Inni di Callimaco (1827)/Chioma di Berenice

Chioma di Berenice

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Chioma di Berenice
Cerere
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CHIOMA

DI BERENICE 1


Io che sono del ciel lucente raggio,
     Di Berenice fui la Chioma bella,
     Di me si accorse quel famoso Saggio,
Che discerne del mondo ogni fiammella,
     E sa l’ora che fugge e che si affaccia
     Alle porte del ciel ciascuna stella,
Sa qual velame al Sol copre la faccia,
     E come Amor soavemente atterra
     Diana in Latmo dall’eterea traccia.
Già vincitor della notturna guerra
     E dei premj d’Amor, le schiere avverse
     Volgeva ai danni dell’Assira terra
Il giovinetto re, quando converse
     Al ciel le braccia, e in supplichevol modo
     Me la mia donna ad ogni Dio proferse.
Han le novizie in odio il giogal nodo,
     O sparsi lai per maritali soglie
     Fanno alla gioja de’ parenti frodo?
Non traggon, per li Dei! veraci doglie:
     Sendo il marito alle battaglie addetto,
     Mi lesse il ver nel suo pianger la moglie.
La lontananza del fratel diletto 2
     Più che la genial deserta sponda
     Porgea gravezza all’amoroso petto.
Tanto la foga del dolor t’innonda
     Tutte le vene, che smarrita in mezzo
     Alla tempesta la ragion si affonda.
Dove è quel cuore agli ardimenti avvezzo?
     Non ti rimembra il chiaro fatto e solo,
     Che delle regie nozze a te fu prezzo?3

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Oh! pietose parole! oh! largo duolo!
     Di che le rosee dita, e gli occhi bagni
     L’ora, ch’egli apre alla partita il volo.
Un Dio ti fura i sensi alteri e magni?
     O decreto è d’Amor che non permette,
     Che un’amorosa coppia si scompagni?
Vittime a tutti i Numi ella impromette, 4
     Fa di me patto per sì dolce vita;
     Ei la vinta all’Egitto Asia sommette. 5
Dunque il voto qui sciolgo al ciel sortita;
     Ma per te, donna, e pel tuo capo io giuro,
     Che non fui volentier da te partita.
Veggia vendetta di ciascun spergiuro,
     Che di te non paventa; e che mai puote
     Dalla forza del ferro esser sicuro?
Il ferro pur quella montagna scuote
     Altera tanto, che la più non scalda
     Ovunque il sommo Sol volve sue rote.
Ato mirò per la divisa falda6
     Correr flutti e navigli: a tal virtude
     Io debil Chioma mi potea star salda?
Pera chi ciò che la pia terra chiude
     Nelle vene secrete andò spiando,
     E fe’ suonar da pria maglio ed incude.
Piagnean di me le mie sorelle, quando
     Di Clori il cavalier le preste piume 7
     Ver la città d’Arsinoe spiegando,
Al casto sen di Citerea mi assume;
     Colà suo messo Zefiriti manda
     Dei lidi di Canopo amico Nume, 8
Credo perchè l’Ariannéa ghirlanda
     Non risplenda qui sola, ed io non manco
     Debite a questo ciel fiammelle spanda.
Io giunta al tempio de’ celesti imbianco
     Di nova luce il mondo; io, del gagliardo
     Leon vicina e del virgineo fianco

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E di Callisto Licaonia guardo
     L’occaso, e sono di Boote duce,
     Che a tuffarsi nel mar sempre è il più tardo.
Me quando tace la diurna luce
     Premon vestigi d’immortal corona,
     E al mar la mattutina ora riduce.
O di Ramnunte vergine perdona,
     Se il vero io son di favellare amica
     Liberamente come in cuor mi suona,
Esser dovessi pur dalla nemica
     Lingua degli astri amaramente punta,
     Non starò per temenza, ch’io non dica:
Tanto non m’allegrò l’essere assunta
     Alla volta del ciel, quanto m’increbbe
     Dal capo di colei starmi disgiunta,
La qual nel tempo, che laggiù s’accrebbe
     Verginella con me, tanti mi diede
     Soavi odor quantunque altra non ebbe.
O voi, che al dì delle giogali tede
     Siete venute innamorate spose
     Con saldo petto alla giurata fede,
Il casto vel delle secrete cose
     Non rimovete pria, che porte m’abbia
     Vostra pudica man mirre odorose;
(Di colei, ch’ebbe le spergiure labbia
     Contaminate d’inconcesso amore,
     I mal proferti don beva la sabbia,
Rifiuto i don di temerato core;)
     Se Concordia con voi sempre soggiorni,
     E con voi vegna eternamente Amore.
Tu donna allor, che negli usati giorni
     Supplicherai a Venere marina,
     Fa con larghezze tue che a te ritorni.
Piaccia agli Dei, ch’io della mia regina
     Al bel capo gentil torni a far velo;
     Erigone ad Arturo arda vicina: 9
Non fa per me di rimanere in cielo.

Note

  1. [p. 60 modifica]Berenice novella sposa di Tolomeo re di Egitto promise agli Dei la propria Chioma, se il marito fosse ritornato salvo dalla guerra d’Asia. Tolomeo non solo ritornò vivo, ma vincitore. In adempimento del voto la Chioma fu appesa al tempio di Venere, ed indi a poco nottetempo involata. Prendeva il re gravissimo dolore di questo sacrilegio, quando Conone astronomo disse per consolarlo, che la Chioma era stata traslocata in cielo, e verso la coda del leone indicò sette stelle in figura triangolare, che prima si appellavano Costellazione della Spica, che egli novellamente nominò Chioma di Berenice. Questa piacevole invenzione dell’Astronomo alessandrino somministrò a Callimaco, poeta contemporaneo, argomento di una prosopopeja, di cui forse si cerca invano altra più bella in tutta quanta la lirica poesia.
  2. [p. 60 modifica]Berenice e Tolomeo erano figli di fratelli; col nome di fratelli si chiamavano pure i cugini presso gli antichi.
  3. [p. 60 modifica]Aga re di Cirene aveva promessa Berenice unica figlia in isposa al figlio di Tolomeo suo fratello re d’Egitto, per terminare in tal guisa controversie ch’erano fra loro. Avvenuta la morte di Aga, Arsinoe, madre di Berenice, volendo disturbar nozze, che suo malgrado erano state contratte, mandò in Macedonia a Demetrio fratello del re Antigono e nipote di Tolomeo offrendogli la mano della figlia e il regno di Cirene. Venne Demetrio, e fidato nella bellezza sua e negli [p. 61 modifica]amori di Arsinoe, si diportava con tanta superbia e violenza, che cadde in odio alla sposa ed a tutta la reale famiglia. Si bramò di avere a re il figlio di Tolomeo. Furono tese insidie a Demetrio, e fu assalito mentre si giacea con Arsinoe, la quale, ascoltando la voce di Berenice che stava sulla porta, e comandava che si perdonasse a sua madre, difendea a suo potere la vita di Demetrio. Egli fu ucciso, Berenice si maritò a Tolomeo adempiendo il giudizio e la volontà di suo padre. Giustino Libro 26. Devesi al Ch. Sig. Ennio Quirino Visconti la lode di avere il primo illustrato questo passo, indicando una storia, che sì chiaramente ci scopre qual fosse il fatto memorabile, che meritò a Berenice le nozze di Tolomeo.
  4. [p. 61 modifica]La lezione di Bentlejo
    Atque ibi me cunctis pro dulci conjuge divis
    è evidentissima.
  5. [p. 61 modifica]Mureto leggeva:
    .......... pollicita est
    Si reditum retulisset is haud in tempore longo, et
    Captam Asiam Ægypti finibus adjcoret.
    Che è quanto dire: vi proferisco, o Numi, la mia Chioma se mio marito tornerà salvo e vincitore dall’Asia, e in picciol tempo. Condizioni sono queste, che racchiudono il voto di una ambiziosa e superba regina anzi che di una tenera sposa. Io ho seguita altra lezione:
    .......... pollicita est
    Si reditum retulisset. Is haud in tempore longo
    Captam Asiam Ægypti finibus addiderat.
    [p. 62 modifica]A chi fa questo racconto ben si conviene il soggiungere anche con qualche esagerazione, che Tolomeo non solo tornò salvo, ma vincitore dell’Asia, e in breve ora.
  6. [p. 62 modifica]Athos monte della Macedonia aperto da Serse, che per tal modo fe’ comunicare l’Egeo coll’Ellesponto.
  7. [p. 62 modifica]Questi versi sono stati diversamente esposti da chiarissimi letterati. Io ho abbracciata la interpretazione, che me ne ha data l’illustre mio maestro ed amico il Sig. Ennio Quirino Visconti. Berenice aveva consacrata la sua Chioma nel tempio di Venere, che era nella città di Arsinoe in Egitto. Sua suocera deificata, cioè Arsinoe Filadelfide, o Venere Zefiritide dal suo tempio, che era nella Cirenaica, mandò Zefiro suo ministro a rapire nottetempo quella Chioma, e traslocarla in cielo. La lezione di Achille Stazio ales eques sembra la vera. Euripide, al verso 220 delle Fenisse, chiama Zefiro cavaliere alato. Tale si vede espresso nei monumenti. Tanto adunque è dire il gemello di Mennone Etiope, e l’alato, o sia veloce cavaliero amante e marito di Clori, quanto il dir Zefiro. Il senso richiede che si legga:
    Ipsa suum Zefiritis eo famulum legarat
    Grata Canopeis in loca littoribus.
  8. [p. 62 modifica]Questa Arsinoe, o Dea Zefiritide era stata regina d’Egitto, perciò chiama luoghi a sè cari le piagge di Canopo.
  9. [p. 62 modifica]Qui la lezione è controversa, ma qualunque si adotti, il senso è tutt’uno.