Istorie fiorentine/Libro ottavo/Capitolo 19

Libro ottavo

Capitolo 19

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Era Lorenzo, per mare, arrivato a Napoli; dove, non solamente da il Re, ma da tutta quella città fu ricevuto onoratamente e con grande espettazione, perché essendo nata tanta guerra solo per opprimerlo, la grandezza degli inimici che gli aveva avuti lo aveva fatto grandissimo. Ma arrivato alla presenza del Re, e’ disputò in modo delle condizioni di Italia, degli umori de’ principi e popoli di quella, e quello che si poteva sperare nella pace e temere nella guerra, che quel re si maravigliò più, poi che l’ebbe udito, della grandezza dello animo suo e della destrezza dello ingegno e gravità del iudizio, che non si era prima dello avere egli solo potuto sostenere tanta guerra maravigliato; tanto che gli raddoppiò gli onori, e cominciò a pensare come più tosto e’ lo avesse a lasciare amico che a tenerlo nimico. Non di meno, con varie cagioni, dal dicembre al marzo lo intrattenne, per fare non solamente di lui duplicata sperienza, ma della città: perché non mancavano a Lorenzo, in Firenze, nimici che arebbono avuto desiderio che il Re lo avesse ritenuto e come Iacopo Piccinino trattato; e sotto ombra di dolersene, per tutta la città ne parlavano, e nelle deliberazioni publiche a quello che fusse in favore di Lorenzo si opponevano. E avevano con questi loro modi sparta fama che, se il Re lo avesse molto tempo tenuto a Napoli, che in Firenze si muterebbe governo. Il che fece che il Re soprasedé lo espedirlo quel tempo, per vedere se in Firenze nasceva tumulto alcuno. Ma veduto come le cose passavano quiete, a dì 6 di marzo, nel 1479, lo licenziò; e prima con ogni generazione di beneficio e dimostrazione di amore se lo guadagnò; e infra loro nacque accordi perpetui a conservazione de’ comuni stati. Tornò per tanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s’egli se n’era partito grande; e fu con quella allegrezza da la città ricevuto, che le sue grandi qualità e i freschi meriti meritavano, avendo esposto la propria vita per rendere alla patria sua la pace. Perché, duoi giorni dopo l’arrivata sua, si publicò lo accordo fatto infra la republica di Firenze e il Re: per il quale si obligavano ciascuno alla conservazione de’ comuni stati; e delle terre tolte nella guerra a’ Fiorentini fusse in arbitrio del Re il restituirle; e che i Pazzi posti nella torre di Volterra si liberassero; e al Duca di Calavria, per certo tempo, certe quantità di danari si pagassero. Questa pace, subito che fu publicata, riempié di sdegno il Papa e i Viniziani: perché al Papa pareva essere stato poco stimato da il Re, e i Viniziani da’ Fiorentini; ché, sendo stati l’uno e l’altro compagni nella guerra, si dolevano non avere parte nella pace. Questa indegnazione, intesa e creduta a Firenze, subito dette a ciascheduno sospetto che da questa pace fatta non nascesse maggiore guerra: in modo che i principi dello stato deliberorono di ristrignere il governo, e che le deliberazioni importanti si riducessero in minore numero; e feciono un consiglio di settanta cittadini, con quella autorità gli poterono dare maggiore nelle azioni principali. Questo nuovo ordine fece fermare l’animo a quelli che volessero cercare nuove cose. E per darsi reputazione, prima che ogni cosa, accettorono la pace fatta da Lorenzo con il Re, destinorono oratori al Papa e a quello messer Antonio Ridolfi e Piero Nasi. Non di meno non ostante questa pace, Alfonso duca di Calavria non si partiva con lo esercito da Siena, mostrando essere ritenuto dalle discordie di quegli cittadini; le quali furono tante che, dove gli era alloggiato fuora della città, lo ridussero in quella e lo ferono arbitro delle differenze loro. Il Duca, presa questa occasione molti di quegli cittadini punì in danari, molti ne giudicò alle carcere, molti allo esilio, e alcuni alla morte: tanto che, con questi modi, egli diventò sospetto, non solamente a’ Sanesi, ma a’ Fiorentini, che non si volesse di quella città fare principe. Né vi si cognosceva alcuno rimedio, trovandosi la città in nuova amicizia con il Re, e al Papa e a’ Viniziani nimica. La qual suspizione, non solamente nel popolo universale di Firenze, sottile interpetre di tutte le cose, ma in ne’ principi dello stato appariva; e afferma ciascuno la città nostra non essere mai stata in tanto pericolo di perdere la libertà. Ma Iddio, che sempre in simili estremità ha di quella avuta particulare cura, fece nascere uno accidente insperato, il quale dette al Re, al Papa e a’ Viniziani maggiori pensieri che quelli di Toscana.