In morte di mio fratello Giuseppe

Giovanni Prati

Olindo Malagodi 1847 Indice:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. I, 1916 – BEIC 1901289.djvu sonetti In morte di mio fratello Giuseppe Intestazione 23 luglio 2020 25% Da definire

L'amica invisibile Meditazione (Prati)
Questo testo fa parte della raccolta VIII. Da 'Storia e fantasia'
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X

IN MORTE

DI MIO FRATELLO GIUSEPPE



     Ed ecco un altro feretro! Oh, mia casa
cosí fiorente e romorosa un giorno,
tu sarai presto desolata e rasa.
     E, come a mucchio di macerie, intorno
5ti strideranno della notte i venti,
e la cicogna vi porrá soggiorno.
     Ché giá poco laddentro è di viventi,
e quasi tutti dalla vecchia porta
siamo usciti ormai, profughi o spenti.
     10Oh! Beppe mio, sulla tua spoglia morta
lacrima indarno il tuo fratel lontano.
Aimè! vita sí cara e aimè! sí corta.
     Non eri tu, che fanciullin per mano
io traea nelle feste, io, grandicello
15e di quel dolce comandar giá vano?
     Non eri tu nel rampicar piú snello,
piú ardito al salto, piú vivace al chiasso?
Beniamin della casa, eri tu quello.
     Ché non moristi in que’ begli anni, ahi lasso!
20quando un’ora si piange e poi si scorda,
anzi si gioca sul funereo sasso?

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     Ma per me l’arco del dolor sua corda
mai non allenta, e non so dir se resti
giá in me parte inoffesa ove oltre ei morda.
     25Eri tu, fratei mio, tu che mi festi
lieto alle cacce, in quell’etá che il core
giá comincia a parlar coi pensier mesti:
     eri tu, che assistevi ultimo all’ore
d’ogni mio dipartir da quelle nostre
30case infelici, ove si piange e muore.
     E, quand’io ritornava in quelle chiostre
care e dolenti, ove letizie e pene
tante al mio core e agli occhi mie’ fûr móstre,
     eri tu primo ad affrettarmi il bene
35dei noti baci, e ci correan sul volto
lacrime ardenti e di dolcezza piene.
     Giovin eri e leggiadro, ilare e colto;
e che ti valse? Or sei sotterra. E vanno
tutti. E ogni cor, che amai, giace or sepolto.
     40Lunge è la figlia mia, l’ultimo inganno
al duol dei cari che Morte mi spense:
per me nacquero insiem l’alba e l’affanno.
     Fratel!... penso a quel dí, che dalle accense
del sol saette ci coprian sul Garda
45l’ombre de’ cedri profumate e dense.
     E tu, coll’occhio che piú dentro guarda,
sclamavi: — Io non so dir quel che m’offenda
l’anima sí; ma il tuo partir mi tarda.
     Fratel, tristo è il commiato in questa orrenda
30stagion di guerre, ove a piú d’un si toglie
di corcarsi ne’ vespri alla sua tenda.
     Addio, fratello: un bacio ancor. Le spoglie,
che in don m’hai date, io vestirò, se il fiero
groppo d’affanno, che ho sul cor, si scioglie.
     55Le vestirò, tacitamente altèro
del donator. Ma alle natie pendici,
deh! riedi. Al mondo ora miglior non spero.

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     Come giá un tempo, salirem gli aprici
nostri colli alle cacce, e fanciulletti
60ci parrá di tornar vispi e felici.
     Che ti dá il mondo, fratel mio? diletti
pochi e noia immortale. In mezzo a noi
tristi hai ricordi, ma securi affetti.
     Pensa che dormon qui l'ossa de’ tuoi,
65che qui regni aspettato e che ogni tetro
affanno tuo qui consolar sol puoi.
     Addio, fratel. Che a me tu pensi impètro;
a me, che sai come t’onoro e t’amo.
Vanne veloce, e non voltarti indietro. —
     70Cosí dicevi; e all’ultimo richiamo
due volte l’orme s’arrestâr, due volte
chiusi all’amplesso del dolor ci siamo.
     Indi la fuga d’ambidue le folte
ombre han coperto. Ahi, fratel mio! Disgiunto
75perché ti sei dalle mie braccia? o stolte
     perché le braccia mie ti hanno in quel punto
abbandonato? Ove sei tu? Non tôrmi
di speme; ah! parla; tu non sei defunto.
     Parla: che indugi? È dunque ver. Tu dormi
80il tuo sonno final. Ché non m’è dato
nel gel dell’urna a te d’accanto pormi!
     Esecrata la iniqua alba, esecrato
lo iniquo sol che t’avvampò nell'ossa,
e il giorno e l’ora, che il desio t’è nato
     85di lanciarti alla preda, onde la possa
del cor si ruppe e rimanesti ucciso,
ed or ti pesta il cavriol la fossa!
     E ancor sembrami un sogno. Ove il tuo viso
bruno e selvaggio? ove la forte chioma?
90e l’occhio ingenuo? e, come l’occhio, il riso?
     e quel ferreo vigor che nessun doma?
e quella voce?... Ahi! gemo indarno. Eppure
di me chi meglio al mio dolor ti noma?

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     Morte, empia Morte, che le patrie mure
95spezzasti e a terra la gran quercia hai messo,
tu i rami or tronchi coll’orrenda scure.
     E, aimè! li tronchi l’un dell’altro appresso,
e moltiplichi il duol. Perché, men cruda,
non reciderli tutti a un colpo istesso?
     100Ahi! cameretta di quel caro ignuda,
tu piú non suoni alle canzon sue liete.
Dormi in silenzio; e una pia man ti chiuda.
     Ahi! canne inerti alla fatal parete,
cenere è l’occhio che vi pose in mira.
105E voi, selve natie, piú nol vedrete.
     Ahi! Melampo, ove corri? ove t’aggira
la pietosa demenza? In loco ei siede,
donde né il tuo né il mio pianger lo tira.
     Addio! t’intendo. Alla funerea sede
110tu il cerchi. E lá t’accosci. E su quell’erba
sigillerai, morendo, la tua fede.
     Oh, nostra carne misera, a cui serba
dolor sí forti un umil bruto, ed ella
de’ suoi lievi dolor tanto è superba!
     115Addio, Melampo; addio, fratel. Tu in quella
patria, ove tutto è una menzogna il mondo,
tu avrai giá visto, invidiata e bella
     visione, i miei padri, e sul giocondo
grembo d’Elisa gli angeletti miei,
120la casa tua che qua ruina al fondo.
     Tutti per me li bacia, e di’ che sei
da me partito senza ch’io ’l sapessi,
ché accompagnato al ciel forse t’avrei.
     Di’ lor che è meglio favellar con essi
125che colle genti in questo vario nido,
ove tanto, ogni dí, sceman gli amplessi.
     E che dal fondo mio carcere io grido
verso la tomba; e che i sofferti lutti
mi fien lievi quel dí, che al mondo infido
     130chiuderò gli occhi, per vedervi tutti!