Inni di Callimaco (1827)/Pallade

Pallade

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Pallade
Delo Cerere
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PALLADE. 1


O Lavatrici di Minerva uscite,
     Odo i sacri cavalli, ecco la Diva,
     Bionde Pelasghe venite venite.
Le braccia non mondò Pallade in riva,
     Se pria non terse ai corridori i fianchi,
     E quando tutta stillante reddiva
Del sangue de’ giganti in Flegra stanchi,
     Pria dai gioghi slegò le coppie equine,
     E le bocche spumose e i dorsi bianchi
Lavò nelle correnti onde marine:
     Interrompete Achee vostro soggiorno,
     Il fragor delle rote odo vicine.
Specchi non le ponete o nardi intorno,
     Nardi non ama o lucidi metalli,
     Il volto di Minerva è sempre adorno.
Il dì che trasse alle Trojane valli
     Non ella i vaghi rai, non Giuno torse
     Di Simoenta ai liquidi cristalli.

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Gli occhi al miraglio suo Venere porse,
     E una fiata ed altra al crin le mani,
     Cento stadi Minerva e più trascorse;
Quai sull’Eurota i due astri Spartani,
     Poscia diffusa di liquor d’ulivi
     Fiammeggiò come rose e melograni
Umor dell’arbor sua recate quivi
     A Castore diletto, e un pettin d’oro
     Da solcarle del crin gli erranti rivi.
Vieni vieni Minerva: il casto coro
     Già delle amate verginelle incede,
     Progenie del magnanimo Acestoro;
Ecco lo scudo, o Dea, di Diomede,
     Antico rito, di cui fu radice
     Il fuggitivo sacerdote Eumede,
Che addetto a morte vêr la Crea pendice
     Mosse, e locò l’imago tua sui nudi
     Fianchi del monte che da te si dice.
Vien Dea, che in elmo d’or la fronte chiudi,
     E torri adegui alla suggetta arena,
     E fragor di cavalli ami e di scudi.
Non toccate del fiume oggi la piena
     Ancelle, oggi Amimon vostr’urne aggreve,
     Oggi di Fisadéa ite alla vena.
Del fiume no, dei fonti oggi Argo beve,
     Pieni d’oro e di fior vengon dai colli
I lavacri che a Palla Inaco deve.
Allorchè nelle chiare acque s’immolli
     La Dea, Pelasgo, dal guardar rimanti,
     Che dir non gioverà: veder non volli.
Gli occhi che viste avran scinte dei manti
     Le membra della Dea, che in rocche annida,
     Quest’Argo più non mireranno avanti.
Mentre che Palla all’Inaco si guida,
     Vergini, canterò storia non mia,
     Ma quale per altrui lingua si grida.

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La madre di Tiresia, che natia
     Era di Tebe, a Pallade sì cara
     Visse, che mai da se non la partia.
Se veder di Curalio il bosco, o l’ara
     Di Coronéa e d’Aliarto vole,
     Colà dove il Teban vendemmia ed ara,
O la piaggia di Tespi, con lei suole
     Di Tiresia venir la madre altera,
     Nè feste la diletta nè carole,
Se Cariclo non è capo di schiera,
     Ma di lacrime amare un largo fonte
     Da sì dolce amistà per nascer’era.
Nell’ora che più al Sole arde la fronte
     Ponevano le membra in Ippocrene,
     Alti silenzi possedeano il monte.
Tiresia che volgea per quelle arene
     Senza più compagnia che i veltri sui,
     Per gran sete appressò le fresche vene,
E cose, che veder non lice a nui,
     Lasso! mirò nei desiati fiumi,
     Perchè irata la Dea si volse a lui:
O Everide, quai nemici Numi
     Han le tue caccie a questa via converse,
     Da cui non uscirai con salvi i lumi?
Fur queste voci un vel, che gli coverse
     Ambe le luci; ed ammutia, che a un tratto
     La lena, il senno e la favella perse:
E la ninfa gridò: Dea che hai fatto?
     L’amistà dunque delle Dive è questa?
     L’uno e l’altr’occhio al figlio mio m’hai ratto.
Hai veduta Minerva senza vesta,
     Ma non vedrai più il Sol; montagna addio
     D’Elicona, per sempre addio foresta.
Di picciola jattura inegual fio!
     Per qualche damma e qualche capriolo
     Gli occhi pigli amendue del figlio mio;

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E lamentando in nota d’usignuolo,
     Le braccia ai fianchi di Tiresia gira,
     E bagna i mesti rai di largo duolo.
Pallade allor per la pietà: ritira,
     Ninfa gentil, ritira le parole,
     In cui la lingua t’è scorsa per ira.
Non io Tiresia tuo privai del Sole,
     Nè gli occhi altrui rapir m’è dolce frutto,
     Ma legge di Saturno così vole:
Chiunque ad ammirar sarà condotto
     Celeste Iddio, che uman viso rifiuta,
     Dalla veduta coglierà gran lutto.
Donna, voler di Numi non si muta,
     A lui Parca girò queste tenebre,
     Soffri tu cosa a te figlio dovuta.
Darebbero agli altar vittime crebre
     I genitori d’Atteon, contenti
     Toccar del figlio le vane palpebre;
Poco gli gioverà valli e torrenti
     Con Diana varcati, erta e pianura,
     Aver posti a giacer ferini armenti,
Quando infelice non ponendo cura
     Veduta avrà la Diva, che si bagna,
     De’ propri veltri suoi sarà pastura.
La madre per foresta e per montagna
     Colte avendo le sparse ossa del figlio
     Unica fortunata, o mia compagna,
Te chiamerà, che vivo dal periglio
     Ritratto l’hai, nè più di tanto offeso,
     Che doppia nube gli sovrasta il ciglio.
Non ti lagnar: io de’ suoi mali al peso
     Tal ristoro darò, che il viso spento
     Nel lume del futuro avrà racceso;
E saprà dir qual per le vie del vento
     Penna d’augello vanamente nuoti,
     O tristo adduca o fortunato evento.

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Udiran le contrade de’ Beoti,
     Udrà Cadmo i costui carmi divini,
     E gli udiran di Labdaco i nipoti.
Verga gli donerò che per cammini
     L’orme corregga e la veduta bruna,
     Del viver gli porrò lunge i confini.
Unico fra gli estinti ombra digiuna
     Non sarà di savere, e fia per senno
     Caro a colui, che l’universo aduna 2.
Tacque la Diva, e fe’ col capo cenno.
     Tanto privilegiò quest’una Giove,
     Tutte doti del padre a lei si dienno.
Senza madre dal capo uscì di Giove;
     Ingannevoli cenni, o Lavatrici,
     Il capo mai non accennò di Giove.
Or sì che vien la Dea: con voti amici,
     Con cantici festivi itele intorno,
     Voi che ad Argo bramate ore felici;
Guardia a te sia del bel paese adorno,
     Che sull’Inaco siede, o Dea Minerva,
     Salve se vai, salve se fai ritorno,
E la fortuna Argolica conserva.

Note

  1. [p. 50 modifica]I Romani lavavano ogni anno la statua di Cibele nel fiume Almone, gli Argivi la statua di Pallade nel fiume Inaco. Le donzelle Argive, massimamente della tribù degli Acestoridi, n’erano le lavatrici. Si portava insieme col simulacro della Dea lo scudo di Diomede, al qual rito diede principio il sacerdote Eumede, che dannato a morte dal popolo si rifugiò con esso, e alzò altari a Pallade sul monte Crio, che indi ebbe nome [p. 51 modifica]di Pallatide. Nel giorno di questo lavacro non si poteva toccare l’acqua del fiume, e si doveva attingere dai fonti. Non era permesso guardare il simulacro di Pallade mentre nuda de’ suoi ornamenti si lavava nell’Inaco, ed era religiosa credenza, che il vederla e il perder gli occhi fosse tutt’uno. Questa credenza è rinnovellata dal poeta, il quale narra come Tiresia rimase cieco per aver veduta Pallade bagnarsi nel fiume Ippocrene con Cariclo madre di lui.
  2. [p. 51 modifica]Agesilao significa adunatore di popoli.