L'Alcibiade fanciullo a scola
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‹L’AUTORE› A CHI LEGGE
Li antichi filosofi, o lettore, nell’insegnare ai loro discepoli l’uso di belle lettere, incomminciavano da bel principio a cacciarli la loro scienza per lo buco di dietro. E dicevano loro che in modo tale sarebbero riusciti perfettamente dotti, quando per questa via ricevessero la virtù dei loro precettori.
Ma se mai il mondo è stato prodigo di vizii nelle scole, ora si può chiamare col non plus ultra. È arrivato a termine, dico, che può dirsi teatro d’obbrobrii, scena di vituperii e albergo di tutti i vizii; i precettori in questi tempi osservano l’istesso uso degl’antichi nell’insegnare a fanciulli. E se averai di ciò osservato, da molti avrai inteso dire che dall’ingordigia del maestro, nell’infondere le sue scienze nel discepolo, e per fretta, li hanno il piú delle volte rotto il ricettario.
Tu dunque, mentre leggerai la scola d’Alcibiade, conoscerai il modo per far perfetti nelle scienze i tuoi figlioli, levandoli da maestri di Sodoma. E vivi felice.
DI M.V. AI MAESTRI DI SCOLA
Udite o voi, maestri babuassi,
che la scienza per lo cul cacciate
a fanciulli da scola, e mai non fate
che riponer ne l’ano i vostri spassi.
Pitagorici infami, radagassi,
vi vuo’ chiamar, che con vostre sfacciate
maniere, ognor in tondo rimirate,
come se ’n vulva non vi fusse chiassi.
Sentite il gran maestro, arcipoltroni,
che scuopre omai vostre poltronerie,
onde taglievi il cazzo, o buffaloni,
che se sentite un putto in allegrie,
che dica cazzo, over dica coglioni,
le fate in cul intrar tal villanie.
LO STAMPATORE AL CORTESE LETTORE
Capitatomi a caso questo libretto, o lettore, ho voluto inviartelo in stampa, parendomi curioso e degno della tua lettura. Da questo potrai imparare a ben invigilare a’ tuoi figlioli, per sottrarli dalla malvaggità de’ cattivi e pessimi maestri, li quali in questi tempi abbondano.
Ti prometto in breve la seconda parte, intitolata il Trionfo d’Alcibiade, che tanto piú sarà curioso, quanto che è parto della piú dotta penna di questo paese. Attendila quanto prima. E voglimi bene.
ALCIBIADE FANCIULLO A SCOLA
Era il fanciullo Alcibiade di quella età appunto, in cui la natura industre, con piacevoli scherzi, sotto sembianze divine, confonde con maraviglie amorose il sesso feminile. E di donzella tal era forse allor Ganimede, quando ebbe forza di tirar Giove dal cielo in terra, per rapir lui dalla terra al cielo. È termine questo tra gl’uomini e tra gli dei, archivio di tesori inesausto, in cui ognun ritrova quello che nelle delizie d’amore piú si desia; bersaglio amoroso di due prospetti, all’un de’ quali corrono a gara le fanciulle anelanti, all’altro precipitano idolatri e riverenti i piú dotti e li piú savii.
Tal era dico allora, quando dal provido consiglio de’ suoi tuttori fu destinato alle scole. Eletto a sí fortunato officio fu tra molti Filotimo: questo, d’età virile, venerabile d’aspetto e di maniere, con tal misura aggiustava l’opre della mente e del senso, che con incomparabile prudenza e providenza si rendea grato; sapea trasformarsi con tutti, e nell’infonder soda e profonda dottrina ne’ petti altrui, mostrava che ne aveva vera intelligenza dell’operare.
I principali d’Atene ambivano di commetter alla sua fede, di soggiogare al suo impero i piú cari pegni dell’anime loro, le sue imagini ritratte al vivo dalla natura, i suoi dolcissimi figli. Avevano la sicurtà dagl’eventi negl’altri, la certezza della sua fama. Già non era in quel tempo chi degnamente tra giovani sapesse, che non avesse bevuto nella fonte limpidissima di questo gran uomo.
A questo dunque fu condotto Alcibiade, e con modi di libertà civile n’ebbe il possesso magistrale. All’apparir di questo novello sole, la bellezza di tanti altri fanciulli, che quivi erano, languí e perse il suo lume e la stima, come fanno le stelle nell’aggiornarsi. Diana tra le sue ninfe ne’ boschi non è cosí cospicua e riguardevole, né Cerere apportò tanto splendore di grazia ne’ regni stigii, come fece questo allora in quel loco.
Egli, con leggiadra e agile disposizione della persona, con moto regolato e spedito, mostrava di non moversi ad altro fine che per aprir i cori, per impossessarsi dell’alme. I crini inanellati, ridotti in forma di fiori, cadendo con ordine distinto sopra le spalle, facevano scorno nel paragone alla porpora, all’ostro e all’oro. Gl’occhi, rinchiusi nel vello di due ciglia, inescavano sotto il regal padiglione delle palpebre, vergate d’avorio e di rubini, di color ceruleo, illustri di proporzionata grandezza; maestevolmente grati scoccavano piú dardi d’amore a riguardanti che non prendevano imagini dagl’oggetti ch’essi miravano. La fronte di maestà spaziosa mostrava un sereno celeste nella piú bella aurora di primavera. Le guance miste di cinabrio e di latte, in un ritondo ovato e ben pieno, asperse di ligustri e di rose, superavano le vaghezze degl’ameni giardini di Tempe. Il corallo animato che in quelle labbra divine rosseggiava, con giusta tempra, avrebbono (potentissima calamita d’amore) attrato ai baci le statue inanimate, e gli avrebbe data l’anima e vita con essi. Le perle orientali, che in ordine di dorica architetura splendeano in quella bocca divina, lambite vezzosamente da un purpureo ristretto lenguino, invitavano non le api a trarne favi di miele, ma i dei del sommo cielo a pigliarne ambrosia di paradiso, e a cavarne materia di cera per uno degl’eterni loro gloriosi fuochi, onde averebbono fatto scorno alle stelle. Il naso, che a giusto profilo scendea maestevole sopra la bocca, ornamento pregiato del viso, compimento di vera bellezza, simbolo de’ piú gradite parti recondite e per se stesso mirabile, e nel mistico sembiante augurale con nari di artificioso e vago intervallo, con rivoleto cinto di piccioli arginetti di latte, sin all’estremo del labbro superiore dava non mediocre decoro all’eccelso della sua grazia. Né il candidissimo collo riceveva oltraggio nella comparazione dell’altre membra ignude, già che pieno, ritondetto e vermiglio, non longo né dimesso, vergato di vene vivaci, era convenevole base alle sopra umane fatezze del viso. Le mani corrispondenti al resto, attilatamente ripiene, longhette, morbide e con deti tornatili, davano indizii espressi di poter or trattare soavemente l’armi d’amore, ma piú mature e piú forti gli stromenti fieri di guerra. Le altre membra ricoperte dall’invida veste, che con opporsi al desiato sguardo davano occasione e arra al piú cupido senso di contemplarne i penetrali e d’immergersi piutosto con l’opre, che con il pensiero, non cedevano punto alle sudette, anzi con regolata simetria, se ben ad altr’uso, ad altro diporto, ciascuna di esse in qualche modo alle predette corrispondeva: il petto alla fronte, i pomi alle guance, il genitale al naso, il giardinetto alla bocca, il mento all’ombelico, i piedi alle mani, le cosce alle braccia, il profilo del volto al ventre, e il colore ai colori.
Ma la gioia inestimabile di questo tesoro era l’angelico della favella: egli con voce tanto soave esprimeva prontamente i caratteri delle parole, con pause cosí ordinate terminava i periodi del ragionare, che a guisa di sirena incantava gl’animi di dolcezza, non per privarli di vita, ma per tormentarli, vivendo, d’amore. All’aprirsi di quella bocca celeste, s’aprivano stupide e ammaliate le bocche de’ circostanti, esalavano l’anima per dargli piú grato albergo con l’anima sua; l’umana favella di articolate note ha forza insuperabile di vincer anco le bestie e far sensati i sassi, come s’allude ingegnosamente d’Orfeo e d’Anfione. La lingua d’angelico sembiante è fulmine ch’abbatte i cori, catena che in pregionia d’amore fa perpetui i legami dell’alme. L’abito puerile, con toga contesta di varii fiori, col vivace de’ colori brilanti, partorirà le maraviglie che dalle nubi rugiadose apportano i raggi di Febo, apporta novo apparente sole alle menti degl’uomini idioti. Il riso modesto e giocondo era il tesoriera delle grazie, nonzio fedele d’amore e giardiniera de’ gaudii. La grazia, dono immortale di Dio, come non conosciuta dai sensi, non esplicabile dalla voce, cosí appresentata alla mente l’atrae con soavissima volontà, la fa cattiva e non impiamente idolatra, e vigilando con questo divino impronto le bellezze supreme, di umane le rende celesti e divine.
Questo novo Cupido, questo angeletto del paradiso consegnato da’ suoi ruttori al maestro, fu da lui con maniere civili tirato dagl’altri in disparte; e doppo averlo cupidamente mirato gli parlò in questa forma:
– Al aspetto vostro regale, alla grazia vostra divina, gentilissimo mio fanciullo, si piega con prontezza e umiltà non ordinaria l’animo mio. E se all’ardente mio desire tirato in piú intimi officii dai meriti vostri risponderà il vostro volere, con straordinarie prove saranno effetti di maraviglia, quasi che dal mio informarvi e dalla vostra capacità si vedranno non degenerate. Vi prego pertanto dall’indole elegantissima che mostrate, ch’io piú affettuoso che padre, piú sollecito che precettore, inserirò nella vostra retentiva semi non usati naturalmente di dottrina feconda e dilettevole. E il rigore, che per dovuta riverenza inserisco ne’ petti degl’altri fanciulli, al primo arrivo di essi, in voi sia arra di confidenza e di piacere. Ecco onestamente vi bacio, eccovi il pegno del affetto mio, della vostra libertà –.
Non appariscono mai tanti colori nell’iride, né si orna di tanti fiori un prato a mezo aprile, di quanti s’ornorono le guance del fanciullo in quel atto. Pure, come che il rigido naturalmente dispiace, e il piacevole aletti e lenisca, con aprir il tesoro delle sue gioie, gradi cortesemente l’affetto del precettore. E fuggando il timore che ingombra le menti de’ putti novelli ne’ principii delle loro scole, ne concepí pensieri liberi e confidenti.
Non mancava tratanto la diligenza del maestro, né men la prontezza del fanciullo, ai dovuti officii di scola, ma erano per lo piú privati, e in stanze separate dagl’altri.
Cosí conveniva ai dissegni, all’interesse, all’impresa del maestro. Già il bolzone che aveva ricevuto nel core dal impeto incomparabile di Cupido, con influssi incomprensibili inaffiato, era germogliato e cresciuto tanto sproporzionatamente davanti, che se non gli dava il trapianto nel ameno giardino del putto lo tirava sino alla morte. Per castigo che nelle sue composizioni talora meritava il fanciullo, gli dava soavi baci il discreto precettore.
– Ecco – soggiongendo in un tempo – come s’insegna a pari vostri, gentilmente. I schiaffi e le battiture agl’altri, con trasformazione di maraviglia, dal maestevole del vostro viso si risolve in amorosi baci. Cosí ricerca il dovere de’ vostri meriti, il discreto de’ vostri costumi. Graditelo, dunque, o figlio, non vogliate degenerare dalla nobiltà de’ vostri antenati. Non macchiate l’anima vostra regale col sordido di vilissima ingratitudine: ribaciatemi, anima mia –.
Al che, pronto, l’amoroso fanciullo feriva e sanava insieme le piaghe del trafitto maestro con baci ch’apportavano morte di dolcezza immortale.
– Non sono – soggionse il maestro – baci d’amicizia leale e sicura quelli che quasi forastiero e nemico non si ricevono dentro la bocca: gli amici si conducono in gabinetto. La lingua primiera baciatrice vuol entrar nella bocca de chi è fedelmente baciato. Ivi è il suo albergo, quello è il suo fine baciando. Contentatimi figlio, date compimento non manchevole all’opera, sporgetimi quella lingua divina. Ecco, ecco, la prendo –.
Risospintosi alquanto adietro a questo novello assalto, il fanciullo divenne pallido e tremante. Il maestro, pur rincoratosi alquanto:
– Non temete – ripigliò – figlio, che non offende la lingua in bocca; è ben causa di ruina tallora, quando baldanzosa oltre i confini del giusto scorre di fuora. L’eloquenza che dalla mia dottrina attendete, investigatavi con diligenza da’ vostri tuttori, apparecchiatavi con fedeltà da me, è impossibile conseguirla se non fia la vostra lingua congionta alla mia. La mano porge industria alla mano, la mente alla mente, e alla lingua la lingua. Accostatevi, accostatevi, o mio caro tesoro –.
E presolo nel istesso tempo nel seno, le parole erano accompagnate e prevenute anco dai fatti.
Ebbe pienamente quanto bramava, si raccolse allora tutta l’anima sua nelle sue labbra, né altro era la sua vita che un bacio; e se dal fragante spirito del fanciullo, che soavissimo spirava nelle sue viscere, non fosse il spirito del maestro stato risospinto al suo loco, al suo officio, restava realmente esangue ed estinto. Ma per riferir i particulari casi distinti manca l’intelletto e la lingua. Anzi, cedendo la penna al suo carico, per adesso lascia l’incarco de’ cosí alti misteri all’altra mia penna viva, che da se stessa gravida del concetto che gli diffonde la mente, e il desio soavemente anelando, e dibattendosi in mille modi, si raffigura il fatto e ritrae al naturale senza parole la contentezza del fortunato maestro.
Piú oltre si estendeva il desio: non erano i baci il termine del suo dissegno, non solo noncii e forieri, ma sono trombe e incentivi d’imprese piú gloriose; se in essi si ferma il corso dell’imprese amorose, l’amante ne resta con modo amarissimo tormentato e ucciso; non altrimenti che se ad uno per longo digiuno famelico gli si mostri vicino il cibo, gli si conceda legermente gustarlo, ma se gli neghi il sufficiente o necessario alimento. Or sopra questo spasimava il maestro, quivi era rivolto ogni suo sforzo, in questo importante negozio raccolto, languiva in ogni altra sua azione. Di questo parlava figuratamente il giorno, si sognava continuamente la notte; parevagli ardua l’impresa, pericoloso il tentativo, di scandalo e vergogna l’essecuzione: e tutto era niente rispetto a’ suoi martiri, a’ suoi tormenti.
Anima inescata da vezzi di ridente e legiadro fanciullo è furia agitata nell’inferno, se non è moderato l’ardore dalla speranza, se non è finalmente refrigerato e fatto sano dalle opere. Attende dunque opportuna l’occasione al disegno, e in loco di correggere e castigar il fanciullo de’ falli, lo regala de doni grati e onorevoli. Gli gradisce, ne sorride e ne gode il fanciullo amoroso e ben trattato; ed egli attesolo al varco l’abbraccia, se lo stringe al seno, e piú agile d’un falcone, e piú presto d’un baleno, per le piú intime parti ignude scorre con l’avida mano.
Si contorce un poco il fanciullo, con atto sdegnosetto, sí che negando aletta; e con un misto né dava vigore all’appetito, condimento al diletto, né ributtava in fatti, mentre il maestro ricercava il morbido solidetto di quei beati pomi celesti con fughe e tratti spediti, nel brilantino s’imparadisava di modo che, con desiderio eccessivo e vano, concepiva eternità felice e piena nel transitorio. Durò il piacevole gioco sin che sturbato da affari importanti fu sforzato desistere; ma restò cosí giocondamente stupido, che solo a questo pensiero intento cessò dai consueti esercizii.
Levò le ferie per molti giorni, e mostrava nel placido sereno del suo sembiante d’aver gustato di quei profondi misteri celesti che non è facile agl’uomini esplicarli. Il che era vero del modo, ma non del essenza del fatto. Già era doviziosissimo di queste grazie, né trovò mai fanciullo cosí restio nelle sue scole che, vinto dalle sue umane e cortesi maniere, non si rendesse vinto nelle sue braccia, non gli concedesse quanto bramava, vincolo di scambievole benevolenza, condimento delle fatiche scolastiche, scienzia fecondissima e sicura d’indubitato profitto.
Ma quanto la bellezza d’Alcibiade s’estolleva in eccesso sopra degl’altri, tanto i diletti seco sarebbono sopra a gl’altri di gran longa maggiori. Tendeva intanto l’agitato maestro al ultimo fine; si risolvé con ardire e ardore invincibile goder il piú desiderato, dolcissimo frutto d’amore.
La trattabilità del putto l’affida, l’ardire suo proprio gli fa saldissimo scudo, e amore lo sforza e induce.
Il giorno seguente dunque l’essorta che accelleri il consueto venire per i servizii di scola piú importanti, per non ricever disturbo dalla scarsezza del tempo. È pronto per compiacerlo il fanciullo, pur, prima che si appresenti, non ritrova riposo il maestro.
Siede a mensa, ma si leva ad ogni boccone, passeggia mangiando, ad ogni batter di piedi corre al balcone, alla porta:
– Chi è colui che passa? Chi parla? Chi è venuto? –, sempre addimanda.
Conta i passi che s’imagina far il putto; gli par troppo tardi, gli par d’esser schernito, onde perde la baldezza del favellare. Tien fissi i lumi a terra e, fatto di color cinericio, quasi dispera del conceputo bene. Stima passata l’ora, seben non era di gran tempo arrivata. Quando ecco all’improviso il fanciullo suscitò il quasi moribondo maestro.
Godono i tuttori di Alcibiade di questa sua pronta diligenza, gli par miracolo non ordinario che un fanciullo di quell’età sia piú sollecito delle scole che del cibo. Commendano e inalzano con encomii al cielo il maestro, fanno argomenti di sovrani i profitti del fanciullo. E se ad alcuno cadeva in pensiero altri zeli, altro desio, la buona fama del precettore gli s’opponeva, né lasciava che si dasse il consenso all’imaginazione.
Gionto, come ho detto, il fanciullo alla casa del maestro, egli, che ansioso l’aspettava sopra la porta, presolo in un tratto per la mano, entrato in casa e regalatolo di soavissimi frutti, lo condusse al solito nella sua camera; e con ardir eccessivo corre ai consueti abbracciamenti, senza mostrarne alcun sdegno il fanciullo.
Non già si ferma quivi il precettore, ma con la man tremante, senza alcun argomento di parole, vien discoprendo le parti ove s’annida amore, ove era drizzato il termine de’ suoi piaceri, ove voleva sacrificare il suo sangue per olocausto alla dolcezza. Mentre stette in un segno da potersi prender indifferente, da potersi connumerar tra vezzi, non recalcitrò ponto il fanciullo; ma quando lo vidde gionto a tale, ch’era chiarissimo il dissegno del maschile schiavone, che già aveva accostato il cannone per battere ed entrare nel forte, alterato in faccia e nella voce, con gl’occhi pregni di lacrime e disdegnoso:
– Io non credea – cosí disse – che pretendeste tant’oltre; che aveste pensieri di cose indegne; che la gravità che mostrate nel aspetto ardisse di profanar la pudicizia de’ fanciulli onorati, commessi alla vostra fede, soggiogati alla vostra disciplina. Il fine da chi ne manda è che apprendiamo dottrine e virtù civili e morali, non che diventiamo bardassi. Se voi ci insegnate questo, chi ne riprenderà? Chi darà esempio agl’altri? Se ad un uomo dell’età vostra e condizione tale sta bene commettere di questi errori, che si deve conceder a’ giovani? A quelli che per età e stato diverso è permesso il venere piú libero? Fate queste cose con gl’altri putti? E se ciò è vero, che dicono i padri loro? A quali pericoli vi esponete? Insomma, non voglio acconsentirvi –.
E ciò detto, col volto alquanto sdegnoso, non già che mostrasse estinta la pietà, né meno impetuoso, si tolse dagl’abbracciamenti del maestro; e senza uscir dalla camera si pose seco in altri famigliari discorsi, talché ravivò la quasi estinta speme del maestro, e tanto gli scoperse di confidenza, che s’arrischiò di parlargli in questo modo:
– Alcibiade, mio dilettissimo figlio, perdonate all’ardire del vostro amantissimo maestro, non afligete chi riverente vi adora; non ha da esser fuggito e aborrito chi con termini sviscerati di confidenza vi accarezza. Gl’amici e gl’inimici si distinguono da questi segni: questi si fuggono e si fuggano, quei s’accolgono e s’abbracciano. Amore, saettando i cori, non discerne né condizione, né età, né sesso. Il vostro aspetto divino, ritratto nel piú interno de’ l’anima mia, ha quivi preso forma vitale, e, fattosi signore del mio afflitto core, qui tiene il suo seggio e impera, sí che l’anima mia esule dal suo albergo si è retirata nel vostro, e non discernendo il suo ius da’ suoi effetti opera amorosamente con voi, nel modo che farebbe seco medesima.
Amore, vibrando lampi di foco da’ vostri bell’occhi, fu primo ch’impresse in me l’imagine vostra, e infiammandola la trasferí cosí viva nel vostro seno. Ma misero è dentro voi, e voi non sentite gl’incendii miei; il freddo del vostro core s’oppone, anzi, riflettendo gl’ardori, gli fa cosí intensi che se nel fonte del vostro bel giardinetto non troverà refrigerio, mi vedrete in breve ridotto in cenere; e sarete pur omicida e parricida de chi con ardor misto d’uomo e di padre, in varii modi, senza misura vi ama e vi brama. Non vi recate a vergogna aver per fedel amante il vostro maestro, che la nobiltà della vostra nascita si ricompensa e adegua in parte dalla fama del mio sapere, dalla prerogativa del mio carico. La divinità del vostro bello, supplicata dal frale del mio desio, per operar alla divina, non ha da esser se non clemente. I belli condescendono alli preghi degl’uomini, e all’umiltà di questi risponde la grazia di quelli. Venere fu goduta da Anchise, Diana da Endimione, l’Aurora da Titone, le ninfe da pastori e da silvani. Eccomi prostrato avanti la vostra maestà: aspetto sentenza innapellabile di vita o di morte –.
Presolo subito per il braccio, umanamente il fanciullo:
– Non vogliate – gli disse – far atti disonorevoli a’ vostri confidenti. Io non m’oppongo a’ vostri desiri perché non conosca i vostri meriti, perché brami il vostro tormento; non sono nato di tigre ircana, non ho il core di pietra, né l’anima senza sensi; ma l’onestà si vergogna, le leggi e la natura lo proibisce. Però temperate i vostri ardori, restringendoli a’ termini piú angusti e piú discreti; prendete quello che lecitamente e con voglia prontissima vi concedo: i baci, gl’abbracciamenti, il tatto indifferente e gl’altri vezzi ve li concederò cortesissimo sempre; ma non pensate ad altri effetti piú oltre –.
Respirò allora il sbigottito maestro, e assicurandosi che non fosser per proceder avanti i sdegni conceputi dal fanciullo, restò grandemente consolato con indubitata speranza che con piú duri assalti, con piú maturo consiglio, averia al fine espugnata la rocca, e nelle guerre d’amore averia trionfato di dolcezza ed eretti trofei di gloria; e per non mancare ai motivi e alle obligazioni presenti, tiratosi in disparte, gli fece un volontario sacrificio di sua mano.
Era solito in simili accidenti dar l’alternativa alla commutazione degl’oggetti, senza venire a questo atto da manuale; ma non parendoli che nella sembianza d’altri si effigiasse apparenza alcuna all’incomparabil bellezza di questo fanciullo, fece pronte le mani a questo officio, trattando con l’imaginativa l’essenza del suo riverito nume.
Era però a questa sola impresa con ogni spirito accinto; ogn’altra cosa aveva posta in non cale; il tutto aveva a nulla, eccetto che di ridurre alle sue ultime voglie il fanciullo. Un giorno dunque s’affidò di parlargli liberamente in questa forma:
– È atto di persona ragionevole, Alcibiade mio dilettissimo, fare o restar di fare ciò che gli piaccia con regole ragionevoli. E se voi sete tale, come chiaramente in ogni vostra azione si vede, ditemi, vi prego, qual cagione vi move ad esser inesorabile e crudo nell’ultimo bramato contento al vostro amantissimo maestro; che sebene in quel passato conflitto accenaste alcune cosette, io non gli posi mente con attenzione, né stimo che procedessero da animo riposato, e che parlaste sul sodo.
Desidero dunque saper da voi la causa vera de cosí dura repulsa, l’occasione fatale del mio morire; e se altro non abbia che il voler vostro, offenderò me stesso per non offender voi; e senza piú molestarvi sarà la vostra bellezza omicida dell’esser mio, sarà la vostra spada il mio dolore, e mi morrò tacendo.
– Non è il mio volere cagione del dolor vostro, dilettissimo precettore – rispose Alcibiade –, troppo sarei disumano, troppo discortese e ingiusto. Altre sono le cagioni patenti e secondo ch’io penso insuperabili; le quali, perché non crediate ch’io finga, voglio ramentarle ad una ad una.
La prima, a quel ch’io sento da uomini peritissimi, che nelle mie case conversano con miei maggiori, è vizio questo nefando abbominato dalla natura, e contro natura lo chiamano.
Lo vietano le nostre leggi; l’aborrisce Pallade nostro nume singulare in Atene; e narrano che i dei prendeva castigo col foco, col solfo e col bitume d’alcune città macchiate di questo fallo, sí che ne restorno estinte e somerse; e per memoria del fatto si credono ancora ivi i luochi sulfurei, con arbori e frutti in apparenza vaghi, entro però siano pieni d’orride faville e di cenere, vestigie della seguita vendetta di Dio. Né che le pene temporali siano meta al castigo, ma che nell’animo separate si essercitino pene incomprensibili eterne.
Non volete ch’aborrisca? Che mi spaventi e fugga? E voi come non temete queste minacce? Come v’arrischiate a sí fatti pericoli? Liberatemi da questi dubbii, o abbandonate l’impresa e il pensiero.
– Deh, vezzoso fanciullo – replicò il precettore – se l’intelletto vostro fosse capace de’ misteri tanto importanti, vi discorrerei su il grave, e vi farei conoscere che queste gioie celesti sotto velame d’orrore si celano da’ giudiziosi, per non accomunarle alla plebe, per non darne dovizie a ciascuno. Le cose preziose sono pregiate per esser rare, le cose sacre sono venerabili per esser recondite: se i fiumi corressero di latte e di miele, sariano meno stimati e piú vili il latte e il miele di quello che sia l’acqua.
Gli vogliono i politici per bocconi di riserva, per salvaticine di pregio, per frutto vitale e unico. Ma per non mancare al dovere vedrò d’aprirvi e abilitarvi la mente al possibile, e procedendo ordinatamente farvi capace e intelligente del tutto. Veniamo pertanto ai particolari da voi proposti.
E primo, che questo sia vizio contro natura, è una allusione ridicola amplificata dagli statisti, né per altro in effetto che essendo nelle donne posto il fiore contro, overo posto all’opposita parte della fica, che natura chiamano, all’uso di quello hanno detto contro natura. Non crediate però che si dica natura la fica perché sia piú naturalmente desiderata del fiore, ma solo perché da quella nasce l’uomo, e il nascere dagl’intendenti si dice natura; or che questo soavissimo diletto non abbia da chiamarsi, né sia, contro natura, il dittarne stesso delle leggi di natura chiaramente lo dimostra.
Sono naturali quelle opere a cui la natura ci inclina, de’ quali pretende il fine e l’effetto. Se adunque è naturai inclinazione veder de’ bei fanciulli, come sete voi, contra natura? E se l’istessa natura non fa cosa oziosa né vana, non comincia per non fornire, avendo poste bellezze nei fanciulli che eccitano i cori ad amarli e riverirgli, ha da lasciar gl’amanti sospesi in aria? Hanno da esser per nulla? Oziosi, inutili? No no, oggetto dilettevole adeguato al desio, che tendendo al suo bene ha per ultimo il compimento.
Non ha l’istessa natura inserto amore tra piú simili? Or non ha maggior somiglianza col maschio fanciullo l’uomo, che il maschio con la donna? L’aver a’ fanciulli dato sembianza di donzella all’aspetto, non ha insinuato che si converta l’uso in un altro uso? Non è ella e le sue cose tutte di maggior valore e piú degne, se a piú usi s’adattino? Perché cosí è stimata la mano, che vien detta regina degli stromenti del nostro corpo, se non perché è in molti usi spedita? Perché s’applicherà ad un sol uso, e sordido, quello che applicato in altre regole fa beati gl’uomini? Perché questa gentilissima parte, a cui per testimonio d’onoranza gli ha conferita la sua propria figura il cielo, servirà solo a cose immonde e servili? No no, che quello fu condimento per farlo piú saporito e grato; e perciò i bocconi stessi di quelle parti degl’altri animali, ridotti ad uso di cibo, sono piú soavi e piú dilettevoli al gusto.
La fica averà dunque l’uso de l’orinare e dar dolce, e questo vago fioretto amoroso gli cederà nelle prerogative, e servirà solo in loco di vilissima e immonda latrina?
Stimate voi la natura cosí improvida? È forse invida al nostro bene? Impoverisce ella nelle delizie nostre? Gli si rubba cosa ch’ella non voglia? Se il tutto ha fatto per noi, il tutto a sua gloria è ragionevole che si goda da noi. Chi non si serve de’ suoi doni la dispreggia; chi non mette in esecuzione le sue invenzioni si disnatura e gli diventa ribelle, onde merita d’esser tolto di vita; ella ne somministra il piacere, perché godendo noi la celebriamo per cara, provvida, ricca e cortesissima madre.
Queste cose discusse dai sapientissimi Spartani, hanno ridotto a leggi quel che la natura, con muto parlare, n’addita; vogliono dunque che ciascuno degl’uomini elegga un fanciullo per suo amoroso, e duri l’amor legato sinché il fanciullo sii in fiore, poi si commuti in un altro piú giovanetto. Sopra questi cardini hanno la stabilità della loro antichissima, inviolata republica; questo è il vero legame di benevolenza e di amicizia. Chi manca a questo istituto è giudicato nemico della sua patria e di se stesso.
– Ora – soggionse Alcibiade – a qual fine son create le donne, se in suo loco con maggior diletto, come voi dite, possono usarci i fanciulli? Che faranno le misere? Forse una farà officio di maschio e l’altra di femina? Overo, inutili al mondo, si leveranno dal numero de’ viventi? Opur, a guisa di tante bestie, serviranno per mere schiave, e in altro conto che d’essercizio donnesco? E i fanciulli nasceranno dai putti? O aspetteremo un altro Prometeo, che ne formi di terra? O nasceremo de denti di draconi, come si favolleggia di Cadmo, o dalle foglie, o da sassi, come narrano di Deucalione e di Pirra?
– Alcibiade mio – rispose il maestro – voi non attingete a pieno. Varii sono gl’appetiti negl’uomini, potentissimo de’ quali e commune a tutti i viventi è il generare e produrre altri della sua specie, per mezo di cui l’eternità non concessa ad alcuno de’ mortali si conseguisce nella natura commune; questo desio pertanto è bastante che non pongano in oblio le donne, che non si facciano serve, che se gli conceda il tributario diletto di Venere.
Ma che? Forse sempre si prendono o devono prender i piaceri amorosi per generare? S’averà d’aver tanti figlioli quanti diletti carnali? Son follie lontane dal vero sentimento e dal giusto. Poiché la donna è fatta gravida, si è conseguito il fine per lei; ed essendo ella divenuta madre dell’uomo si riscote dalla viltà di servaggio e concorre di qualità con esso. Né mancano di quei che piú a loro che a’ fanciulli inclinano. Il che accade per due cagioni: una, che la natura provida, acciò non vadino in abbandono, dando inclinazione verso di loro a molti, le fa partecipi del suo amore, e quando si conseguisse il fine del generare; l’altra è questo vano timore, che, conceputo negl’animi della plebe, con gravidanza d’orrore partorisce effetti di violenza e di tormento. Potriasi aggiongere ancora che la tenacità d’amore riceva stabilità nell’oggetto amato: svanisce con la puerizia il bello e il grazioso de’ putti; dura piú longo tempo nella donna; e se in ciò fossero eguali sarebbono poco meno che escluse in tutto le misere. E invero, che questo solo è manchevole in sí fatti diletti de’ fanciulli; ma è eccitamento al desio, sprone al ricompensare col spesso e col intenso il fugace e il breve. Chi dunque s’affatica immutabile nell’amar un soggetto, per non restarne privo, piú facilmente s’appiglia alle donne.
– Se la natura – disse Alcibiade – non proibisce quest’uso, onde avviene che essendo ella l’istessa e piú pura negl’animali, non gl’inclina, per quanto si vede, a questo?
– Alcibiade mio bene, voi sete aponto fanciullo. Ditemi, di grazia: averete voi apparecchiato un convito d’ugual condizione per un prencipe e per una persona privata? Non certo. Volete dunque che i bruti concorrano in un segno medesimo di piacere con gl’uomini? Se sono inferiori di statura, di senso e di fine, come non saranno ineguali nelle opere? E se in ciò con gl’uomini concorressero, non doverebbono concorrer nel resto, onde averebbono città, ville, case, arti, magistrati, leggi e tribunali? E non sarebbono bruti, ma republica d’animali ragionevoli.
Se adunque la natura industre, diretta ne’ suoi affari da intelligenza non errante, ha sopra tutti prodotto nobilissimo l’uomo, a porzione di lui ha da donargli il resto; o che sarebbe manchevole e discortese. Concede ad essi viver d’un medesimo cibo, e se l’uomo non lo variasse nella continuata abbondanza, resterebbe bisognevole e lasso. A questo appetito del gusto risponde nel suo essere l’incitamento del tatto, e se quello per un sol cibo resterebbe famelico, questo per una sola specie di dolcezza venerea saria povero e mendico. E come vi pare che potesse chiamarsi cortese e magnanimo colui che ad un suo ospite nobile e grande, per longo tempo, classe sempre a mangiare un sol cibo abietto e vile, avendo copia e dovizie del tutto? Bella providenza dell’alma madre, che a’ suoi piú cari figli conceda solo quello che liberamente ha concesso ai conigli e alle mosche.
Ma se vi dicessi anco che per insinuar questo suo esser effetto, e non simplice elezione o capriccio del nostro albitrio, aver l’istessa natura, quasi scherzando, postone incitamento anco nei bruti? Ma non sapreste rispondere. È ben vero però, che per esser le bestie de sensi men delicati degl’uomini, non sono le loro operazioni colmate di diletto dalla conoscenza, perciò né pienamente conoscono questi beni, né cosí ardentemente come gl’uomini li bramano; gli riescono però a misura della loro condizione; non mancano alcuni di essi a se stessi.
Il gallo vuol tributo da’ pellegrini galleti. Il maschio della pernice ha guerra con l’altro dell’istessa specie e di un sesso per conseguir questo fine; il vinto nella pugna si fa tributario e soggetto al vincitore, non usa seco altre armi che l’amorose, altra vendetta che di far dolce. Il cane, emulo tra tutti gl’animali al giudizio dell’uomo, concorre seco in questa azione. Il leone, fatta gravida la leonessa, prende in suo loco i leoncini.
I dolfini, non contenti de l’uso dei lor dolfinetti, con senso piú alto si voltano ad amar i nostri fanciulli. Un di essi invaghito dell’aspetto e della voce armonica di bel giovanetto Arione, piú umano degl’uomini, mentre dall’impietà loro fu precipitato nel mare, dalla clemenza di questo fu riportato al lido. Un altro nei lidi della famosa Partenope, con ossequio fido e amoroso, per spazio di due miglia, longi la riva del mare, conduceva e riduceva un suo amato fanciullo sicuramente dalla sua casa alla scola, e dalla scola alla casa; alla conformità di cui voleri ripose in un tempo il fine della vita; ed ebbero commune il sepolcro e gl’elogii. L’istesso accadé in Lerissa, terra di Rodi, ove altra vita di gioia non era in un delfino che la conversazione corrispondente e cara di bramato fanciullo; serviva il delfino al putto per animato fratello, che, senza periglio del fiuto, senza fatica de’ remi schifando la perfidia dei venti, felicemente ai cenni era assequito agile e regolato il moto a suoi puerili diporti; ed egli, prontissimo ai piaceri della discreta bestia, refrigerava i suoi ardori che avampavano in mezzo all’onde.
Un uomo sopra gl’altri s’innalza per aver piú virtù e manco bisogno; e quello è piú simile a Dio che da se stesso è piú sufficiente di proveder a se stesso. Chi languisce è infelice; chi non sa agiustarsi è inetto. Se dunque nel desiderio de’ putti non trovasse l’uomo rimedio, non sapesse estinguer l’ardore, che libertà, che ingegno, che industria saria la sua? Infelicissimo e vile sopra tutte le bestie.
– Lasci l’impresa e il pensiero di amargli – rispose Alcibiade – e si toglierà l’occasione di penare.
– L’amore, Alcibiade mio, non è in nostro potere, e molto meno il desistere d’amare l’oggetto amabile, che all’occhio e indi alla mente si rappresenta, attrae con incomparabil violenza l’anima de chi lo mira. Egli descrive i beni che indi s’acquistano, l’accende finalmente di voglia e l’innamora, che se non beve al fonte del conceputo diletto, se ivi non s’attuffa e s’immerge, resterà arso e ridotto in cenere. E perché tragga il desiato nettare di dolcezza a suo gusto, poco importa se il vaso onde s’attinge sia quadrato o ritondo; talché, chi distinguer volesse non potrebbe; chi può non dovrebbe; chi vuole non può; e chi vuole e può non ha sensi.
Che le leggi d’alcuni popoli, come voi dite degl’Ateniesi, lo vietano, non è che in se stesso non sia buono. Aggiustano costoro le leggi a’ suoi interessi; non sottomettono gl’interessi al giusto; sono a beneplacito delle donne, a compiacenza di esse, perché non restino neglette ed estinte. E de qui prendono forma di convenevole, che è bastante protesto per formar dogmi e statuti: l’apparenza di giovar ad altri, massime a chi è inabile e soggetto. Hanno cosí fatti ordeni riguardi piutosto agl’interessi di stato e di politica, che a dittami della ragione, all’inclinazione della natura; anzi, sopra questa maledetta ragione di stato gran parte delle umane leggi e le religiose stesse si fondano, talché alcune di loro esecrabili sono dal sciocco volgo stimate venerabili e sacrosante.
I Vangii, abitatori dell’equinozio, hanno per legge indubitata e infallibile che Dio creator e conservator universale del mondo abiti solo seco; il resto degl’uomini sia abbandonato da lui; siano retti dalla fortuna e dal caso; anzi, che non piú possa né voglia Dio, di quanto possa e voglia il suo principe, quall’è stimato da loro il secondo Dio; fuora de’ suoi confini non è né verità né nume, e tanto oltre presumano che, reputando maledetti tutti gl’altri d’altra setta, non solo essi sono eletti da Dio, ma quasi patroni di lui: onde a lor voglia stimano che seco conversi, sino al lor tatto e al lor gusto si sottoponga, e con racconti ridicolosi e puerili, lo fanno or amante, or nemico, or comico, or buffone e or leggiadro.
I Sciti, che si accarezzino tutti i nemici della loro fede; che sia divina l’occisione; che l’anime separate abbino bocca e cazzo, che mangino e fottano come fanno le bestie.
I Tartari, che si tenga per lecito il chiavare la madre, le sorelle, le figlie, i fratelli e anco con le bestie.
L’uso però tra maschi è concesso dalle leggi de’ piú civili nazioni, da Persi, da Medi, da Indi e da piú degni de’ nostri Greci.
I Caldei hanno un Dio da pocco, superstizioso, volubile, incostante, crudele e di poco giudizio; epur a queste leggi prepongono, nell’osservarle e crederle, l’onore, la robba e la vita. Vi paiono elle giuste?
– Anzi, irragionevoli e pazze –, rispose il fanciullo Alcibiade.
– Nondimeno – ripigliò il maestro – canonizate dall’uso, stabilite dal timore e autenticate per vere non meno dalla simplicità de’ creduli che dalla severità de chi regge, sono per giustissime mantenute.
Ma veniamo ormai al nostro proposito. A quali de’ nostri dei prestiamo piena fede? A Giove, re degli dei e degl’uomini. Non ha egli rapito Ganimede? Or se gli fatti degli dei sono per esempio e imitazione degl’uomini, come è proibito a noi ciò che essi insegnano con l’esecuzione? Fu a Giove lecito usar la forza, era dio, il suo divin volere è misura di giustizia nell’operare a noi, che non abbiamo imperio sovrano; siano in loco di forza i preghi, fia che i voleri de’ sordi pieghino al consentimento uniforme. Apollo non godé di Ciparisso e di Giacinto? Ercole de Ilus? E Cupido non è per altro maschio e fanciullo che per mostrare l’amor principale esser di fanciullo, e per l’amor feminile è Venere, che non ha armi né foco, se non le prende ad imprestido da suo figlio.
I putti dunque hanno il primo scettro in amore, le donne auttorità delegata e dependente; tanto dunque è lontano dal vero che questo sovrano diletto sia aborrito dagli dei, gli s’apparecchino castighi atroci, quanto è longi dal giusto che fosse gastigato un servo per essequir gl’ordeni e gl’essempi del suo signore; e a voi sarà credibile aponto come s’udiate dire che il sole di notte si rinchiuda in un bossolo della luna.
Coloro a’ quali, per loro privati interessi, è parso vietare questo diletto, stimando che li giudiziosi s’opponessero al vero, che le sue leggi fossero a ragione neglette, il caduco delle lor posizioni hanno cercato folcire nel immutabile dell’apparente auttorità di Dio. Ove è manco di vero, ivi s’apportano piú giuramenti, e per far credibile il falso si meschiano le cose profane con le sacre. Si vince la mente pura con l’attrocità delle pene e de’ tormenti. La riverenza verso Dio è inserta naturalmente ne’ petti di ciascuno, perché è egli cagione e anima eterna, essenziale del tutto, dando l’esser e la conservazione con intimo ilapso a’ viventi gli lascia impressi vestigi di conoscenza riverente: perciò o piú o manco, sempre o frequente, è riverito e temuto.
Ora sopra questa base appoggiano i savi legislatori le loro leggi, e divulgando esser volere de’ dei quello che è motivo de’ loro capricci, danno credito ai decreti, prontezza all’esecuzione, orrore a pensar l’opposito; e facendo imbever questa lor dottrina col latte, usata quanto il cibo, si fa ferma, inseparabile dall’alma. Onde molti son piú pronti a privarsi di questa che di quella: in questa maniera Numa; con questi artifici Licurgo; con tal pretesto Solone e gl’altri piú celebri e piú famosi divulgorono e stabilirono le loro leggi e il regno. ‹. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .›
E specialmente questo ultimo, che col congresso ostentato di Dio signoreggiò sicuro di popolo discorde, numeroso e ribelle. Egli, con matura prudenza, gl’effetti ordinarli della natura riduceva ad opre mirande di Dio, le ammetteva ai ponti de suoi decreti e ne aveva facile la credenza da gente simplice, idiota e servile.
Se Dio è sempre Dio immutabile e sapientissimo nell’opre di giustizia e di clemenza, onde nasce che ora non punisce quel fallo? È forse egli diverso da quello ch’era? È mutato d’opinione? Ha forse timore di noi? Opure distruggerà l’opra del mondo che egli ha fatto?
Se l’orologio ha il moto dalle ruote e dalli contrapesi che gl’ha dati l’artefice, sarà difetto d’esso orologio che batta l’ore a questo tempo o in un altro? Le inclinazioni sono contrapesi datici dalla natura e da Dio, chi segue quelli non s’allontana dai propri principii, non fa contro l’istitutore.
Or veniamo al particulare dell’alusione di quelli luochi sulfurei, che credo a voi, come agl’altri di mente imbelle, sia di maggior vigore di ciascun altro elemento.
Trovasi dunque tra i confini dell’Arabia e Soria, per naturai misura degl’elementi, per incognito influsso del cielo, a beneficio singulare degl’uomini, un lago immenso di odorifero bitume, che vale a rendere i corpi incorruttibili ne l’arte di medicina, nella contestura de’ navilii e in altri usi innumerabili importanti; gli cede ogn’altra materia; la crassizie lo rende innavigabile e senza fluto; la temperie lo dimostra adusto e arsiccio; e con un misto di pingue aereo è esca attissima al foco. L’aria ambiente, participando per la vicinità de’ suoi accidenti d’intempestivo calore, di molle troppo terrea, infiamma, anzi abbruccia i frutti degl’albori che gli renda convenevolmente maturi; onde si possono piú propriamente dire e chiamare escrementi di focosa materia che frutti legitimi della terra.
Quindi dunque passando il predetto legislatore e ’l suo essercito, addimandato dal ignorante volgo di quelle da loro non piú vedute maraviglie, delle strane qualità di quelle acque, di quel colore, del ardore, e col resto ebbe felice occasione di tesser favola leggiadra e opportuna a’ suoi fini; ed era in quel tempo in stretta necessità di farlo. Onde s’ascriva a prudenza piú tosto politica, che a temeraria menzogna.
Era il suo essercito quasi piú di donne, e queste dal viaggio fatte deformi e noiose: talché erano piú atte a conservar la continenza che per sfogar la libidine; i soldati, pertanto, rivolti con ogni ardore al uso commodo de’ putti, si dimenticavano totalmente delle donne. Il che conosciuto dal savio capitanio, e considerando che in breve il suo imperio sarebbe estinto, o almeno non sarebbe successo ne’ suoi posteri, se con la generazione non si resarcivano i defonti, proibí l’uso de’ putti; e aggionse esser ordine espresso di Dio, e che perciò in quel loco aveva col solfo e con il foco sommerse cinque città, e che quelli erano i vestigi della divina vendetta.
A questo urgente bisogno de’ tempi, con questa vaga allusione, providde e fece leggi contro l’uso dilettevole de’ fanciulli il discreto legislatore. Che se nelle sue schiere fosse stato abbondanza de l’uno e de l’altro sesso, vana saria stata la legge, né esso l’averebbe fatta. Anzi, i suoi posteri nella regia città, vicino ad un loro famosissimo tempio, edificorono publiche case alli fanciulli per questo effetto; e ne fu capo il piú saggio, il piú pregiato di quella nazione.
Ed è pur cosa notabile che di tanti diligentissimi, famosi e universali scrittori de’ nostri Greci, non vi sia pur uno ch’abbi fatto menzione de cosí strano e portentoso caso.
– Forse – rispose Alcibiade – perché essendo costoro del umor vostro, non volsero per loro interesse toglier questo diletto agl’uomini col spaventarli.
– Non è verisimile, figlio, quello che voi opponete, s’avessero creduto esser un flagello divino questo diletto vietato e punito da Dio al cui impero ogni cosa soggiace, come per non cader nel suo sdegno e per non esser stimati rei d’un tacito fallo. O almeno, se tanto avesse potuto l’ostinazione, per serbarlo solo a se stessi, col spaventar gl’altri in un tempo, s’averebbono fatti giudicar pii, e si averebbono posto in possesso sicuro di questo impero, perciò ne averebbono empiuti i volumi, nonché le carte e i fogli. Il che è piú agevolmente da credersi, ché alcuni di essi preposero la vita al vero, e furono di costumi integerrimi e osservantissimi del giusto; perciò dunque non ne scrissero, perché non vi era alcun fondamento di verità, sopra la quale la loro scrittura si stabilisce.
Anzi, l’auttor di questa invenzione, parendogli esser troppo rigore di porre in precetto quel che aveva inventato per amplificazione e per terrore nelle sue leggi scritte, non dice che per l’uso simplice de’ fanciulli fossero le predette città sommerse, ma perché erano impie, crudeli, avare, rapaci, violente; e che l’ultimo della loro ruina fu la violenza che volsero usare agl’angeli. E cosí mancò poco che non ritrattasse con questa limitazione quel che pareva di voler vietare del tutto: fu dunque castigata la violenza, non il piacere; la crudeltà, non l’amore; l’inumanità, non gl’amplessi. Dico però alludendo alla favola, non al successo.
E invero la violenza è fiera omicida dell’anima. Consiste questa in esser clemente, in esser libera: chi dunque a questo s’oppone la disnatura e l’annulla; però anco alle publiche meretrici è pena di vita usar violenza o sforzo, seben nel resto son meretrici mercenarie e vilissime. Dove dunque è commune e uniforme il consenso, ivi bandita la violenza e vi entra amore, pace, naturalezza e incentivo di lode. È tirano l’uomo violento; questa violenza è aborrita dalla natura e da Dio, l’assenso è da l’uno e da l’altro gradito. E nelle leggi pure del predetto duce, ed esposte da persone stimate da quella gente sapientissima di spirito e di profetica intelligenza, vi è espresso un decreto in cui uno di essi singularissimo, che vantava ed era creduto aver comercio con Dio, minacciava castighi per i delitti del popolo: e quando gionge all’uso dei putti, non si lagna egli di questo, ma rimprovera per sceleraggine quella ch’abbino lasciati i fanciulli della loro nazione per gl’esteri. Et pueris alienis adheserunt, dice egli rimproverando. Se è delitto il lasciargli, è dunque merito e atto virtuoso il seguirli; e dovendosi prima l’amor ai suoi che agl’estranei, abbandonar quelli per questi è contro le leggi della natura. Talché, riprendendo egli mischiarsi con altri, vuole che si usi con i proprii. Ma se le leggi umane, fatte da chi si voglia, si riducono alle universali, infallibili, di natura, trovarete piutosto ordinato che proibito l’uso dei fanciulli da essi. Ed ecco ne vengo alla prova.
Chiamo leggi di natura, per procedere in negozio cosí importante distintamente, quelle che dal lume dell’intelletto sono a ciascuno degl’uomini, di qualsivoglia setta o nazione, naturalmente, senza artificio, sino dalla culla inserte; e approvate con universal consenso da tutti, e da’ piú savii e da’ piú giusti. In due parti principali si dividono: l’una conscerne l’onor di Dio, l’altra la benevolenza ed equità del prossimo; e le fanno in questo modo.
Amar Dio sopra ogni cosa; il prossimo come se stesso: overo non offender Dio né il prossimo. Or questi due precetti, se in effetto son diversi, non deve l’uno contenersi né confondersi con l’altro, perché il contenuto e confuso non averebbe esser distinto, sí che sarebbe un solo. E se fosse l’istesso il non offender Dio né il prossimo bastava dire non offender Dio: sono dunque indubitatamente distinti, né l’uno dipende né appartiene all’altro. Or vi dimando: se il vostro prossimo si contenta di quello che voi volete, ha grato e resta sodisfatto, e tallora beneficato, si potrà egli chiamar offeso? Si sarà trasgredito il precetto? Potrassi chiamar oltraggiato? Vi citterà in giudizio?
– Anzi – rispose Alcibiade – si sarà adempito il precetto, e si averà meritato piutosto; e stimo tanto diverso dal doversi chiamare offeso costui, quanto sarebbe il donare dal rubbare.
– Benissimo concludete – rispose il maestro – ma se cosí è, che un fanciullo si contenta di far copia di se stesso a chi lo brama, e ne prende diletto e utile, si è qui offeso il prossimo? Chi direbbe queste pazzie? E se dal libero albitrio, dono regale di Dio, dipende il volere e poter far ciò che piace del suo, perché non si può di questo? Chi può prestar una casa, un cavallo, un cane, perché non le sue membra? Chi è tiranno sí empio che donando la libertà ad un suo servo, gli proibisca l’uso? Ci averà dunque fatti liberi Dio perché siamo schiavi delle nostre passioni e dell’eccesso sregolato di esse? Egli dunque, nella tempra che ha data al nostro frale, vedrà languire le cagioni, riprenderà quel ch’è suo? O forse ha pena del nostro bene? Invidia il nostro diletto? Se alle calamità umane non si dà refrigerio con piaceri, gl’abitatori del mondo saranno pregionieri di Pluto. Non saria re degl’animali l’uomo, ma epilogo d’affanni e di tormenti. Non turbi dunque il glorioso dell’alma vostra la bassezza di questi sensi, di queste goffe credenze.
– Perché dunque i fanciulli che alli piaceri degl’uomini condescendono con obbrobrioso nome di bardassi vengono dispreggiati e stimati infami? E se è vero quanto voi dite, forse l’uso commune degl’uomini non ha preso il vigor di parlare dall’esperimento del vero. Levatemi questo dubbio –, disse Alcibiade.
– Questo nome di bardassa – rispose il maestro – non conviene né deve darsi, e in effetto non si dà, a fanciulli che per termine d’affetto e di cortesia fanno graziosamente copia di se stessi agl’amanti civili e meritevoli. Come non si dà titolo di meretrice a quella vaga donzella amorosa che per sodisfare alle leggi d’amore benignamente soccorre all’amante: anzi, è cosí fuori del ragionevole e del giusto, che in loco di questi indegni epiteti, da persone sapienti e discrete, son chiamati divi e dive, redentori delle umane afflizioni, restauratori degl’animi cadenti e afflitti. E da molti supremi principi gli sono stati eretti altari e tempii, dedicatogli sacerdoti e offertogli sacrificii e incensi, delle quali cose sono piene l’istorie de’ greci e de’ latini scrittori. Il bardassa vuol propriamente dir putto mercenario e venale, che solo per simplice mercede, quasi un tanto per misura, vende se stesso, né altro attende che il guadagno servile. È tanto differente un putto amoroso e gentile dal mercenario, quanto sarebbe un venerabil sacerdote da un vituperoso simoniaco; l’uno e l’altro è sacerdote, l’uno e l’altro amministra gli stessi officii sacerdotali: ma il primo nel ministerio attende l’eccellenza dell’opre, la grandezza del suo officio, il compiacimento spirituale del popolo, il debito delle divine leggi; l’altro l’utile, l’interesse e il guadagno. Onde è sacrosanto il primo, infame e detestabile il secondo. Le cose di alto preggio non devon esporsi alla viltà del prezzo: e qual cosa piú preggiata e piú degna degl’amorosi putti? Glorioso e divino fanciullo, che senza fine di mercenario interesse beatifica gl’uomini in terra; vil mercenario infame, che a prezzo vende se stesso, che dal esser giardiniero e tesoriero delle gioie d’amore diventa vil macelaggio delle sue proprie carni.
– Non è forse ragionevole – rispose Alcibiade – che riceva beneficii chi ne fa altrui? Che resti sollevato ne’ suoi bisogni chi è pronto a servir altri? Perché dunque un fanciullo, senza cascar dal glorioso nell’immondo, non può ricever dinari da chi riceve tanta dolcezza da lui?
– Fanciullo mio bello – rispose il maestro – altro sono i mercati, e altro le cortesie. Non è mai sí ricco né sí potente l’uomo che a certo tempo non abbia bisogno dell’altro uomo; e chi fa beneficii ne attende ancora. Sia dunque dall’amante benigno sovenuto e regalato l’amato fanciullo ne’ suoi affari; siagli ampiamente liberale e cortese, ma lontano dai termini di convenzione e mercede, né tacita, né espressa.
Amore dà regole in questi casi; egli degnamente e onorevolmente gli sviluppa e rissolve; non si proibiscono i doni e le libere amorevolezze e cortesie, ma la sordida mercanzia. I sacerdoti onorati e dabene vivono pur essi ancora de suoi ministeri, e questi ordinariamente piú opulenti e piú commodi degli venali e mercenarii: e questo perché mercenarii abominevoli, quelli perché buoni e sacrosanti.
I comici, di sua natura oratori ammirabili, se fanno le loro comedie per prezzo sono stimati buffoni vilissimi e infami: e come tali venivano dalle sacrosante leggi delli antichi Romani della sepoltura privati.
– Ricevo sodisfazione apieno dal vostro discorso – disse Alcibiade – ma vi prego spiegarmi se sia maggior il diletto che si prende dal goder i fanciulli di quello si riceve dalle donne, e la cagione.
– Il diletto – rispose il maestro – è quasi un’armonia di varie voci, non ha pienezza in una. Il che è universalmente vero d’ogni diletto, ma specialmente dell’amoroso; se dunque discorreremo di quell’ultimo diletto venereo, di quel compimento di dolcezza, senza guardar le circostanze e il resto, sarà la soluzione in bilancia, perché molti sentenziano a favor delle donne, dicendo che trovandosi nella natura loro un certo natio e ben proporzionato calore, che, accompagnando quel del genitale dell’uomo, agiusta con facilità il coito, condisce e radoppia il dolce, e nel unirsi e baciarsi i sensi, col darsi in una stessa stanza l’albergo, consista il godimento reale. E che essi simboli e legami dell’anime amanti, quasi in compendio raccolte, si participano scambievolmente tutte le dolcezze che da ciascun de’ membri i sensi maravigliosamente raccolgono, e che la virtù unitiva d’amore, in cui la sua stessa essenza consiste, non si sortisca in altra maniera, e la trasformazione, che ardentissima si brama negl’amanti, in altro modo che in questo sia impossibile; anzi, per questo ultimo fine solo procedono gl’avidi toccamenti, e quel desio disciolto di riempir ogni buco, o con mano, o con lingua, abbi il suo termine quivi. E mentre in quell’ultimo conflitto le lingue baciatrici si suggono le amate imagini, si rimirano i spiriti, si respirano a vicenda, con aura di paradiso nel core; e tutti unitamente accompagnano l’interno simbolo amoroso, aviticchiati sono tralci tenacissimi, diventano due corpi in un’anima, non resta mancamento al desio, né cosa punto desiderabile all’aspetto. Le quali nobilissime condizioni non vogliono che possino ritruovarsi nei fanciulli, e perciò non molto gli pregiano.
Ma in costoro l’uso fatto natura, mentre tralasciato il dritto della ragione, gl’insegna discorsi da manuale: non negherei pertanto, per scioglier i loro argomenti, che il caldo che rissiede nella natura della donna non giovi a chi è poco caldo d’amore, che quell’incontro di seme aletti al albergo di giubilo. Chi è troppo timido ha bisogno di conduttiere. Che i baci, l’aspetto, l’aure respirate e gl’amplessi non siano di gran momento in questo atto; e il tutto saria per esse, se con miglior avantaggio non fosse anco nei putti.
Se quel nido d’amore unico e singulare de’ leggiadri amorosi fanciulli non ha il calor delle donne, ha un temperato calore, attissimo refrigerio all’ardentissimo incendio d’amore: gl’ardori si mitigano e si addolciscono con il refrigerio, non con maggior calore. Il concorso de’ semi è materia schiva all’incontro d’intempestiva importuna pioggia, che illanguidisce e annoia; la vasta capacità induce agl’orrori del laberinto, e piutosto a perdersi che a sollazzare. All’incontro, il regolato ristretto, l’attemperato misto di quel fiorito giardino non ha penuria di bene; e l’uso di due altissimi morbidi coscinetti, che ricevete nel seno mentre godete il fanciullo, non prevagliono ad ogni contento? Non dirò che sia, ma che anco possa imaginarsi nella donna? Non vi pare che la natura con il ritondetto molle e delicato de’ quei beati pomi abbia mostrato e insegnato espressamente che abbia con quel commodo e diletto da riempirsi il concavo del vostro seno? E al contrario della donna: se il concavo del suo ventre si unisce con il concavo del ventre nostro, fanno forma di un arco, le parti di cui piutosto da se stesse si allontanano che mostrino perfetta unione, nella qual solamente il diletto estremo consiste.
Né manca nel godimento de’ putti il soave de’ baci, il poter spirar l’aura amorosa nella sua bocca, il convenire e far dolce insieme, se in sito tale si acconci il fanciullo che, rivolgendo facilmente il suo viso al vostro, e avendo piantata la cipolla nel suo giardinetto, opur nelle sue mani, che varii sono in questo gl’umori di questi amorosetti; ove quel poco d’incommodo, senza danno, è condimento alle gioie, non altrimenti che un appetito, over il digiuno, al cibo; e questo accresce il piacere, qual sdegnosetto uccellino, mentre fiero, adirato, stando sul duro, diventa altiero, e in varie fogge si dibatte e adira, or non ci invitta? Or non vi eccita? Non vi addita i colpi? Non v’infiamma d’amore?
– Importa – gli disse Alcibiade – se questi uccelletti di questi nostri fanciulli siano piú d’una forma che di un’altra, quanto al diletto che ne prende l’amante?
– Assaissimo importa – rispose il maestro – deve esser nel mezzo, tra gl’estremi di quantità e di altre condizioni. La troppo picciolezza è segno di frutto troppo acerbo e insipido: onde né si brama, né si ottiene pienezza nel termine; la smisurata molle dà indizio che di capretti siano divenuti becchi: e come quelli sono delicatissimi, cosí sordidi e puzzolenti sono questi; seben non mancano alcuni che, piutosto per mutar vena che per star nell’officio dovuto, di questi hanno diletto maggiore. Ma io non intendo di far il mondo alla riversa. L’esser poi dritto, morbido, bianco, senza peli, con picciole e ritondette balle, è grazia da destillar gl’amanti in sostanza succosa, di simplice cotale. Non disconvengono però quei primi novelli aurei fioretti, anzi, son noncii d’amor verace, che daranno e riceveranno diletto al pari.
Il ritratto ed essemplare naturale de’ piú pregiati uccellini, come in voi de’ piú leggiadri fanciulli, è appunto il vostro, mio amato bene –.
E ciò dicendo, se gl’aventò al collo e alle parti piú interne, piú sitibondo d’un cervo, piú famelico d’una arpia.
Lo risospinse destramente il fanciullo, e gli disse:
– Avanti che altro abbiate da me, desidero che sodisfacciate ad alcuni altri miei curiosi pensieri.
– Commandate – rispose il maestro – e in un tempo stesso compiacerò a voi e a miei desideri.
– Non hanno – ripigliò il putto – anco le donne i pomi, come i fanciulli, e in loco dell’uccelletto, che voi tanto pregiate? E io, in questi congressi amorosi, mentre facessi l’agente non lo stimerei troppo in altri. Non possono tenersi in mano i loro morbidetti pomi delle mamelle, tanto piú cari quanto piú riempiono aggiustatamente le mani? E se tanto in questo negozio vi piacciono i pomi, nelle donne ne avete quattro, per i due de’ fanciulli.
Se un giardino ha frutti che abbia un altro, e inoltre degl’altri ancora, non doverà piú stimarsi? In quello dei putti avete il persico, solo frutto veramente gradito come quel delle donne fanciulle, oltre di questo avete il fico, che nel soave non cede né al persico, né ad altro frutto.
La vasta capacità, ch’assomigliate ad un intricato laberinto, non la stimo né universale, né vera, ma che si trovi solo in alcune, per esser troppo communali, o per età troppo mature, o per figliare; ma nelle fanciulle penso tutto il contrario.
Cosí l’acqua che vi è, che voi vi presentate stomachevole, non lo credo almeno in questo eccesso; e se invece d’acque, nell’usar con fanciulli, uscisse, come di fonte natio, puzzolente merda, che direste allor voi? Sarebbono queste l’ambrosie? Trovareste l’odor del muschio nel fetido del sterco? La porta di gaudio nella zangola? Son forse queste cose imaginarie o reali? Me le sogno o son vere? Che dite signor maestro?
– Dall’intelletto vostro divino procedono speculazioni veramente divine e degne di voi; non già cosí fondate che non abbino risposta e fondamenti piú saldi – disse il maestro – vi rispondo pertanto a parte a parte.
L’aver le mamelle in mano, e l’aver l’uccelletto d’un fanciullo, è differente quanto una cosa disanime dall’animata: quelle senza moto intrattabile, questo mobile e vezzosetto; stanno quasi essanimi, senza moto, le mamelle, si riscote, si dimena, giostra e accenna i moti, piange, ride soave, applaude, concorre con voi al principio e in tutto al corso amoroso l’uccelletto del putto; paiono le mamelle, da quelle d’alcune donzelle in poi, vesicche ripiene d’aria, borse vuote, sacchi pendenti, incentivo piutosto di schivezza che di trastullo. E forse il fanciullo di buona disposizione non ha egli le sue mamelline, e seben picciole sono altretanto piú belle e piú pregiate, come è piú vaga la rosa in boccolo che nella sua propria apertura.
Il giardino che contiene varii frutti di differente sapore, se vi concede sol quei che agl’altri cedono di bontà, con proibirvi i megliori, vi reca non gioia, ma pene. La donna non dà volentieri i suoi pomi, non apre volentieri l’orto del giro, perché le sue voglie sono altrove: il suo piacer l’attende dalla natura, cioè a dire nella potta, talché è di gusto amaro; e quando anco volessero, è cosí differente il dolce di quello da questo, come la carne di vacca da quella di vitello. Nel modo dunque che il gusto accuratamente distingue nel cibo, in alcuni ritrova il dilettevole, in altri l’abominevole: ogni parte, ogni boccone di vacca è di vacca, e quello di vitello è vitello. Cosí il tatto ne’ piaceri amorosi.
L’acque poi, e l’ampiezze vastissime piú che l’oceano, nelle quali non si trova fondo, rispondo: è cosí commune a ciascuna come l’esser femina; e dalla prima volta in poi, che anco quella è piena di violenti rammarichi e gridi, non credo si trovi altra sostanza. E le sordidezze che apportate nei putti, o putto mille volte benedetto, è pensier vano e sogno, appunto come diceste: i putti civili e ben nati sono cosí lontani da dar segno di sordidezza che anzi, con odoretti di temperati calori vitali, profumano il fumante cazzo, che scapellato e contento vien trionfante da l’amorosa guerra odorato e fragante d’odori grati sabei; e sebene si ricevesse alcun odore, o si rilasciasse alcun segno reale impresso del goduto giardino, sarebbe non nausea, non schivezza, ma ultimo compimento del desio. Chi brama il melone non schiva il sapore e l’odore di esso; e ogni circostanza, se ha da esser perfetta deve ritenere i proprii accidenti: da pane il pane, da vino il vino, e i suoi proprii profumi d’ambra e di natio zibetto dal bel pesco.
E io so che persona saggia e provata, dilettandosi lambirlo soavemente, mentre dal suo proprio discreto fanciullo il trovò asperso d’acqua rosa, sdegnoso si rivolse adietro e desisté dall’opera consueta. « Vengo – disse – a goder del tuo bel fiore, con quanto ha egli dalla natura. Non ho voglia d’acqua lanfa, che anderei da profumieri ». E tra mille non si troverà uno ch’abbia difetti notabili in questo, e ve ne parlo per prova. Perciò il discreto amante de’ fanciulli non ha da esser indifferente con tutti, non ha da ricercar per suoi godimenti ognuno che sia putto, che abbia chiappe e forame, perché quei che sono pomi in alcuni, in altri sono sponghe e vesiche, e non hanno giardino di godimento, ma latrine sordidissime d’immondizie. Deve dunque esser nobile, civile, adorno, ridente e senza macchia il fanciullo amabile: né sarà preggiato, se non fia tale.
E se casca da queste condizioni, sarà abominevole senza misura: la corruzione del ottimo è pessima. Nelle cose che possono trovarsi i difetti della natura s’ha da ingegnarsi di toglierne anco i segni: e dove è piú di sporco, ivi, con l’industria, deve ecceder il netto e il polito. S’assomigliano i putti, in questo proposito, alli colombi, cievali, meloni: questi, nella loro bontà, sono esquisitissimi e gratissimi tra gl’altri cibi; ma nel esser questi acerbi, o fragidi, magri e da rio, non si trova cosa piú stomachevole né piú vile. Ma dato che alcuno di questi difetti si ritrovasse in qualche putto novello, per povertà ridotto a qualche termine d’immondizie, o per inesperienza, il tutto è nulla, in comparazione degl’intrichi, de’ mestrui, e delle conseguenze pestifere delle donne.
– Ditemi di grazia signor maestro – disse Alcibiade – per qual causa la donna stima di tanto preggio la sua fica, ed è di natura cosí altiera e indiscreta.
– Ciò procede – disse il maestro – perché, compiacendo all’uomo, pretende subito acquistar sopra di lui imperio dispotico e assoluto; e fatta, se fia possibile, tiranna, inumana ed empia, di dinari, la roba, la libertà, la fama, la vita, stima poco compenso a’ suoi meriti; fa che tra loro s’amazzino gl’amanti; trofei ordinarii delle lor glorie, gl’incendii, le ruine, le dessolazioni delle città e de’ regni nascono dalla perfidia loro.
Ma che direte di questa? Sarà vilissima contadina, lorda, stomacosa, usa a mangiar polenta ed erbe, bever acqua, dormir sopra la paglia, star in conversazione con le bestie, che non sa distinguer da’ cazzi degl’uomini quei degl’aseni; se per sorte cade nelle mani di qualche balordo, che per mutar pasto mangeria delle poma marce e di lupini, seben costui fosse un gentilluomo, pretende di divenirli sposa. E se questo esser non possa, d’esser almeno maritata con qualche cittadino, o mercante, con dote grande. Altrimenti minaccia citarlo in giudizio: sa dir ch’era vergine sacrosanta, di buona stirpe, discesa di sangue illustre, seben il caso repentino l’aveva in quel ponto mostrata povera; che li è fedelissima, che lui solo la tocca, con tutto che spalanchi la sua bruttissima potta a tutti che hanno cazzo, alli cuocchi, alli sguattari e alli staffieri; che non è neanco nata donzella, figlia di ruffiana sfregiata.
Femine dico, di questa sorte, han le pretensioni dette. Che ve ne pare? Sono bocconi da desiarsi? Deve impiegarsi un uomo generoso in queste? Sono soggetti d’amare? Né credete che ciò sia vano: son cose frequentissime, e potrei di prattica numerarvene le centinaia, ma per non reccarvi tedio non vi tesso istorie piú longhe. Vi sono uomini di molto ingegno che ne hanno scritti i volumi, ma ogni eccesso de’ scritti è superato dai lor fatti: mai non si cessarebbe di scrivere apieno, dove elle non cessano di operare. Forse se ne ritrova alcuna buona saria miracolo: né di tanti conosco alcuno a’ miei giorni che si sia lodato di tal ventura, d’averne trovata una buona.
All’incontro, chi si lamenta de’ putti? Che male fanno essi? Quali ruine, o quali oltraggi apportano giamai, se non fu per caso, se non per accidente stravagante? E come è miracolo nelle donne il non esser di ruina e di pena, cosí è raro l’esser tale nei putti.
Ma veniamo ad altri particulari. La secreta conversazione con esse, non potendo star occulta e secreta, per la diversità del sesso e di abitazione, vi rende appresso ognuno di cattiva fama, di vile ed effeminato, scioperato e poco prudente. Ricercano costoro tutto l’uomo, e non basta: onde bisogna lasciare i negozii serii e perder se stessi; già vi ricercano per ogni cantone, vi fanno la spia per ogni loco, vi proibiscono di conversare con tutte le vecchie, stimandole vostre ruffiane. E cosí parimenti i vostri amici, le giovani vostre puttane, i fanciulli vostri bardassi; sí che vi sforzano separarvi da tutti e stringervi seco solo, che non è altro che metter insieme un cane e un serpe in un sacco, come si usa con i parricidi.
Ma il dolce stesso che si prende da esse è amarissimo, per gl’escrementi focosí e venenosi del mestruo: sono cagione di putredine, di ulcere, di tarali, di piaghe e altri mali infiniti, che perciò li puttanieri son sempre infermi e infami.
– Prendete moglie – soggionse il putto – e cosí oviarete a tutti i sudetti mali, averete commodo e continuato diletto.
– Deh, Alcibiade mio caro, il cibo continuato senza variazione fa nausea, di modo che vi induce a morir di fame e di desire. E poi per diletto sí facile, per piaceri cosí communi, per dolcezze concesse sino alle mosche perder se stesso? Privarsi della miglior parte dell’anima, della libertà, che sono incomparabili? E chi non è in stato di prender moglie? E chi anco vi fosse, come gli saria facile poi e possibile d’imaginarsi fare ogni volta che averà desiderio di diletto correr a prender moglie? Le parentelle, o contratti, le doti, le circostanze, i cognati, si stamperanno ad ogni rizzatura di cazzo quattro o sei volte al giorno. Lascio di dirvi poi che non sia gran cosa mutar la natura umana insensibilmente in quella di bestia cornuta: essendone già l’uso universale, non celebrandosi nozze non dirò, ma noie, senza gl’auspici del capricorno, nutrir col suo sangue muli che vi tirano calci e vi struppiano.
– Per queste cagioni – replicò Alcibiade – niuno prenderebbe moglie giamai; epur si vede tutto il contrario.
– Se la natura – rispose il maestro – avesse permesso che tutti fossero speculativi, le sue azioni, che hanno le radici dai sensi, resterebbono calpestrate; aggiongete poi che alla diversità degl’ingegni seguono pareri ed effetti diversi; quei pochi dunque che hanno spirito filosofico ritengono piena cognizione di questi negozii, fuggono questi legami di moglie, che con facelle accese conducono, come sapete, li nostri Ateniesi in casa, per dimostrar l’incendio di quella casa infelice ove entrano.
– E senza l’uso delle donne e de’ fanciulli – disse Alcibiade – non vi è rimedio d’estinguere gl’incentivi d’amore da se stesso, con le sue proprie mani, e senza dispendio e fatica, senza farsi soggetto ad alcuno? A questo dunque giudicherei piú sicuro appoggiarsi, e non si morirebbe d’inopia, ma ad ogni picciolo male di lussuria saria prontissimo con sicurezza il rimedio.
– Alcibiade ben mio – rispose il maestro – il cavarsi gl’umori con le proprie mani e servirsi d’una imagine in cambio di cosa vivente è mendicità infelicissima. Negl’impeti furiosi d’amore si brama estinguer la sete nel fonte, qual non è né può esser dentro nel ritondo se non con l’imaginativa, la quale piú accresce l’ardore e finalmente illanguidisce, anzi uccide, se non si gionge all’oggetto reale, se non s’attuffa e immerge nel bramato liquore. Né altra cosa vi proibirei giamai, se vi degnarete de’ miei ricordi, in questo proposito, che una tal vigliaccheria: il cazzo deve esser moderato, perché l’eccesso, privandoci della piú pura e piú spiritosa sostanza, ci estenua, ci disecca e consuma. E ben spesso in loco di seme si manda fuori sangue vivo, si distilla il cervello, si discipano i spiriti: onde si cangia figura e colore, e s’accellera velocissimamente la morte, perché la natura, intenta piú alla conservazione della specie che del individuo, mette ogni sforzo a preparar materia per la generazione, sí che dato fuori il seme ne apparecchia subito dell’altro, e ne toglie la materia dal sangue piú puro, onde ne rende vuote le vene e le parti piú principali e piú vitali.
Chi dunque s’usa far dolce con le sue mani per la commodità, l’uso si converte in natura, e per gl’incentivi continui che ci molestano si espone ed è quasi necessitato menarsi sempre il cazzo: onde diventa l’uomo micidiale di se stesso. Le altre occasioni, per vicinissime che siano, non giongono di gran lunga alla detta.
È però opinione d’alcuno che il primo grado di danno si riceva dalle donne, il secondo dai putti, il terzo dalle proprie mani; perché quelle, dicono, troppo ci attraono col lor calore, e il desiderio nativo vi scuote col moto della persona; e i fanciulli ancor essi, con la vaghezza della presenza e col moto, non però cosí grande né agitante, vi stancano tuttavia; sí che temperato e soave, senza alcun atto di violenza, le nostre mani agiatamente vi servono. E cosí difendono questa parte, oltre i civanci che voi accennaste.
Io però prepongo per le dette cagioni il danno di questo, senza comparazione, ma con eccesso notabile agl’altri. Anzi, il compiacimento dell’oggetto amato presente addolcisce talmente i spiriti, che senza fatica o stanchezza vi apporta refrigerio e contento; e ricompensa il moto e l’agitazione; dove all’opposito l’altro, privandoci del piú bello e del vero, vi lascia stanco e lasso: non doverebbono pertanto cambiarsi i putti con lui. Questi, usati modestamente, come io dissi, vi apportano allegrezza e salute: onde uno de’ nostri famosi medici lasciò scritto che usus et amplexus pueri bene temperatus è salutaris medicina.
– Perché usate questa parola di temperato, o caro maestro? –, disse Alcibiade.
– Perché l’eccesso, come vi dissi, offende – rispose il maestro – non per difetto dell’oggetto goduto, ma per l’uso. Cosí il manchevole è cagione d’infermità e di doglie; giaché il seme escrementoso e umido, se a tempo non sia sminuito, diffondendosi per il corpo è cagione di mali innumerabili e incurabili. Per questo dunque, doppo ch’ho fatto maturo il senno, a questi angioletti mi sono rivolto e sacrato. Questi sotto colore di nipoti, di scolari, gl’avete sempre al fianco, e apportate decoro ad essi, acquistate benevolenza da suoi, dolcezza a voi stesso, per mezzo loro; l’interesse dunque civile e politico, quando ogn’altra ragione mancasse, a cosí giocondo diletto ci persuadono.
– Non potrebbe l’uomo con l’uomo, senza distinzione d’età puerile – disse Alcibiade – prender questi piaceri? Se in ciascuno di essi si ritrova quanto è nei fanciulli, e d’avantaggio?
– L’età mutano specie e natura nei trastulli amorosi – disse il maestro – si mangia delicato il capretto, che fatto becco è fetidissimo; ma quelli che a questi caproni attendono sono ribelli d’amore, sono bestie di ferino e corrotto senso. L’amor maschio è fanciullo: è ben vero che troppo bambino è insipidetto, pur sono in effetto fanciulli misti di latte e ambrosia piú vicini al soave e da schiffarsi meno degl’altri.
– Ma da qual tempo a quale – dimandogli Alcibiade – poneste il segno dell’età da godersi i fanciulli, giudicioso maestro?
– Dal nono sino al dieciottesimo anno – il maestro rispose – seben non vi è legge determinata, perché alcuni pargoleggiano per piú tempo, altri presto sfioriscono, sí come alcuni bambolini ripieni e tondetti vi incitano sin dalla culla.
– E averanno capacità – disse Alcibiade – in sí tenera età, di sodisfar a vostri desiderii?
– Signor sí, signor no – rispose – ve ne sono alcuni capaci, parte per la materia arrendevole di quei luochi, parte per industria discreta dell’amante, si riducono apieno contenti. Deve però l’amante esser discreto e gentile: onde certi asinazzi rozzi dovrebbero in un tempo esser esclusi dal numero dei viventi e dalla aggregazione di questi gloriosi trionfanti. Questi sono insinuati per il porco, che invece di goder del bel fanciullo Adone con impeto bestiale l’uccise. Arte dunque ci vuole, e giudizio: ond’io non posso cessar di lodar alcuni uomini savii, quali non si curano né vogliono far di amanti martiri i poveri fanciulli, con impallargli all’usanza de’ barbari, con il sfondargli sino all’elce, ritraendo sangue e pianto da quell’atto gentilissimo, da cui non s’attende altro che gioia e gaudio; anzi, compartendo il diletto a piú sensi, non apportano alcun male al fanciullo, raddoppiano le loro felicità e restano di nuovo e spesso bramati e invitati da’ fanciulli stessi a simili trastuli vagi e amorosi.
– In che modo signor maestro si fa questo? –, addimandò Alcibiade.
– Vogliono – rispose il maestro – che il fanciullo si accomodi in modo tale che, facendo con rilevata positura pomposa mostra de’ suoi bei pomi, vedono gl’amanti sempre il vago e il riguardevole del giardino, e il scherzo insieme del suo sollazzante merlotto, qual né dentro né fuori, col lasciar desiderio al gusto, renderà piú dilettevole l’opra, e pascendosi intanto l’avida vista, ch’è primiera in tutti i godimenti amorosi, ci rende un misto de sí soave tempra che le Muse e Apollo non saprebbono condirne un simile.
E se il cardellino dell’amato fanciullo avesse dalle mani dell’amante, o dalle proprie del putto, ricreazione a tempo, non fora altro che bene. E da questa ingegnosa maniera di fruizione si schiffano senza fallo quei sordidi effetti stomachevoli che voi diceste di sopra; e quel che stimo importantissimo si possono per questa via goder tutti i vaghi fanciulli, anco de latte: e s’averà con il dovizioso il facile, l’abbondante. Né doverebbe questo prezioso cibo esser trangogiato come da lupi, ma gentilmente succhiato e lambito.
– Pur i padri non vogliono – soggiunse Alcibiade – che i lor figlioli siano ridotti a questo uso da’ precettori, come anco li precettori ne ricevono poco buona fama: segno che sia stimata azione illecita e indegna.
– Hanno ragione i padri – rispose il maestro – perché con la severità, che nell’ammaestrare il fanciullo si ricerca s’accompagnano difficilmente le carezze e i vezzi amorosi, oltre che da molti sono in uso e in stima gl’ordeni e le leggi contro questo piacere.
Ma nei maestri giudiziosi si trova maestrevolmente temprato il severo con il dolce; e invero che l’uno senza l’altro è inutile e dannoso. La severità pura fa barbaro il maestro, schiavo il fanciullo; il simplice dolce e l’indulgenza rende il putto insolente e discolo, il precettore vile e spregiato: ma uniti insieme fanno miracoli. L’amore non rompe la fede, il godimento volontario non è perfidia; il fanciullo goduto da onorato maestro non perde riputazione, non acquista vergogna, non è fraudato del giusto, anzi, in un tempo diventato amante della scola e del maestro.
Quelli che non si servono di sí fatte occasioni sono nemici a loro stessi, né è posibile che possino longo tempo durare in questi essercizii.
La natura de’ fanciulli è indomita, fiera, mancante del ragionevole, di modo che se queste amarezze non si temprano con i dolci affetti d’amore diventano velenose e mortifere. Io quando vedo il loro procedere da fiasco, i chiassi, l’insolenze, i strepiti, che leverebbono dai cardini della pazienza un colosso di marmo, mi rappacifico con la contemplazione di quei loro soavissimi pomi di paradiso; e in una mistura tra l’eccesso d’amore e il giusto dell’ira provo tempra gradevole e cara.
E seben questi amori non possono applicarsi a tutti i scolari, essendone molti inabili per l’età, per la fama e per la ragione di stato, per non esser stimato parziale e ingiusto, per non preiudicare agl’utili, agl’interessi, e i segni di benevolenza si distribuiscono a proporzione, per tutti; anzi, ne’ fatti publici esterni, il piú diletto, il piú caro, non ha miglior condizione degl’altri: le grazie si dispensano secretamente, nel modo che si consumano gl’atti amorosi. Perciò tutti indifferentemente ci amano, ci riveriscono, e ciascuno stima d’esser amato da noi; niuno si ramarica, o si lagna, e il maestro, fatto pazientissimo, sodisfa a se medesimo e agl’altri.
Chi fu potente di tener Giove sotto la forma d’un bue, se non amore? Chi fece cangiar animo e spoglie ad Ercole, se non questo? Chi dunque con queste indomite fraschette resterebbe saldo al continuo tormento delle lor pazze puttane, se non fosse legato d’amore? Chi dunque secretamente non li ama è un asenaccio da basto, un spietato aguzino di quei sfortunati fanciulli. È ragionevole ancora che chi coltiva il terreno goda dei frutti che egli produce; altri averan le cantine piene di vino per vivere sitibondo? Ne saranno rapiti da ogni banda i fanciulli nostri, e noi saremo inabili, e questi degni di goderli? Sarà concesso il bel fiore, sí delicato frutto, ai ladroni? A chi li deflora e li guasta? O n’averà l’uso moderato e discreto il giardiniero fedele?
– Voi per i vostri fini egregiamente discorrete – disse il fanciullo – ma prendete anco la parte per noi, e ditemi fedelmente che diletto abbiamo noi dal condescendere ai vostri piaceri; non altro, mi credo, che sottoponendoci vilmente alle vostre voglie sopportar l’impeto delle vostre spinte, e andar al sacrificio, al patibulo, alle sbrogiature e sbregature, al dividerne quasi in pezzi.
Se ha da esser ben per voi con nostro danno derrogate al giusto e alle stesse leggi della natura di non far male ad altri, massime agl’innocenti e ai novelli; ché li altri, che per esperienza sanno il fatto suo, direi che sia suo danno, che non deve lamentarsi chi ha quello che vuole o non lo niega, poiché volenti non fit iniuria.
– A questo importantissimo ponto del diletto vorrei, cor mio, rispondervi con li fatti – disse il maestro – che alla verità delle parole prevagliono, come fa il corpo sodo e reale all’ombra. Né credo, perdonatimi figlio se con troppa libertà vi ragiono, sete dunque sí nudo di questa sprimental conoscenza? Alla vostra suprema grazia non saranno a quest’ora mancati amanti della vostra gentilezza; non si pretendono, né possono nascer effetti di discortesia dal vostro pregiato fiore. Le api sollecite e industri averanno rapito il miele, né la vostra leggiadria incomparabile sarà sin a quest’ora stata oziosa e inutile. I visetti de’ bambini graziosi, sin nelle fasce e nelle braccia della baila, ricevono dalli cupidi amanti baci e scherzi lascivi, e nell’istabile delle tenere piante provano il tatto sodo nei lor pometti, né sono sicuri dall’aria stessa, che ancor ella per baciarli e fruirli si caccia loro per tutto. Or che sarà d’un putto della vostra età fiorita?
– Non nego – rispose Alcibiade – che da numeroso stuolo d’amanti non sia stato sempre vagheggiato e seguito; ma la sicura custodia de’ miei maggiori hanno impedito il lor gusto. Ho però procurato provar scambievoli questi diletti con fanciulli coetanei compagni, ma non li ho stimati molto, né li ho uguagliati a quei piaceri che forse si ricevono con gl’uomini; anzi, me li ho rappresentati tanto diversi quanto è un frutto acerbo da un maturo. Però non sono lontano dal desiderio di questa prova, e attentamente vi ascolto.
– Proviam adunque, ben mio dolcissimo – l’incazzito maestro disse – che sopra la verità dei fatti saranno piú veraci i discorsi e le glose.
– Non voglio altrimenti – rispose il putto – che cessata l’occasione di persuadere sarete piú languido e forse anco renitente nel dire. Seguite pertanto, e non temete del resto.
– Cosí farò – rispose, e ripigliò il suo filo dicendo – il diletto ch’hanno i fanciulli a sottoporsi all’amante è grande, non però uguale in tutti. La cagione ch’egli sia grande è questa.
I nostri sensi sono a questo fine ordinati dalla natura, perché dal loro proprio oggetto, ben ordinato e disposto, ricevono dilettazione e la compartiscono all’anima, che in ciò è stata dall’istessa natura prodotta. Perciò di bella pittura e piú belle animate sembianze umane gode con maraviglia la vista, dalla musica l’udito, di grati odori l’olfato, di cibi delicatissimi il gusto; ora il tatto, potentissimo sopra tutti gl’altri sensi, in cui consiste l’essere e il vivere degl’animali, in cui si rinchiudono con piú perfetta mistura le qualità degl’elementi, ha il sommo del suo piacere dal toccare le parti piú gentili, piú temprate e piú moli. Perciò nei congressi di Venere si corre subito con la bocca alle labbra, ove nella morbidezza di dolce latte porporeggia vezosissima la rosa; le mani scaltre, audaci, corrono impetuosamente alle mamelle, ai pomi, perché ivi, senza l’aspro dell’ossa, ha grata corrispondenza il desio. Ma piú oltre deve correre il nostro discorso, come piú dentro si trova l’ogetto piú verace e piú amato di questo senso. Dovete dunque sapere che la virtù primiera del tatto risiede, come dicono i piú intendenti filosofi, nelle parti nervose e negl’istessi nervi: e de qui avviene che quelle parti offese sentono piú dolore, e vezzeggiate ricevono maggior piacere. Perciò il colmo de’ piaceri è posto ne’ genitali, essendo quasi totalmente composti di gentilissimi nervetti. Or questo tatto ha il sopremo del contento quando col mezo di convenevoli tempre, quasi col pletro, sia al nativo suo dolce eccitato: e, per dirlo in breve, non riesce perfetto apieno se non per il seme genitale, perché questo è sopra ogn’altra parte del nostro corpo temperato, e con l’esser liquido, è facile con gli stranienti Acanti trasmettersi e penetrare i piú intimi luochi della vita e, per conseguenza, recar diletti divini.
Nei fanciulli, per difetto dell’età, non vi è questo seme onde non inclinano molto a’ piaceri attivi di Venere. Ma essendo in essi un fomite e una pullulazione di questo principio, hanno invece di seme certi spiritelli gentili lussuriosi, che gli provocano il diletto; e per esser questi spiriti piú agili e piú pronti al moto, con ogni picciola occasione i lor becchetti, come tanti gaietti, si alzano su e si stizzano, e restando nell’uso del far ad altri delusi, come mancano di questo desiderio, con eccesso riflettono la virtù nelle parti del loro giardino, e bramano perciò d’esser accarezzati, toccati e pienamente goduti. E perciò, quasi universalmente, con facilità si sottomettono. E se alcuno si mostra restio, non è questo perché la sua natura non l’inclini, ma per l’abito di timore imbevutogli da chi per leggi o per altro li persuade che sia vergogna e peccato. I loro bocchetti, irrigati dalla temperie dolcissima del seme, sentono in quell’atto gioia incomparabile di dolcezza, e piú se s’aggiongono altre ricreazioni nelle parti piú moli e veneree. Questa è la cagione del loro universal diletto, qual anco in gran parte dipende dalla disciplina e destrezza dell’agente; perché si ritrovano certi asinacci che invece d’apportar giubilo e contento all’amato fanciullo, a guisa di tanti macellari, sottopongono li poveri fanciulli alle sbregature: e il trofeo di queste loro empie boccarie sono lacrime, sangue e fratture di quei inocenti e simplici agneleti.
– Perché – addimandò Alcibiade – non ricevono i putti piacere anco da questi, se è l’istessa operazione e l’istesso uso?
– Alcibiade ben mio – rispose il maestro – la perfezione dell’universo consiste nel modo: è grato il bacio, ma che non morda; è soave grattar la scabia, ma non stracciar le carni; sino il far troppo elemosine, digiuni, orazioni, non è bene, se non è misurato.
Questi tali non sono amanti, ma lupi; non fruitori de’ beni sopremi, ma micidiali e nemici della natura e del mondo. Contro costoro, per scoprirvi un altro mistero, son fatte da alcune nazioni leggi di foco, non contro a’ discreti amanti; vogliono pertanto queste leggi che non si strapazzi il mestiero, ma che si faccia bene; che non vi sia occasione di sdegno, ma di benevolenza; e insomma, non se ne proibisce l’uso, ma il mancamento, come dalle altre cose di preggio: questo fu il fine di questi accorti politici. Che poi alcuni fanciulli sentano piú diletto degl’altri, ciò avviene dall’esser congionte con piú vicini nervetti le parti del giardinetto con quelle del cardellino, perché i spiriti con piú facilità si communicano: e il pizzicore immaturo dell’uccelletto s’induce quasi del tutto nel giardinetto, talché alcuni sentono soavità sí grande nel farsi chiavar, che impazziscono di desiderio, pregano e quasi violentano chi li contenti. Sono questi fanciulli vivacissimi sopra gl’altri, perché la copia de quei spiriti chiavarelli dà agilità anco al moto e ardire all’operare: onde li dissegni che si fanno di tali sogliono ordinariamente sentir il fine. Hanno anco il lor moto piegevole dai lati, quasi a vicenda tirati da contrapesi, effetto parimenti di questi scorrenti spiriti; è ben vero però che anche alcuni fanciulli quieti e savii, seben non sentono questo eccesso di tinticare, pure con quel poco ch’è commune a ciascuno, son facilissimi a lasciarsi levar in braccio; ed è piú facile il farglielo che il dirglielo; e ardisco di dire indubitatamente che niuno fanciullo, data opportuna e commoda occasione, sa esser restio a questi piaceri; anzi, alcuni ne sono tanto avidi e ingordi, che senza intermissione supplicano al officio del cazzo, strisciano e aprono, come le capre; e io credo che questi tali abbino cominciato a gustar questo dolce pria che nascessero nell’utero dico delle loro madri.
– Desidero sapere come può esser questo –, ripigliò Alcibiade.
– La natura della donna – rispose il maestro – come sanno benissimo gl’anatomisti, è a guisa di membro virile riversato, e nel concavo di essa si concepiscono i bambini.
Ora in alcune donne piú lussuriose questo interno cotale si rivoglie in varie maniere, e nella positura del bambino, che è tendente al sferico, si volta la ponta verso il alletto, si ferma, si ficca in parte in quel loco, e comincia il piacere con il tinticare, ed essendo dal loro primo principio usato a questo, gli par fierezza e cordoglio quando non hanno l’istesso o un simile grattante.
L’istesso intraviene alle donne, perciò molte di esse smaniano di questo gusto, e abbandonando la fica fanno officio solamente de’ putti: di questi indifferentemente, cioè tanto de’ putti quanto de’ donne, si può con verità dire che prima siano stati fottuti che nati.
Si può aggiongere ancora che vi sia piú pieno il diletto da cui si leva il fatticoso e il molesto, benché tallora la moderata fatica l’aumenti; tocca dunque il stancarsi, il sudare, il gemere all’amante; se ne sta steso, riposato, il fanciullo: questo pertanto piú gode.
Questi sono parte dei diletti che riceve il fanciullo in queste azioni; ma se è diletto il far bene, se è piacer l’esser ingegnoso e saputo, vi sono altri diletti oltre gl’accennati.
– Dittegli, di grazia, ma distintamente –, disse Alcibiade.
– Gli dirò – disse il maestro – grande, infinito, incomparabile è Iddio, perché dà l’esser, il conservare; e tanto di buono e di bello può bramarsi nel mondo liberamente senza impoverire.
Chi dunque fa secondo il suo potere beneficii piú grati e piú soavi, beneficii che diano vita ai languenti, che traslatino dal inferno nel paradiso l’anime tormentate, non s’assomiglia questo a proporzione a Dio? E chi meglio fa questo, che quello che consola l’amante? Che chi li porge quel uso per cui egli lascia di riposare e di vivere? E perché credete che da’ nostri antichissimi padri siano collocati nel numero de’ dei della prima classe, anzi, stimati figlioli reali del sommo Giove, dico Cupido e Venere? Solo perché erano a’ suoi tempi facili e cortesissimi a far con questi diletti beati gl’uomini. Quanti, per esser stati tali, sono collocati tra dei: hanno sí onorata insegna nel cielo le imagini eterne, fulgentissime delle stelle Castore e Polluce, Ganimede, Arianna e altri senza parangone e senza numero. Leggete pur l’istorie de’ nostri Greci, e le vedrete tutte ripiene di queste verità.
– Voi dite il vero – disse Alcibiade – che anco io ho letto e udite queste cose. Ma perché Cupido e Venere sono piú grandi e piú nominati degl’altri nominati da voi?
– Perché furono piú belli e piú cortesi degl’altri –, rispose il maestro.
– Ditemi, caro signor maestro – replicò Alcibiade – come per questa via si diventi ingegnoso e saputo, come or ora diceste.
– In questo modo che vi dirò – rispose il maestro – il celebro umano, che risiede tra i sensi interni de l’anima, ha origine dai sensi esterni, è eccessivamente umido e freddo, di modo che se tallora non viene ridotto a temperie, resta ottuso, inabile alle cognizioni sensibili e ripieno d’immondi escrementi: perciò gl’odori soavi, che sono calidi e temperati, li conferiscono grandemente; ma a questo effetto è miracoloso il seme di persona ingegnosa e dotta, perché questo, trasmesso per le parti basse del giardinetto, per virtù del suo nativo calore, esalla verso il celebro spiriti ben disposti, che lo dispongono attivamente a ricever qualità quasi simili a quelle del operante. Né è permesso a fanciullo alcuno diventar pari al suo maestro, se non per questa via; non negherò però che da ogni seme non si riceva qualche utile nel cervello, essendo ognuno de chi si sia giustamente tepido e temperato, ma piú ove ha piú del qualificato e del nobile –.
Rise soavemente a questi scherzi il fanciullo amoroso, e accompagnando gl’atti alla sua gentilezza immensa, s’accinse a far beato l’anelante maestro.
– Ecco – disse – amantissimo maestro, che il desire del vero sapere, posposta ogn’altra cosa, ai vostri piaceri mi piega. Eccomi apparecchiato a contentarvi di quanto bramate –.
E nell’istesso tempo, alzando la veste, s’acconciava all’effetto modestamente e, agiustato dalla diligenza del maestro, in un tratto mostrando svelate quelle pompe gloriose d’amore, fece vergogna alle stelle, al cielo, e l’istesso sole, vinto da quei splendori piú che celesti, s’abbagliò di vista.
Chi potria mai narrare in parte le maraviglie incredibili che in quel compendio dell’universo si ammiravano? Le rotonde sfere, emule alle celesti, erano vivaci, asperse d’animati ligustri e di narcisi; il tatto della mano vi faceva stupire, col purpureo di cocenti rubini e col misto di latte e di cinabrio, li prati e giardini fioriti, gl’archi celesti, i raggi, le stelle stesse; il moto, che regolato e grave per soave diporto vi additava il glorioso fanciullo, averebbe incazzite le statue di bronzo e di marmo. O come maestoso, o quanto bello e regale aveva, a guisa di nascente rosa, le sue crespette riserrate; e con il misto di varii colori gareggiava tra gl’altri le nevi animate e l’ostro.
Cadé, quasi languente di gioia, all’apparir di quelle superbe maraviglie, il fortunato maestro. Ma preso ardire, con le ginocchia chine, li diede il primo tributo con la lingua, che, fatta stupida alla favella, presa dalla sua propria bocca, avida e pellegrina cercava albergo in quel loco. Qui furiosa s’immerse, e con maggior ingordigia che non sugge il famelico bambino il latte delle mamelle, lambiva, sugeva, beveva, ingoiava quei soavissimi liquori d’ambrosia. Accinto a miglior opra, ridondante di gaudio immenso, proruppe in queste parole:
– Se i savii chiamano paradiso quel loco ove si fanno beate l’anime in cielo, paradiso sarai tu della terra, ove si beano gl’uomini viventi in essa; e se l’uomo è piú perfetto che l’anima sola, tanto sarai tu piú glorioso di lui, quanto in quello è sola felice l’anima, e per te si fa anco beato il corpo.
Se questa è la sede della felicità, ove sta il vero dio d’amore che fa in effetto felici, qui dunque devoto mi consacro, e se altri paradisi si trovano, li commuto volentieri per questo.
Ceda, ceda pur alle tue glorie il cielo. Egli con i suoi tuoni atterra, tu soavemente aletti e invitti. I suoi fulmini inceneriscono, i tuoi fanno fecondi a’ viventi. Il suo moto è meditato uniforme, e perciò produttivo sempre degl’istessi effetti languidi e infruttuosi; il tuo, con accessi e recessi, or presto or tardo, influisce varii effetti, ma fecondi tutti, colmi di gioia e diletto. A quella assiste una intelligenza oziosa; a questa invigilano piú Arghi, informando vicendevolmente l’orbe, non si stancano mai, anzi, prendono da lui continua forza, sempre piú s’invigoriscono. Quello si stima incorruttibile ed eterno; questo per fama e gloria di tanti trofei acquistati, voti dedicati e appesi, preghiere efficacissime fattegli, lacrime copiose sparse, sospiri cocenti gettati, si rende glorioso e perpetuo alla memoria de’ viventi.
Questo dunque sarà il centro de’ miei pensieri; da lui riceveranno il moto; sarà regola infallibile delle mie azioni, scopo e meta d’ogni mio bene e felicità. E cosí, come a mio nume e deità, ti consacrerò il mio core –.
E cosí dicendo, l’innamorato maestro, con dolcissime spinte, continuava a godere il vago fanciullo, ridotto a termine che non avendo il cazzo del suo maestro nel culo non sapeva che cosa fusse dolcezze; nemeno credeva per altra via poter divenir perfetto al pari del suo precettore.
Fortunato maestro, che facendoti servo di tanta bellezza fosti anco padrone di goderla, in conformità del tuo desiderio.
Ma come poi continuassero i loro godimenti e gl’amorosi amplessi, nella seconda parte piú lascivamente intenderete.
IL FINE
DI M.V.
L’arte che buggeronica si chiama
fu da’ Greci piú dotti ritrovato
e da’ maggiori, e poi da tutti usato,
per sfogar de’ lor cazzi la gran fiama.
Da quella gente ancor, a drama a drama,
fu ridotta da noi a miglior stato,
onde ciascuno vuol il putto a lato,
e lasciano in disparte ogn’altra marna.
Fottete in cul, o voi, fuggi la potta,
bestiazze da basto, arcipoltroni,
poi cazzevi romitti in una grotta;
ma se chiavate in potta, ser mastroni,
vi marcirete il cazzo a l’otta a l’otta,
e sarete chiamati arcicoglioni.
DEL MEDESIMO
Sentite o voi, poeti peccoroni,
che non avé cervel né fantasia,
mi saperesti dir se meglio sia
fotter sotto vestura o ne’ calzoni?
So ben che sete tutti buggeroni,
che vi conosco a la fisonomia;
dite per vostra fé qual meglio sia,
se non, dirò che sete buffaloni.
Non rispondete, no? O gagliofazzi,
alocchi, mamalucchi e asinoni,
mascalzoni, cú cú, teste de cazzi.
Ben io lo so, ch’alcun de’ miei coglioni
di potta mai provaron li suoi guazzi,
ma sol del culiseo li fei patroni.
DEL MEDESIMO
Potta, che non vuò dir di qualche male,
mi monta pur quando mi viene in mente
che un uomo dotto con la bassa gente
deve mettere in potta il suo cotale.
Se ’l bue, se ’l can, il cervo, ogn’animale,
fotte in la potta tutti allegramente,
se al fotter il saper non giova niente,
adio studio, ti dò l’ultimum vale.
Devon fotter adunque i piú saputi
(sentite in cortesia, non sta già bene)
dove che fotton gl’animali bruti?
Sia benedetta pur la dotta Atene,
dove Platon e Socrate coi putti
con gran piacer scarcavano le rene.
DEL MEDESIMO
O voi che le scienze studiate,
scrivendo ognor mille coglionerie,
mettete in carta sempre furberie
e in ciò sempre il cervel vi lambicate,
dite che buggeron son prete e frate,
sempre sognate in tal ribalderie:
io, che conosco vostre ladrerie,
so che da l’altrui scritti mendicate;
e se volete che vi dica il vero,
vi stimo babuassi da berlina,
e del vostro ciarlar non vi dò un pero.
Ma se volé imparar buona dottrina
(che mai dissi bugia, ma solo il vero)
legge questo libretto una mattina.