, non libri!... figuràtevi... già minacciavo una ricaduta nella poltronàggine e nella cattiveria. Ma venne la risoluzione di babbo: noto che nel vagone che ci trasportava alla città, noi occupavamo quattro posti; nel quarto si adagiava una paffuta balia con un naccherino tutto polpa alla cioccia, un naccherino che i mièi genitori avèan potuto mèttere insieme nei mesi quieti di mia lontananza.
Quanto a mè, allorchè sollevài la portiera nel raccontuccio presente, correvo il mio quindicèsimo: ero a pena sgattolajato dal ginnasio e cominciavo ad arieggiare l’uomo con barba. Ora, oltre a lavarmi e pettinarmi ogni mattina e, qualche volta, la sera, facevo gran consumo di saponi, manteche, pòlvere d’ìreos; attaccavo molta importanza al nodo della cravatta, alla freschezza dei guanti, all’arroccettatura delle camicie; ora importafogliavo i mièi viglietti da visita, intaschinavo un bell’orologio d’oro, con catena d’oro, dòndolo d’oro – indispensàbile per tener sbottonata la giubba – ed ora, come mi era messo tutto alla via, in punto, comparivo sul corso con una giannetta in mano, fulminando degli occhi le tose.
In confidenza, peraltro, osservo che sùbito li sbassavo e facevo lo gnorri se mai qualcuna mi reggeva allo sguardo... Che rabbia! E in questo, volere o no, saliva a galla ch’io era peranco bambino, in questo e in molte altre cose, chè – sebbene ora mi guardassi dallo sostare dinanzi le mostre de’baloccài – pure, le sbirciavo vogliosamente, impromettèndomi di sfogarmi a casa sotto pretesto di trastullar Giorgio e, tuttochè non mi andasse che mamma dicèssemi: Bibì o Guidino –- alla presenza di forestieri, a quattro, anzi a sei occhi, accomodàvomi sulle di lei ginocchia e le parlavo con un vocabolario di parolinette graziose, inintelligibili a tutti – fuorchè a noi.
Principiavo dunque, intenderete anche, a ingarbugliarmi in quella matassa di stùpide convenzioni sociali più geroglìfiche dei due bottoni che i sarti cucìscono dietro ai sopràbiti e càusa della maggior parte delle nostre pìccole miserie... Dio! quante pene io soffersi per esse. Tra le altre:
I° un terribile mal au coeur, avendo, come me lo si offriva, accettato e stretto fra i denti con disinvoltura un lungo zìgaro di Virginia – acceso;
2° una spellata di gola e due giorni di letto, regalàtimi da un fortìssimo punch, da mè coraggiosamente ordinato, in cambio dell’abituale aqua aranciata, trovàndomi in un caffè con mio cugino Tiberio, capitano di cavallerìa e vero imbuto di ghisa;
3° infine; i mille ed uno fastidi pel cangiamento di voce. Vi accennerò solo a quel dì in cui, entrato nella sala dove sedeva zia Marta con la signora Baglioni e la figliuola di questa – la quale, i mièi compagni, avèano erroneamente per una mia fiamma – avvisando di dare il buon giorno, m’inviài su ‘n tuono, cupo, profondo, e finìi con uno sì acuto, con una stonatura tale che Dora si portò il fazzoletto alla bocca ed io mi morsi le labbra.
Ma la cosa sulla quale mi preme condurre, più che su ogni altra, la vostra attenzione, come quella che apre la ragionìssima del presente racconto, è il completo riversamento nel mio naturale. Certo, molti di coloro che mi conòbbero spensierato fanciullo, vivendo giorno per giorno, allegro come uno scrìcciolo, me ne vorranno forse, perchè io mi ripresenti serio, riflessivo, alle volte triste, ma, oltre che i fatti son fatti, avverto come il modificarsi, il mutare de’ gusti sia inerente all’uomo, anzi, secondo mè, costituisca uno de’suòi principali caràtteri. Mio padre, da pìccolo, sentivasi fuggire l’ànimo alla veduta solo di un pezzettino di zucca: ora, ne mangerebbe entro il tè. Non poteva dunque – su via morale – ripètersi un tale caso a mio riguardo? E, invero, la melanconìa che Lisa coll’ùltima stretta di mano mi gettava nel cuore, si era a poco a poco inspessata e fatta morbosa; mi avèa condotto ad almanaccare, a – come babbo diceva – perticare la luna, scoprèndomi uno strano regno di spìrit ch’io non sospettava manco esistesse; un regno, se di diffìcile entrata, d’impossìbile uscita.
E ciò avèa fortemente scossi i mièi nervi. Sotto il chiarore del fantàstico mondo, le cose del materiale mi si colorìvano al doppio. Lodàvami, a mo’ d’esempio, il maestro? trac... io mi trovava balestrato nel salonone degli esami, dinanzi ad una tàvola col tappeto verde e con sedùtivi tre personaggi (cravatta bianca, marsina, decorazioni, sorriso paterno) de’ quali uno porgèvami un libro in rosso ed oro. – Oh! grazie – e tutto intorno scoppiavano applàusi. Così; pigliava una febbrolina a Giorgio? Madonna! scorgevo sul letto di lui il lenzuolo segnare le forme di un corpicino instecchito, scorgevo lì a fianco una cassa aperta... della segatura... fiori e chiodi. Da lungi, l’estremo tempello di un’agonìa; dalla stanza vicina, singulti.
Perilqualchè, capìto il mio sistema nervoso, torna piano l’imaginare quanto la festa – altro che quattro salti! – dell’avvocato Ferretti, mi scombussolasse.
Le feste, per chi non c’è abituato, fanno come il vino; mòntano al cervello. Tutte quelle lumiere con specchi che le raddoppiàvano; quel su e giù di gente che s’impacciava reciprocamente il passo, signori vestiti ad un modo e dallo stesso scipito frasario, domèstici livreati buffonescamente quasi come Ministri di Stato, dame mezzo svestite, con gonne di color zabaglione, gàmbero cotto, dorso di scarabèo... di raso, di mussolina, di velluto, con guarnizioni, nastri e fiori di pezza; e quel trimpellamento continuo, monòtono di un pianoforte; que’ colmi càlici di falso-Champagne, il tutto avvolto in un’aria calda, polverosa, che t’incollava la camicia alla pelle e ti essiccava il palato, mi avèano ubbriacato del tutto. Al che, se tu aggiungi un pajo di occhi che mi guardàvano fisi fisi, neri, birichini, come quelli della vedovella contessa di Nievo, uno degli astri della città, se... Dio! quando ci penso. Con mè, essa, avèa ballato la maggior parte de’ valzi, polche, quadriglie, a mè chiedeva il braccio perchè la scortassi alla cena – e le recài io medèsimo lo sgabellino, poi un’ala di quaglia – per mè, in quella sera, le lusinghiere frasette, le stralucenti zolfanellate. Pensate dunque quanto se ne dovesse tenere un giovanottino fuggito appena dal materno capèzzolo, sentèndosi il favorito di un ìdolo dei meglio incensati, vedèndosi su la di lui nera mànica il più rotondo sodo avambraccio che mai portasse smaniglie! Sarèbbene, fin un dei sette, impazzito... E proprio ci avèa motivo: nè più nè meno che per certe tosuccie dalla corta vestina, le quali, in quella stessìssima veglia, èrano – da un bel luogotenente degli Ussari, dai mostacchi biondi arricciati – tolte, non so perchè, esclusivamente a piroettare.
Da parte mia, m’abbandonavo, a una èstasi tale che sono sicuro di avere commesso a quel ballo, e sùbito dopo, le più majùscole farfallonerìe. Bàstimi ricordare come dimenticài affatto, partendo, di riverire gli òspiti, e come, accompagnata la contessina, giusta il suo desiderio, fino a’ pie’ della scala e sospirato all’ùltima languidìssima occhiata di lei e vìstala scomparire, ravvolta in un bianco scialle, nella carrozza, presi a camminar verso casa sotto una folta neve senza nemmeno aprire il paraqua, poi, giùntovi, stetti un buon quarto d’ora, frugando e rifrugando nelle saccoccie, prima di rinvenire la chiave della porta di strada, una chiave, diàvolo! lunga dieci centimetri,
Con tutta la mia agitazione, peraltro, riuscii, come già sapete, fortunatamente, a non far cigolare gli usci e ad entrare nella càmera, non intoppando in spigolo alcuno, nè interrompendo, un àtimo, a Giorgio il suo tranquillo respiro. Entrato, in vece mia, buttài sul letto (dalla solleticante rimboccatura, con due calzerotti di lana rossa al guanciale) la tuba, i guanti, il sopràbito e, punto badando alle palpebre che tiràvano a chiùdersi, mi lasciài cadere su di una sedia presso alla tàvola, sopra la quale avèo allogato il lume e a capo di cui – basso il tendone – piantàvasi un teatrino portàbile, delizia di Giorgio ed anche spesso mia.
E lì, poggiài sulla tàvola i gòmiti: fra le mani la testa... a scoppiar bolle di aria.
Che tuttavia contenèssero mai, mi duole, mièi cari, di non potèrvelo dire. Punto primo: egli è impossìbile di imprigionare – salvo che dentro un rigo da mùsica – certi pensieri che fra di loro si giùngono, non già per nodi gramaticali ma per sensazioni delicatissime e il cui prestigio stà tutto nella nebulosità dei contorni: un tentativo di abbigliarli a perìodi con il lor verbo, il soggetto, il complemento... so io di molto! li fuga. Punto secondo: avessi io anche la potenza, la quale nessuno ebbe nè avrà mai, di acchiapparli con invisìbili maglie, di presentàrveli come vènnero a me, bisognerebbe che voi, per non trovarli ridìcoli, per non trovarli bambinerìe, foste, leggendo, nella medèsima disposizione di spìrito del loro scrittore. Il che, fra noi, non può èssere. Quando la fantasìa nostra si affolla, quando ci scordiamo di vìvere con pelle ed ossa, un libro – stretto da noi e con amore, prima – ci sfugge inavvertitamente.
Dunque, pazienza. Vi accennerò solo che, alla fin fine, schiacciata entro lo staccio, tutta la biribara de’ mièi pensieroni non la filava altro di questo: che l’ingattimento della contessa di Nievo per mè – quantunque mezza-bottiglia – era fuori del forse e che io riamàvala alla spietata... E allora?
– Dormi – consigliommi la polpa.
Bah! avevo trincato troppi romanzi.
– Scrivi – mi vellicò, dall’altro orecchio, l’imaginazione.
Io sobbalzài. Una lèttera, eh? E come ne intravidi l’idèa, di colpo, con quella stessa foga che, pochi mesi innanzi, pressàvami a comperare – venti per volta – le scàtole de’ soldatini di stagno, diedi di grappo alla cartelletta, l’aprìi, intinsi nel calamajo la penna... cominciài...