Istorie fiorentine/Libro secondo/Capitolo 39

Libro secondo

Capitolo 39

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Posate le cose di fuora, si volsono a quelle di dentro, e dopo alcuna disputa fatta intra i Grandi e i popolani, conclusono che i Grandi nella Signoria la terza parte e negli altri ufici la metà avessero. Era la città, come di sopra dimostrammo, divisa a sesti, donde che sempre sei Signori, d’ogni sesto uno, si erano fatti; eccetto che, per alcuni accidenti, alcuna volta dodici o tredici se ne erano creati, ma poco di poi erano tornati a sei. Parve per tanto da riformarla in questa parte, sì per essere i sesti male distribuiti, sì perché, volendo dare la parte ai Grandi, il numero de’ Signori accrescere conveniva. Divisono per tanto la città a quartieri, e di ciascuno creorono tre Signori; lasciorono indietro il gonfalonieri della giustizia e quelli delle Compagnie del popolo, e in cambio de’ dodici buoni uomini, otto consiglieri, quattro di ciascuna sorte, creorono. Fermato, con questo ordine, questo governo, si sarebbe la città posata, se i Grandi fussero stati contenti a vivere con quella modestia che nella vita civile si richiede; ma eglino il contrario operavano; perché, privati, non volevono compagni, e ne’ magistrati volevono essere signori; e ogni giorno nasceva qualche esemplo della loro insolenzia e superbia: la qual cosa al popolo dispiaceva; e si doleva che, per uno tiranno che era spento, n’erano nati mille. Crebbono adunque tanto da l’una parte le insolenzie e da l’altra gli sdegni, che i capi de’ popolani mostrorono al Vescovo la disonestà de’ Grandi e la non buona compagnia che al popolo facevano, e lo persuasono volesse operare che i Grandi di avere la parte negli altri ufici si contentassero, e al popolo il magistrato de’ Signori solamente lasciassero. Era il Vescovo naturalmente buono, ma facile ora in questa ora in quell’altra parte a rivoltarlo: di qui era nato che, ad instanzia de’ suoi consorti, aveva prima il Duca di Atene favorito, di poi, per consiglio d’altri cittadini, gli aveva congiurato contro; aveva, nella riforma dello stato, favorito i Grandi, e così ora gli pareva di favorire il popolo, mosso da quelle ragioni gli furono da quelli cittadini popolani riferite. E credendo trovare in altri quella poca stabilità che era in lui, di condurre la cosa d’accordo si persuase, e convocò i quattordici, i quali ancora non avevono perduta l’autorità, e con quelle parole seppe migliori gli confortò a volere cedere il grado della Signoria al popolo, promettendone la quiete della città, altrimenti la rovina e il disfacimento loro. Queste parole alterorono forte l’animo de’ Grandi; e messer Ridolfo de’ Bardi con parole aspre lo riprese, chiamandolo uomo di poca fede, e rimproverandogli l’amicizia del Duca come leggieri e la cacciata di quello come traditore; e gli concluse che quelli onori ch’eglino avevono con loro pericolo acquistati volevono con loro pericolo difendere. E partitosi alterato, con gli altri, dal Vescovo, ai suoi consorti e a tutte le famiglie nobili lo fece intendere. I popolani ancora agli altri la mente loro significorono, e mentre i Grandi si ordinavano, con gli aiuti, alla difesa de’ loro Signori, non parve al popolo di aspettare che fussero ad ordine, e corse armato al Palagio, gridando che voleva che i Grandi rinunziassero al magistrato. Il romore e il tumulto era grande: i Signori si vedevono abbandonati, perché i Grandi, veggendo tutto il popolo armato, non si ardirono a pigliare le armi, e ciascuno si stette dentro alle case sue; di modo che i Signori popolani, avendo fatto prima forza di quietare il popolo, affermando quelli loro compagni essere uomini modesti e buoni, e non avendo potuto per meno reo partito alle case loro gli rimandorono, dove con fatica salvi si condussono. Partiti i Grandi di Palagio, fu tolto ancora l’uficio ai quattro consiglieri grandi, e fecionne infino in dodici popolani; e gli otto Signori che restorono feciono uno gonfaloniere di giustizia e sedici gonfalonieri delle Compagnie del popolo, e riformorono i Consigli in modo che tutto il governo nello arbitrio del popolo rimase.