In morte di Mario Rapisardi
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Una patria, a cui sia limite il polo,
una famiglia, a cui sia fede il veto.
M. Rapisardi, Atlantide.
Da vari giorni infermo
giaceva il sommo pensator poeta;
e, rassegnato come un greco stoico,
aspettava seren l'ultima mèta.
E intorno a lui gli amici,
nella trepidazion, nell'amarezza,
prevedevan vicina la catastrofe,
senza speranza alcuna di salvezza.
Ed oggi si diffonde,
messaggera di lutto e di sconforto,
triste notizia, in termini laconici,
ahimè, che Mario Rapisardi è morto!
A sì ferale annunzio,
piange l'Italia che lavora e spera
e il genio, che non ha confini e codici,
piange, anch'egli, al di là della frontiera.
Par che la nostra vita
sia come tôcca da malore ignoto
e si stacchi qualcosa dal nostr'essere,
lasciando noi nello squallor, nel vuoto.
Chi fu? Fu lottatore,
rigido nella vita e nei costumi,
diritto di pensiero e di carattere,
odiato a morte da gonfiati numi.
Fu educator che seppe
sull'esempio basar l'insegnamento,
suscitando nel cuor de' suoi discepoli
la forza e la virtù del sentimento.
Come principio pose
'amor fraterno che insegnò egli stesso;
e, per base, ritenne urgente l'ordine,
e come fine designò il progresso.
Ei di sospetti onori
schivo e flagellator della menzogna,
nella sua vita non trovate un attimo
d'incoerenza e viltà, nè di vergogna.
Il dilagar del vizio
e il traffico sferzò della coscienza;
per questo l'addentava il Giove olimpico,
sotto il manto dell'arte e della scienza.
Sempre sdegnoso e fiero,
della giustizia difensore invitto,
contro l'abuso di civili barbari,
d'oppressi e vinti perorò il diritto.
Egli ebbe anima greca,
cuore di Tito, mente gigantesca;
concezione profonda di filosofo,
genio latino, ispirazion dantesca.
Ei l'avvenire umano
divinar seppe con robusti versi.
Basta legger Lucifero e l'Atlantide
per convincersi meglio e persuadersi.
L'opera di scrittore,
arte fu di sublime poesia;
e benchè non toccò Clitunno e Satana,
chi può negar che novator non sia?
Chi può negare in lui
il genio della scienza e della rima?
Che importa se Carducci, pien di fegato,
volgarmente l'assale e non lo stima?
Basta che lo comprenda
chi sdegna genuflettersi e servire
e non cerca medaglia o laticlavio,
lottando - come lui - per l'avvenire.
Basta che le dottrine
professate da lui diventin pane,
che alimenti la fede e nutra l'anima,
nel turbinio delle vicende umane.
In si calda speranza,
copriam la tomba sua di semprevivi,
mentre, nell'ora luttuosa e tragica,
passano i buoni e restano i cattivi.
Joeuf, gennaio 1912