Correva l’anno 1476, ed era propinqua la festività del Natale di Cristo; e perché il Principe, il giorno di Santo Stefano, soleva con pompa grande vicitare il tempio di quello martire, deliberorono che quello fusse il luogo e il tempo commodo ad esequire il pensiero loro. Venuta adunqua la mattina di quel santo, feciono armare alcuni de’ loro più fidati amici e servidori, dicendo volere andare in aiuto di Giovannandrea, il quale contro alla voglia di alcuni suoi emuli voleva condurre nelle sue possessioni uno aquedutto; e quelli così armati al tempio condussono, allegando volere, avanti partissero, prendere licenza dal Principe. Feciono ancora venire in quel luogo, sotto varii colori, più altri loro amici e congiunti, sperando che, fatta la cosa, ciascheduno nel resto della impresa loro gli seguitasse. E lo animo loro era, morto il Principe, ridursi insieme con quegli armati, e gire in quella parte della terra dove credessero più facilmente sollevare la plebe, e quella contro alla Duchessa e a’ principi dello stato fare armare. E stimavano che il popolo, per la fame dalla quale era aggravato, dovesse facilmente seguirgli, perché disegnavano dargli la casa di messer Cecco Simonetta, di Giovanni Botti e di Francesco Lucani, tutti principi del governo, in preda, e per questa via assicurare loro, e rendere la libertà al popolo. Fatto questo disegno, e confirmato l’animo a questa esecuzione, Giovannandrea con gli altri furno al tempio di buona ora; udirono messa insieme; la quale udita, Giovannandrea si volse ad una statua di Santo Ambrogio e disse: - O padrone di questa nostra città, tu sai la intenzione nostra e il fine a che noi voliamo metterci a tanti pericoli: sia favorevole a questa nostra impresa; e dimostra, favorendo la giustizia, che la ingiustizia ti dispiaccia. - Al Duca dall’altro canto, avendo a venire al tempio, intervennono molti segni della sua futura morte: perché, venuto il giorno, si vestì, secondo che più volte costumava, una corazza, la quale di poi subito si trasse, come se nella presenza o nella persona lo offendesse, volle udire messa in Castello, e trovò che il suo cappellano era ito a Santo Stefano con tutti i suoi apparati di cappella; volle che, in cambio di quello, il vescovo di Como celebrasse la messa, e quello allegò certi impedimenti ragionevoli: tanto che, quasi per necessità, deliberò di andare al tempio, e prima si fece venire Giovangaleazzo ed Ermes suoi figliuoli, e quelli abbracciò e baciò molte volte, né pareva potesse spiccarsi da quelli; pure alla fine, deliberato allo andare, si uscì di Castello, ed entrato in mezzo dello oratore di Ferrara e di Mantova, ne andò al tempio. I congiurati, in quel tanto, per dare di loro minore suspizione, e fuggire il freddo che era grandissimo, si erano in una camera dello arciprete della chiesa, loro amico, ritirati; e intendendo come il Duca veniva, se ne vennono in chiesa: e Giovanni Andrea e Girolamo si posono dalla destra parte allo entrare del tempio, e Carlo dalla sinistra. Entravano già nel tempio quelli che precedono al Duca; di poi entrò egli, circundato da una moltitudine grande, come era conveniente, in quella solennità, ad una ducale pompa. I primi che mossano fu il Lampognano e Girolamo. Costoro, simulando di far fare largo al Principe, se gli accostorono, e strette le armi, che corte e acute avevono nelle maniche nascose, lo assalirono. Il Lampognano gli dette due ferite, l’una nel ventre, l’altra nella gola; Girolamo ancora nella gola e nel petto lo percosse. Carlo Visconte, perché si era posto più propinquo alla porta, ed essendogli il Duca passato avanti, quando dai compagni fu assalito, nol potette ferire davanti, ma con duoi colpi la schiena e la spalla gli trafisse. E furono queste sei ferite sì preste e sì subite, che il Duca fu prima in terra che quasi niuno del fatto si accorgesse; né quello potette altro fare o dire, salvo che, cadendo, una volta sola il nome della Nostra Donna in suo aiuto chiamare. Caduto il Duca in terra, il romore si levò grande; assai spade si sfoderorono e, come avviene nelli casi non preveduti, chi fuggiva del tempio e chi correva verso il tumulto sanza avere alcuna certezza o cagione della cosa. Non di meno quegli che erano al Duca più propinqui, e che avevono veduto il Duca morto, e gli ucciditori cognosciuti, li perseguitorono. E de’ congiurati, Giovannandrea volendo tirarsi fuori di chiesa, entrò fra le donne, le quali trovando assai, e secondo il loro costume a sedere in terra implicato e ritenuto intra le loro veste fu da un moro, staffiero del Duca, sopraggiunto e morto. Fu ancora da’ circunstanti ammazzato Carlo. Ma Girolamo Olgiato, uscito fra gente e gente di chiesa, vedendo i suoi compagni morti non sapiendo dove altrove fuggirsi, se ne andò alle sue case; dove non fu dal padre né da’ frategli ricevuto. Solamente la madre, avendo al figliuolo compassione, lo raccomandò ad uno prete, antico amico alla famiglia loro; il quale, messogli suoi panni indosso, alle sue case lo condusse; dove stette duoi giorni, non sanza speranza che in Milano nascesse qualche tumulto che lo salvasse. Il che non succedendo, e dubitando non essere in quel loco ritrovato, volse sconosciuto fuggirsi; ma, conosciuto, nella podestà della giustizia pervenne, dove tutto l’ordine della congiura aperse. Era Girolamo di età di ventitré anni; né fu nel morire meno animoso che nello operare si fusse stato; perché trovandosi ignudo e con il carnefice davanti, che aveva il coltello in mano per ferirlo, disse queste parole in lingua latina, perché litterato era: - Mors acerba, fama perpetua, stabit vetus memoria facti. - Fu questa impresa di questi infelici giovani secretamente trattata e animosamente esequita; e allora rovinorono quando quelli ch’eglino speravano gli avessero a seguire e defendere non gli defesono né seguirono. Imparino per tanto i principi a vivere in maniera, e farsi in modo reverire e amare, che niuno speri potere, ammazzandogli, salvarsi; e gli altri cognoschino quanto quel pensiero sia vano che ci faccia confidare troppo che una moltitudine, ancora che mal contenta, ne’ pericoli tuoi ti seguiti o ti accompagni. Sbigottì questo accidente tutta Italia; ma molto più quegli che, indi a breve tempo, in Firenze seguirono; i quali quella pace che per dodici anni era stata in Italia ruppono, come nel libro seguente sarà da noi dimostrato. Il quale, se arà il fine suo mesto e lagrimoso, arà il principio sanguinoso e spaventevole.