Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimoterzo

Capitolo ventesimoterzo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimoterzo
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CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Tranne il colpevole, nessuno può essere a lungo e all’in tutto miserabile.

Fu d’uopo di diverse cure affine di rendere più che fosse possibile comoda la nostra nuova abitazione; e indi a non molti dì l’antica serenità ricomparve. Male atto io ad assistere ne’ giornalieri lavori al mio figliuolo, mi tratteneva in casa leggendo alla mia famiglia que’ pochi libri scampati all’incendio, e più volentieri quelli che ricreando l’immaginazione contribuiscono a restituire all’anima tranquillità. Ogni giorno venivano i buoni vicini a consolarci soavemente; e tra di loro stabilirono anche un tempo in cui, riuniti tutti, restaurare la mia prima casa. Egli pure, l’onesto castaldo Williams, non fu degli ultimi a visitarci; e ci profferse di buon cuore la sua amicizia, ed avrebbe di voglia rinnovate le antiche sollecitazioni amorose verso della mia figliuola; ma ella le ricusò in modo da troncarle per sempre. Il cordoglio di quella misera parea dovere essere eterno; ella essendo la sola di tutti noi, sul di cui volto dopo una settimana non ritornasse la primiera festività. Perduta aveva, la giovinetta, quella sicura innocenza che di niuna cosa arrossisce, e per la quale una volta stimava ella sè stessa, e traeva diletto dall’essere dagli altri vagheggiata.

Oppressa la mente di lei da una strettissima ansietà, negletta la persona, coll’infievolirsi della complessione anche la bellezza svaniva. Ogni titolo affettuoso che altri dava alla sorella, strappava a lei dal seno un sospiro, una lagrima dal ciglio. E siccome un vizio, s’anco il reprimi, ne fa germogliare altri ov’egli allignava; così il suo [p. 148 modifica]primo delitto, sebbene dal pentimento lavato, aveva in lei lasciata l’invidia e la gelosia. Però, mille vie io tentai onde alleviarle gli affanni, pe’ suoi dimenticando i miei propri, ed affastellando istoriette aggradevoli ed ameni racconti, quanti me ne prestava la lettura ed una vasta memoria. “Mia cara figliuola,” io le diceva, “la nostra felicità sta nelle mani di Tale che per cento eventi stranissimi può a noi ridonarla, e d’ogni nostra previdenza si ride. E s’egli è mestieri d’esempio a persuadertene, odi la novella raccontata da un grave istorico, quantunque alcuna volta favoloso egli sia:

Matilda, come che tenera giovinetta, fu sposata ad un nobile napolitano di signorile casato, e rimase vedova e madre quando appena aveva compiuti quindici anni. Stando ella un giorno accarezzando il suo bambino ad una finestra del palazzo che guardava sul fiume Vulturno, improvvisamente il fanciullino si spiccò dalle braccia di lei; e venuto a cadere nelle sottoposte acque, disparve. Colpita la madre da súbito terrore, e desiderosa di salvarlo, saltò dietro a lui disperata nel fiume. Ma toltole il potere soccorrere in alcuna guisa il povero figliuolo, ella stessa a mala pena si trasse dalla corrente, arrampicandosi sull’opposta riva. E capitata in mezzo ad alcuni soldati francesi che allora allora mettevano a sacco quelle terre, ne fu menata prigione.

Guerreggiando tra di loro i popoli di Francia e d’Italia con somma crudeltà, stavano in procinto i Francesi di commettere sull’infelice que’ due eccessi che la barbarie suggerisce e la libidine. Ma per buona ventura, ad una sì infame deliberazione si oppose un giovane capitano che ad onta della fretta con cui gli era forza fuggire, presela in groppa, e lei salva e confortata condusse seco quel pio alla patria. Le bellezze della donna, a prima giunta, avevano allettati gli sguardi, e dalle qualità dell’animo di lei fu presto allacciato anche il cuore del capitano. Il perchè fecero tra di loro con sommo diletto le [p. 149 modifica]nozze; e salito egli a più alti gradi nella milizia, vissero insieme lunga pezza e felici. Ma la fortuna di un soldato non può mai dirsi stabile: e dopo alcuni anni, quella parte d’esercito da lui capitanata, messa in rotta dall’inimico, e’ fu costretto ricoverarsi nella città dentro le cui case egli era vissuto colla consorte. Strette d’assedio le mura, finalmente furono vinte; e poche istorie narrano esempi di tanta e sì frequente atrocità, quanta usarono allora nel combattersi i Francesi e gl’Italiani. I vincitori determinarono di porre a fil di spada tutti i prigioni francesi, e più d’ogni altro il marito della infelice Matilda, come quegli per l’opera di cui s’erano gli assediati lungamente difesi. Venuti in questa sentenza, vollero mandarla tosto ad effetto; e tratto fuori l’illustre prigioniero, già il carnefice teneva in alto sguainata la spada, e gli spettatori in profondo silenzio tristissimo aspettavano che il fatal colpo cadesse, pel quale non mancava che il cenno del supremo capitano. In cotale istante, piena di angustia e di batticuore, apparve Matilda per dare l’ultimo addio allo sposo, al liberatore di lei. Piangeva la dolorosa la miseria di sua condizione, lamentandosi della crudeltà del destino che salvatala da immatura morte tra l’onde del Vulturno, l’aveva serbata a più tristi guai. Era giovane d’anni il supremo capitano; però stupì delle belle forme della donna, ed ebbe pietà del caso acerbo di lei. Ma la maraviglia e la compassione non ebbero limite in udirla raccontare le sue antiche miserabilissime vicende. Era egli quel medesimo figliuolo pel quale tanti pericoli aveva sostenuti Matilda; riconobbela per madre, e buttossi ginocchioni a’ suoi piedi. Quel che avvenne dappoi si lascia agevolmente indovinare: fu data la libertà al prigione; e godendo insieme della dolcezza che l’amore, l’amicizia, il rispetto generano, vissero tutti felici.”

Di tal maniera poneva io studio nel rallegrare la mia figliuola; ma ella prestava scarsa attenzione alle mie parole. Nè quelle valevano a trarre interamente a sè l’animo [p. 150 modifica]di lei; perchè le tante sciagure dell’infelice, istupidita avevano quella pietà ch’ella sentiva altre volte per li disastri altrui; e niuna cosa era che desse pace alle sue pene. In compagnia di noi ella paventava d’essere disprezzata; sola, non trovava che angoscia. In uno stato così deplorabile, la tapina traeva languidamente i giorni suoi; quando ci vennero raccontate come certe le vicine nozze del signor Thornhill con madamigella Wilmot, della quale io aveva sempre sospettato lui innamorato, ad onta dell’ostentazione con cui in ogni incontro tentava egli di darsi a vedere in faccia mia sprezzatore della persona e della dote di madamigella. Queste novelle accrebbero oltre misura l’afflizione della povera Olivia; e uņa sì nera infedeltà oltrapassò il coraggio di lei, sicch’ella non sapea sopportarla. Ebbi animo tuttavia di cercarne notizie più rischiarate, e d’impedire, s’esser poteva, l’eseguimento dei disegni di Thornhill, mandando il mio figliuolo al vecchio signor Wilmot, onde udirne la verità, e dare a madamigella una lettera, la quale le dicesse di che modo s’era comportato con noi lo scudiero. Andato Mosè, dopo tre giorni ritornò colla certezza che le voci non erano vane, ma dolente di non aver potuto consegnare la lettera ch’egli aveva dovuto lasciare in casa Wilmot, da dove madamigella era con Thornbill partita, per visitar la provincia. Gli sponsali, com’ei diceva, si sarebbono celebrati fra pochi dì; essendo la domenica, prima ch’egli vi giungesse, intervenuti ambo insieme gli sposi alla chiesa con gran pompa, accompagnata l’una da sei nobili giovinette, e da altrettanti gentiluomini l’altro. Tutta la contrada in festa per quel maritaggio: gli sposi uscivano per lo più in un cocchio magnificentissimo, del quale non si avea mai veduto già da tanti anni in quei paesi l’uguale; e tutti gli amici delle due famiglie convenivansi, gli altri il buon zio dello scudiero, il signor Guglielmo. Aggiunse Mosè, ogni cosa essere allegria e scialacquo; lodarsi da tutti l’avvenenza della sposa e la bella persona [p. 151 modifica]dello sposo, amarsi eglino a vicenda svisceratamente; e finì il racconto esclamando che Thornhill gli pareva l’uomo più avventuroso che al mondo fosse.

“E sialo,” diss’io, “s’ei lo può. Ma tu, figliuol mio, tu vedi codesto lettuccio di paglia, codesto tetto scassinato e scommesso, questa rovina di muri, quest’umidiccio mattonato, il mio misero corpo tartassato dalla fiamma, e i bamboli miei piangenti attorniandomi domandar del pane; e nondimeno, in mezzo a tanta miseria, tu vedi un uomo che per mille mondi non vorrebbe scambiare seco lui condizione. Fanciulli miei, se imparaste ad accomunarvi più strettamente coi vostri cuori, e vi fosse noto qual buona compagnia e’ vi possono fare, poco o niun conto terreste dello splendore e della magnificenza de’ ribaldi. Tutti gli uomini chiamano viaggio l’umana vita e pellegrini sè stessi: ma la similitudine spargerà luce più viva, se si porrà mente che i buoni sono lieti e sereni come i viandanti che ritornano alle case loro; quando per lo contrario gli scellerati nol sono che per brevi istanti e di rado assai, a guisa di proscritti che se ne vadano perduti in esilio.”

La compassione per la povera mia figliuola che all’udire questo nuovo infortunio era caduta in deliquio, troncò le parole mie; e tosto accennai alla madre che la reggesse. Però in breve quella infelice cominciò a ricuperare gli smarriti spiriti suoi, parve più calmata di prima, ed io mi dava a pensare che ella avesse acquistata finalmente maggiore fermezza; ma fui dalle apparenze ingannato, conciossiachè quella sua tranquillità non era che il languore prodotto da eccessiva ambascia. Fatteci dai caritatevoli parrocchiani alcune provvedigioni, per quel sovvenimento la famiglia salì in allegrezza; nè a me dispiacque vederla ritornare alla primiera gioia e darsi buon tempo. Sconvenevole cosa sarebbe stata l’ammorzare la nascente contentezza di que’ poveretti, costringerli a rammaricarsi dell’altrui ostinata malinconia, [p. 152 modifica]volere aggravarli d’una tristezza ch’eglino non sentivano. Di bel nuovo quindi ebbe luogo il favoleggiare, fu chiesta la canzoncina, e la festività si compiacque di visitare la nostra umile capanna.