Era podestà di Prato per il popolo di Firenze Cesare Petrucci. Hanno questi simili governatori di terre consuetudine di tenere le chiavi delle porti appresso di loro; e qualunque volta, ne’ tempi massime non sospetti, alcuno della terra le domanda, per uscire o entrare di notte in quella, gliene concedono. Bernardo, che sapeva questo costume, propinquo al giorno, insieme con quelli del Palandra e circa cento armati, alla porta che guarda verso Pistoia si presentò; e quelli che, dentro, sapevano il fatto ancora s’armorono; uno de’ quali domandò al Podestà le chiavi, fingendo che uno della terra per entrare le domandasse. Il Podestà, che niente d’uno simile accidente poteva dubitare, mandò uno suo servidore con quelle: al quale, come fu alquanto dilungatosi dal Palagio, furono tolte da’ congiurati; e aperta la porta, fu Bernardo con i suoi armati intromesso, e convenuti insieme, in due parti si divisono, una delle quali, guidata da Salvestro Pratese, occupò la cittadella, l’altra, insieme con Bernardo, prese il Palagio, e Cesare con tutta la sua famiglia dierono in guardia ad alcuni di loro. Di poi levorono il romore, e per la terra andavano il nome della libertà gridando. Era già apparito il giorno, e a quel romore molti popolani corsono in Piazza, e intendendo come la rocca e il Palagio erano stati occupati e il Podestà con i suoi preso, stavano ammirati donde potesse questo accidente nascere. Gli Otto cittadini che tengono in quella terra il supremo grado nel palagio loro convennono, per consigliarsi di quello fussi da fare. Ma Bernardo e i suoi, corso che gli ebbe un tempo per la terra, e veggendo di non essere seguito da alcuno, poi che gli intese gli Otto essere insieme, se n’andò da quelli; e narrò la cagione della impresa sua essere volere liberare loro e la patria sua dalla servitù; e quanta gloria sarebbe a quelli, se prendevono l’arme e in questa gloriosa impresa lo accompagnavano, dove acquisterieno quiete perpetua ed eterna fama. Ricordò loro l’antica loro libertà e le presenti condizioni; mostrò gli aiuti certi, quando e’ volessero, pochissimi giorni, a quelle tante forze che i Fiorentini potessero mettere insieme opporsi; affermò di avere intelligenza in Firenze, la quale si dimosterrebbe subito che si intendesse quella terra essere unita a seguirlo. Non si mossono gli Otto per quelle parole; e gli risposono non sapere se Firenze si viveva libera o serva, come cosa che a loro non si aspettava intenderla; ma che sapevano bene che per loro non si desiderò mai altra libertà che servire a quegli magistrati che Firenze governavano, da’ quali mai non avevono ricevuta tale ingiuria che gli avessero a prendere l’armi contro a quelli. Per tanto lo confortavano a lasciare il Podestà nella sua libertà, e la terra libera dalle sue genti; e sé da quel pericolo con prestezza traessi nel quale con poca prudenza era entrato. Non si sbigottì Bernardo per queste parole, ma deliberò di vedere se la paura moveva i Pratesi, poi che i prieghi non li movevono: e per spaventargli pensò di fare morire Cesare, e tratto quello di prigione, comandò che fusse alle finestre del Palagio appiccato. Era già Cesare propinquo alle finestre, con il capestro al collo, quando ei vide Bernardo che sollecitava la sua morte. Al quale voltosi disse: - Bernardo, tu mi fai morire, credendo essere di poi dai Pratesi seguitato: ed egli ti riuscirà il contrario; perché la reverenzia che questo popolo ha agli rettori che ci manda il popolo di Firenze è tanta che, come ei si vedrà questa ingiuria fattami, ti conciterà tanto odio contro, che ti partorirà la tua rovina. Per tanto non la morte, ma la vita mia puote essere cagione della vittoria tua: perché, se io comanderò loro quello che ti parrà, più facilmente a me che a te ubbidiranno; e seguendo io gli ordini tuoi, ci verrai ad avere la intenzione tua. - Parve a Bernardo, come quello che era scarso di partiti, questo consiglio buono; e gli comandò che, venuto sopra uno verone che risponde in Piazza, comandasse al popolo che lo ubbidisse. La quale cosa fatta che Cesare ebbe, fu riposto in prigione.