Occorse, poco tempo di poi, che Uguccione della Faggiuola diventò signore di Pisa, e poi apresso di Lucca, dove dalla parte ghibellina fu messo; e con il favore di queste città gravissimi danni a’ vicini faceva, dai quali i Fiorentini per liberarsi domandorono ad il re Ruberto Piero suo fratello, che i loro eserciti governasse. Uguccione da l’altra parte di accrescere la sua potenzia non cessava, e per forza e per inganno aveva in Val d’Arno e in Val di Nievole molte castella occupate, ed essendo ito allo assedio di Montecatini, giudicorono i Fiorentini che fusse necessario soccorrerlo, non volendo che quello incendio ardesse tutto il paese loro. E ragunato un grande esercito, passorono in Val di Nievole, dove vennono con Uguccione alla giornata; e dopo una gran zuffa furono rotti, dove morì Piero fratello del Re, il corpo del quale non si ritrovò mai, e con quello più che dumila uomini furono ammazzati. Né dalla parte di Uguccione fu la vittoria allegra, perché vi morì un suo figliuolo, con molti altri capi dello esercito. I Fiorentini, dopo questa rotta, afforzorono le loro terre allo intorno; e il re Ruberto mandò per loro capitano il conte d’Andria, detto il Conte Novello, per i portamenti del quale, o vero perché sia naturale a’ Fiorentini che ogni stato rincresca e ogni accidente gli divida, la città, non ostante la guerra aveva con Uguccione, in amici e nimici del Re si divise. Capi degli nimici erano messer Simone della Tosa, i Magalotti, con certi altri, popolani, i quali erano agli altri nel governo superiori. Costoro operorono che si mandasse in Francia, e di poi nella Magna, per trarne capi e genti, per potere poi, allo arrivare loro, cacciarne il Conte governatore per il Re, ma la fortuna fece che non poterono averne alcuno. Non di meno non abbandonorono la impresa loro; e cercando di uno per adorarlo, non potendo di Francia né della Magna trarlo, lo trassono di Agobio: e avendone prima cacciato il Conte, feciono venire Lando d’Agobio per esecutore, o vero per bargello; al quale pienissima potestà sopra i cittadini dettono. Costui era uomo rapace e crudele, e andando con molti armati per la terra, la vita a questo e a quell’altro, secondo la volontà di coloro che lo avevano eletto, toglieva; e in tanta insolenzia venne, che batté una moneta falsa del conio fiorentino, sanza che alcuno opporsegli ardisse: a tanta grandezza lo avieno condotto le discordie di Firenze! Grande veramente e misera città; la quale né la memoria delle passate divisioni, né la paura di Uguccione, né l’autorità di uno Re avevano potuto tenere ferma, tanto che in malissimo stato si trovava, sendo fuora da Uguccione corsa, e dentro da Lando d’Agobio saccheggiata. Erano gli amici del Re, e contrari a Lando e suoi seguaci, famiglie nobili e popolani grandi, e tutti Guelfi; non di meno, per avere gli avversarii lo stato in mano, non potevono, se non con loro grave pericolo, scoprirsi; pure, deliberati di liberarsi da sì disonesta tirannide, scrissono secretamente al re Ruberto che facesse suo vicario in Firenze il conte Guido da Battifolle. Il che subito fu da il Re ordinato; e la parte nimica, ancora che i Signori fussero contrari ad il Re, non ardì, per le buone qualità del Conte opporsegli; non di meno non aveva molta autorità, perché i Signori e gonfalonieri delle Compagnie Lando e la sua parte favorivano. E mentre che in Firenze in questi travagli si viveva, passò la figliuola del re Alberto della Magna, la quale andava a trovare Carlo, figliuolo del re Ruberto, suo marito. Costei fu onorata assai dagli amici del Re, e con lei delle condizioni della città e della tirannide di Lando e suoi partigiani si dolfono; tanto che prima che la partisse, mediante i favori suoi e quelli che da il Re ne furono porti, i cittadini si unirono, e a Lando fu tolta l’autorità, e pieno di preda e di sangue rimandato ad Agobio. Fu, nel riformare il governo la signoria ad il Re per tre anni prorogata; e perché di già erano eletti sette Signori di quelli della parte di Lando, se ne elessono sei di quelli del Re; e seguirono alcuni magistrati con tredici Signori; di poi, pure secondo lo antico uso, a sette si ridussono.