Il vespro siciliano
Questo testo è completo. |
Il giogo che la Sicilia spezzò nel 1282 era stato imbastito alla corte di Roma; cosí io la chiamerò anziché «Chiesa», la quale significa precisamente la universalità dei fedeli; e non dirò sempre il «papa» poiché l’uomo che tiene quel seggio ubbidisce piú spesso che non comandi. La corte di Roma, dunque, si era attribuito, nella confusione giuridica del Medio Evo, l’alto dominio delle regioni meridionali della Penisola, ivi compresa la Sicilia, che dette nome al regno. Poiché per eredità questo era pervenuto all’imperatore Federigo II, capo di parte ghibellina, i papi, che fondavano il loro potere sulla parte guelfa, si trovarono di fronte quel grande ingegno, superiore al proprio secolo, e gli mossero guerra spietata. Innocenzo IV, uomo da non cedere nella lotta, convocato un concilio a Lione (1245) vi pronunziò un discorso con il quale concluse chiedendo la deposizione di Federigo dall’impero e dal regno di Sicilia. Tuttavia non era facile eseguire simile proposito.
Cinque anni dopo la morte di Federigo, Innocenzo riportò l’assedio al reame con quelle armi materiali che poté mobilitare e con la dolce parola di «libertà» e con essa, come egli diceva, spinse i popoli a creare la repubblica sotto la protezione della Chiesa; ma causò una spaventevole anarchia interrotta dal breve regno di Corrado I, ricominciata in modo peggiore dopo la sua morte e quella di Innocenzo. La calma tornò quando Manfredi fu incoronato a Palermo. Durante quei turbamenti Napoli si era retta a comune, secondo i non chiari desideri di Innocenzo: e la stessa forma di governo fu adottata in Sicilia per circa due anni (1255-56), sotto Alessandro IV.
Dobbiamo notare, in modo particolare, che la stessa forma di governo, dopo un quarto di secolo, serví d’esempio nei primi moti del Vespro. Alessandro spedí da Napoli in Sicilia frati e missive e quei popoli gli dettero ascolto, per quanto abituati, e si hanno prove negli scritti del secolo XIII, a distinguere l’autorità spirituale dalla temporale, a riverire quella e a diffidare della corte di Roma, considerandola come un principato ostile, ingannevole, ambizioso e corrotto.
Una simile opinione dei siciliani era cosí nota che i Francesi poi li chiamarono per ingiuria Paterini, nome di una delle sette religiose che, fin dai tempi di Arnaldo da Brescia e molto prima, aspirarono alla riforma del clero in Italia. Le maggiori città della Sicilia si lasciarono sedurre questa volta dalla corte di Roma, perché avevano sofferto il governo duro e fiscale di Federigo, perché allettate dall’esempio delle città lombarde e toscane, perché, d’altra parte, sapevano che il successore di Corrado I era un bambino di due anni e vedevano che molti ambiziosi si disputavano la reggenza. «Viva dunque il comune e fuori il viceré» si gridò a Palermo; poi a Patti, Vizzini, Aidone, Piazza, Mistretta, Prizzi, Cefalú, Caltagirone, Nicosia, Castrogiovanni e se il movimento di questa ultima città fu represso dalle armi del viceré, Aidone le respinse; Messina dove egli si ritirò lo scacciò e capitano del popolo fu eletto Leonardo Aldighieri. Quindi, volendo un podestà d’altra nazione, come era uso in Italia, chiama il romano Jacopo da Ponte. Libertà, intanto, non significava rispetto dell’altrui libertà infatti le città piú grosse pretendevano signoreggiare sulle piú piccole.
I messinesi occupano e demoliscono Taormina perché rifiuta il loro dominio, Palermo si impadronisce di Cefalú e invia ambascerie al papa, proponendo non si sa bene quale assetto di confederazione. Giunse allora vicario pontificio nell’Isola Ruffino da Piacenza dei frati minori. Entrando nelle città trovò le strade sparse di rami di ulivo e di palme, dappertutto fu salutato dal popolo tripudiante; ritornarono gli esuli e qualcuno ebbe feudi dal papa. Ma di breve durata furono questi festeggiamenti. Prevalendo ormai Manfredi in terra ferma, i suoi uomini passarono dalla Calabria in Sicilia dove molti nobili gli dettero man forte. Resistevano invano Piazza, Aidone, Castrogiovanni: Palermo e Messina si sottomisero e tutta l’impalcatura, costruita sulla sabbia, cascò d’improvviso sí che lo scrittore contemporaneo Bartolomeo da Neocastro la chiamava una bolla di sapone.
D’altra parte la corte di Roma non vi aveva mai fatto assegnamento. Innocenzo cercò di vendere i siciliani a nuovi signori oltremontani e Alessandro continuò il doppio giuoco, provato da mille documenti, nello stesso tempo in cui metteva su la repubblica siciliana. La corte di Roma negoziò con Arrigo, re d’Inghilterra, offrendo il trono di Sicilia prima ad un suo fratello e poi ad un figliuolo e se non si pervenne ad una conclusione egli fu perché Arrigo non aveva sufficienti mezzi per condurre un esercito in Italia. Interpellato Carlo, conte d’Angiò e di Provenza, questi titubò non volendo aggredire Manfredi, ma le corti di Roma e di Francia seppero far dileguare ogni scrupolo facendogli vantaggiose promesse. E pertanto Clemente IV, di nazionalità francese, il 25 febbraio del 1265, promulgava una bolla, per la quale «il reame di Sicilia e la terra che si stende tra lo stretto di Messina e i confini degli Stati della Chiesa, eccettuata Benevento» furono concessi in feudo a Carlo e ai suoi discendenti, i quali si obbligavano al pagamento di un censo di ottomila once d’oro all’anno, e, in caso di bisogno, a fornire uomini disposti a combattere per la corte di Roma.
Altre clausole erano intese ad allargare la potestà ecclesiastica a danno di quella civile e a impedirle di allargare il suo regno. Per le popolazioni rurali si chiedeva da parte del re il rispetto delle franchigie godute fin dai tempi di Guglielmo il Buono.
Ecco in che modo furono designati i territori che costituivano il feudo. Ad essi mancava un nome geografico comune e la distinzione fatta dalla bolla fra il reame e le altre terre rivela la diversità del titolo che la corte romana vantava sull’uno e sulle altre. Nell’XI secolo Roberto Guiscardo, con la sua astuzia e con le sue armi, tolse la Puglia ed altri Stati a principi cristiani; e accettò dal papa una qualsivoglia investitura.
Il conte Ruggiero, invece, conquistò la Sicilia togliendola ai Saraceni ed il suo figliuolo Ruggiero, impadronitosi della vicina terraferma, prese il titolo di re di Sicilia, duca della Puglia, principe di Capua e talvolta, nei suoi atti, aggiunse anche i titoli di Calabria, di Napoli e Salerno: con cosiffatti titoli i papi riconobbero lui ed i suoi successori; ma nessuno di questi pagò mai censo per la Sicilia.
Né era nuovo nell’ordine feudale il caso che un re indipendente prestasse omaggio ad un altro per territori non appartenenti alla propria corona; né la corte di Roma aveva ancora preteso nell’XI secolo di far vassalli dei re. Nell’atto, dunque, del 1265 la cancelleria pontificia non poté nascondere i documenti del diritto pubblico primitivo. La finzione legale dell’investitura del ducato di Puglia non poteva valere affatto per il reame di Sicilia, per il quale era piú evidente la usurpazione.
Al momento di entrare in guerra, il conte di Provenza chiese denari in prestito al re di Francia, ai propri vassalli, ai mercanti toscani e romani, a un principe castigliano, al cuoco della moglie e a chiunque fosse stato disposto a dargliene poco o molto. Come garanzia offriva pegni, ipoteche e le decime ecclesiastiche concessegli dal papa. Il quale scomunicò di nuovo Manfredi e bandí la crociata contro il regno col pretesto che doveva cominciare di lí chi volesse liberare la Terra Santa.
Sappiamo come si giuoca sugli equivoci. Si volle far credere alle anime timorate al di là dei monti, che vi fosse da combattere in carne e ossa un’avanguardia dei Musulmani occupatori del Santo Sepolcro. Ed ecco i turbanti! Erano i saraceni di Sicilia, fiera gente deportata in Lucera un quarto di secolo prima dall’imperatore Federigo, la quale militò per lui e per Manfredi, valorosa e fedele, perché non aveva da temere scomuniche.
L’equivoco dei turbanti riuscí anche nel secolo XIII; uno scrittore straniero l’ha ripetuto seriamente trent’anni or sono; e non sarei meravigliato se rifiorisse nelle mani di qualche futuro compilatore di storia.
Nelle cronache guelfe si legge che la mattina della battaglia di Benevento, Carlo d’Angiò rimandò gli ambasciatori di Manfredi con queste parole: «Dite al sultano di Lucera che oggi io lo manderò all’inferno o egli mi manderà in paradiso». Se non è vera, questa risposta esprime il pensiero generale e prova che il fanatismo religioso si mescola volentieri con i piú vili interessi mondani.
Non chiameremo ipocriti dal primo all’ultimo quei trentamila fra francesi, fiamminghi e provenzali che combatterono a fianco di Carlo d’Angiò, quei guelfi italiani che seguirono le sue bandiere, quelle centinaia di migliaia di uomini e di donne che, di qua e di là delle Alpi, aiutarono e applaudirono l’impresa. E che altro era questa impresa se non ladroneggio in grande, aggravato da migliaia di omicidi? Qual confessore cristiano avrebbe potuto assolvere chi vi mise le mani?
Carlo sconfisse e ammazzò Manfredi, s’insignorí del reame senza grave contrasto senonché, entro un anno, i ghibellini ripresero animo dalle Alpi sino al Lilibeo e possiamo dire fino a Tunisi, donde mossero, per iniziativa dei ghibellini, circa ottocento fra spagnoli, tedeschi, africani, toscani e siciliani.
Essi, sbarcati a Sciacca (1267) sollevarono tutta l’Isola mentre Corradino veniva dalla Baviera con un forte numero di cavalli tedeschi e perfino la città di Roma si schierava con lui. Il valore francese trionfò nuovamente (1268) nella battaglia detta di Tagliacozzo: la Sicilia fu domata dopo fierissime vicende. Seguirono supplizi, confische, caccia ai ribelli mentre spie e traditori invasero i domini di re Carlo dai due lati dello stretto. La vittoria francese fu deturpata da atti di efferata crudeltà, di quelli che i popoli non dimenticano mai.
Farò cenno soltanto di tre; primo: sul campo d battaglia furono presi dei cittadini romani; il re in persona comanda di tagliar loro i piedi, ma si ravvede; pensa che tornando a casa i mutilati lo infameranno, lui senatore di Roma; li fa chiudere tutti insieme in un recinto di mura e li fa bruciare vivi. Secondo: Guglielmo l’Estendart, suo capitano, entra a tradimento in Agosta, dove si difendevano valorosamente mille siciliani e duecento toscani; fa ammazzar tutti alla rinfusa, combattenti e non combattenti d’ogni età e d’ogni sesso. Terzo: Corradino, poi, giovanetto di sedici anni, fuggito dopo la sconfitta, tradito, preso, è condotto al supplizio in piazza del mercato di Napoli.
Era la prima volta che l’Europa cristiana vedeva cascare sul palco la testa di un re: e avvenne per comando di un altro re e con la connivenza di un vicario di Cristo!
L’unità, ricomparsa nella nostra storia con la Lega Lombarda, svanita dopo due secoli per la formazione di piccoli Stati, risalta piú che mai dopo la descritta vittoria di Carlo d’Angiò. Questi riebbe il governo di Roma per opera del papa, fu eletto da lui vicario imperiale in Toscana; fu chiamato in varie città e perfino in Piemonte a causa delle lotte intestine. Il Piemonte venne a trovarsi in pericolo dato che confinava con la Provenza, donde i vicari di Carlo ordinavano trame contro Genova; mandavano gente a danneggiare le terre subalpine che rifiutavano di sottomettersi.
Qua e là per tutta l’Italia già sventolavano le bandiere coi gigli, s’udivano capitani e armigeri parlar francese e si vedevano far da padroni. La coscienza della nazionalità italiana che si era schierata contro i tedeschi, si volse ora contro i francesi, i quali la offendevano molto di piú e allegramente. Il sentimento nazionale di quel tempo lo vediamo scaturire dai fatti della storia, lo leggiamo nelle cronache contemporanee e siano pure quelle del frate Salimbene e di Saba Malaspina, segretario del papa. Che piú?
Il vero sentimento latino, opposto ai nuovi dominatori, si manifestò solennemente in una adunanza tenuta a Cremona nel 1269, nella quale convennero deputati allora chiamati sindaci delle principali città del Piemonte, della Lombardia e dell’Emilia, per deliberare che tutti riconoscessero signore Carlo d’Angiò.
Allora Torino, Milano, Bologna ed altre città guelfe dichiararono di gradire il re come amico, non come signore; ma l’accordo non fu raggiunto. Né furono soltanto alcuni guelfi quelli che aprirono gli occhi. Si mise in guardia la stessa corte di Roma, quasi ascoltando le ammonizioni attribuite erroneamente all’abate Gioachino: «se la Chiesa si appoggia ai francesi prende per bastone una canna che le bucherà la mano».
Gregorio X cercò di frenare la potenza di Carlo, Niccolò III cercò di abbatterla, i cardinali si divisero in sostenitori della razza latina e gallica. Intanto negli Stati ecclesiastici confinanti con il regno, le popolazioni non si rassegnavano al predominio francese; i cittadini di Ascoli-Piceno aiutavano i fuorusciti a fare scorrerie in Abruzzo, ad occuparvi castelli. E gli stessi romani non andavano d’accordo con loro.
Si narra che Guglielmo l’Estendart, vicario di Carlo nell’ufficio di senatore, abbia parlato chiaro a un gentiluomo romano che gli rinfacciava quel suo continuo aizzare i cittadini l’un contro l’altro, donde non poteva nascere che la rovina della città e quindi dispiacere al re. «E sei sicuro che se ne rammaricherebbe? gli replicò Guglielmo. Orbene, ti dico che egli non brama altro che vedere annientato questo popolo maligno e Roma ridotta una bicocca».
Si era venuti assai prima a una aperta guerra nell’Italia settentrionale, dove Genova e Asti presero le armi, fecero lega con Pavia e con Guglielmo VII, marchese di Monferrato, prima alleato di Carlo, ma ravvedutosi a tempo. Genova anche quando ebbe fatta pace con Carlo non gli divenne amica mai; gli astigiani non deposero mai le armi, né il marchese di Monferrato il quale attirò anzi nella lotta due principi spagnoli che non avevano visto di buon occhio Carlo d’Angiò diventare signore della Provenza.
Si tratta di Alfonso re di Castiglia e Pietro d’Aragona i quali si accostavano, per motivi diversi, ai ghibellini d’Italia: l’uno perché sperava sempre la elezione a imperatore d’Occidente, l’altro perché pretendeva al trono di Sicilia. Pietro aveva sposato (1262) Costanza, figliola di Manfredi, aveva ambita la dignità di senatore di Roma prima che il papa la desse a Carlo d’Angiò e, salito al trono dei suoi padri dopo la morte di Manfredi e di Corradino, aspirava a successore di Casa sveva. Lo stesso Carlo gli spianò la via.
Come se fosse dominatore assoluto in Italia, Carlo volle signoreggiare il bacino orientale del Mediterraneo, carpì in Palestina i miseri avanzi del reame di Gerusalemme, in Grecia il principato di Acaia e di Morea, tentò l’Albania, pensò in ultimo di togliere l’impero bizantino a Michele Paleologo col solito pretesto della religione e il solito favore d’un papa francese, che era stato creato da lui stesso usando violenza in Viterbo al Conclave, nel timore che vincesse uno di parte latina.
Il Paleologo pensò allora ai casi suoi, si accordò con Pier d’Aragona per mezzo, come sembra, dei genovesi che trafficavano nel suo Stato, i quali videro i loro commerci di levante minacciati dal vecchio nemico provenzale e da Venezia che s’era collegata con lui.
Sappia, intanto, il lettore che Pietro d’Aragona armava e trattava col Paleologo, che questi gli forniva denari e ancora ne prometteva, che Sancio di Castiglia e Pietro e gli italiani delle provincie meridionali, rifugiati alla corte di Aragona, tramavano con quanti nemici vecchi e nuovi avesse Carlo d’Angiò dalle Alpi fino al Tevere: il Marchese di Monferrato, Corrado d’Antiochia, il conte Guido Novello, Guido da Montefeltro ed altri capi ghibellini; che infine queste pratiche si estendevano fino in Sicilia.
Era intenzione generale muovere grossa guerra all’angioino dove e come si potesse, ma sembra che il progetto non fosse maturo, i luoghi non determinati e le forze maggiori non pronte, quando il popolo di Palermo, indegnamente provocato, gridò: «Muoiano i francesi».
Per sedici anni i siciliani, al par degli abitanti del regno, erano stati senza tregua spogliati e vilipesi. Non s’era parlato mai piú delle franchigie dei tempi normanni, stipulate nella concessione di Clemente IV, delle quali ognun conosceva la piú importante, e cioè che la colletta, ossia contribuzione diretta e generale, fosse consentita in Parlamento dai baroni, prelati o deputati delle città.
Re Carlo non convocò mai parlamenti, elevò sempre la colletta come volle, e spesso non una ma due volte all’anno; mantenne, accrebbe, aggravò ancora con la molestia e durezza della riscossione, i contributi indiretti dei tempi di Federigo II: gabelle d’entrata e d’uscita su varie merci, privative di traffici e d’industrie, dazi di produzione; costrinse i ricchi a prestar denaro al fisco, a prendere in appalto le entrate regie e in fitto i poderi demaniali, a cambiar l’antica moneta d’argento con la moneta nuova di bassa lega che egli faceva coniare in Brindisi e a Messina; ad accettare al valore edittale i suoi caroleni d’oro, con la minaccia di farne sentire le impronte arroventate sulla fronte.
Gli agricoltori delle campagne vicine a demani regi ebbero in comune per forza le greggi, perfino i polli e le api del re; chi non possedeva altro doveva prestargli il lavoro delle braccia: e tutto ciò sotto pena di confische, multe, battiture, prigionia. E trascurato il diritto di proprietà, il re soleva far scorrerie nelle proprietà altrui, bandita di caccia ovvero di pascolo per gli armenti, ch’ei mandava nei campi, senza badare se fossero incolti o seminati.
Le angherie e i soprusi del demanio regio si rinnovavano poi in ciascuno dei feudi concessi dal re agli avventurieri che lo seguirono in Italia. Provvide a costoro con i possedimenti confiscati ai ribelli; ricercò e trovò ribelli per confiscare le terre; altri spogliò cavillando sui titoli dei feudi e sulla validità delle concessioni fatte dagli ultimi monarchi svevi; arrivò a tanto abuso della legge feudale da vietare i matrimoni delle eredi finché non sposassero un francese o non abbandonassero il feudo; della quale iniquità si muove lamento in una rimostranza indirizzata alla corte di Roma dopo la rivoluzione.
Per tali modi, rinnovando in parte il baronaggio, re Carlo sostituí agli indigeni i forestieri i quali trattavano i vassalli sull’esempio del re e secondo l’usanza dei propri paesi. Né si dica che gli abusi dei quali allor si fece tanto scalpore siano da attribuire al sistema feudale. Sistema assai piú duro e disumano di quello esistente in Sicilia e che, risalendo all’XI secolo, era scevro delle molte ingiustizie delle età barbare che l’avevano prodotto in Francia.
Basta accennare ai villani, infima classe della popolazione rurale in Sicilia, i quali godevano diritti ignorati dai servi della gleba degli altri paesi. Anche i borghesi siciliani erano avvezzi a franchigie tali che i borghesi di Francia durarono molta fatica e sparsero tanto sangue per conquistarle.
Torna, del resto, assai difficile distinguere le innovazioni del diritto, vero o supposto, dagli abusi di fatto. Li inaspriva e rendeva piú intollerabili nel regno l’antagonismo nazionale, il quale vi ribollì piú forte che nel resto d’Italia, essendo piú diretta e permanente la soggezione ed assai maggiore il numero degli stranieri che ingombravano il paese: ufficiali di ogni grado, familiari, feudatari e sub-feudatari, soldati mercenari ed anche intere colonie poiché il re ne aveva fatte venir di Provenza ed istituite con particolari privilegi nelle città di Lucera e d’Agosta, spopolate da lui stesso.
Invece di sforzarsi a cancellare la distinzione tra vincitori e vinti, come la giustizia e l’utile suo proprio gli avrebbero consigliato, re Carlo la ribadì nelle leggi, nella quotidiana amministrazione della giustizia, nelle cariche degli uffici, nella distribuzione dei favori; la portò perfino nel santuario. Quando egli edificò l’abbazia cistercense di Scurcora, presso il campo di battaglia dove aveva sconfitto Corradino, prescrisse, nell’atto di fondazione, che non vi si ammettessero frati se non sudditi francesi.
Ognuno si avvede, pertanto, come vivessero nello stesso suolo due genti in istato di guerra permanente. Gli onori e i comodi appartengono agli stranieri, agli indigeni fame e strapazzi e peggio se osano lagnarsi.
Il re spreme denaro, sfoga la superbia sopra i sospetti di lesa maestà, li chiude nelle spelonche di Castel dell’Ovo a Napoli, incarcera le madri e i familiari dei fuggiaschi, proibisce i matrimoni alle figliole dei feudatari o degli esuli, quando non gli è gradito lo sposo: del resto egli abbandona i sudditi inoffensivi alla cupidigia, alla libidine, ad ogni violenza dei suoi accoliti: e questo è ciò che non gli perdonano gli scrittori guelfi contemporanei.
Alla stregua dei cronisti siciliani essi ci narrano cose che sarebbero incredibili se non riguardassero uomini che odiati riodiavano, disprezzavano e non avevano da temere castighi: entrare a libito nelle case, cacciandone i padroni; prendere le masserizie, impadronirsi delle derrate, senza pagarle, costringere i borghesi a recar pesi in spalla, a servire i signori a mensa, obbligare giovanetti nobili a girare lo spiedo in cucina. Peggio di tutto il piglio licenzioso verso le donne.
Il contemporaneo siciliano Niccolò Speciale scrive che ogni cosa avrebbero sopportato i suoi compatrioti, se gli stranieri non avessero incominciato a prender loro le donne: e sembra dalle sue parole che il mal vezzo fosse altremodo cresciuto negli ultimi tempi.
«Lunga pezza, egli dice, i nostri patirono le estorsioni, gli esili, le carceri, le deportazioni, le ingiurie alle proprie persone e mormoravano sottovoce; ma quando il furore della gelosia cominciò a ferire il cuore degli amanti, il popolo borbottò senza timore. Il re fu sordo e non solo non frenò quei malvagi, ma punì coloro che protestavano, li scacciò con vituperi per loro e tante minacce di nuovi mali alla Sicilia».
Le esazioni e le vessazioni del fisco passarono ogni misura, quando re Carlo cominciò ad armarsi contro Costantinopoli. Chiamato al servizio militare chi doveva compierlo per obbligo feudale e chi non lo doveva, arruolati quanti non potevano andare in guerra, ma avevano di che riscattarsi, costretti contro ogni diritto i baroni a fornire le navi.
In tutti i porti di Sicilia, Puglia, Principato, Terra di Lavoro, Calabria, si allestivano i legni e al dir di Saba Malaspina i valenti armaioli di Palermo e Messina, fabbricavano arnesi per i cavalli e un numero infinito di archi, balestre, saette, proiettili d’ogni genere. Feudatari e sub-feudatari siciliani si vedevano costretti a rimaner senza un quattrino. Parlavano di abbandonare i beni, fuggir dal paese.
Dicono le cronache che furono mandati al papa il vescovo di Patti e un frate predicatore, per chiedergli che intercedesse a favore dei Siciliani. Martino IV li respinse e, uscendo dal palazzo pontificio, il vescovo e il frate furono imprigionati dagli ufficiali di Carlo, rifatto allora senatore di Roma. Conosciute quelle proteste Carlo inviperì, proruppe in minacce contro i Siciliani: chiunque da Napoli ritornava a Palermo e a Messina raccontava che il re voleva cominciar la guerra d’Oriente proprio dalla Sicilia, cacciarne tutti gli abitanti, dar l’Isola a popolazioni piú mansuete.
Altri sussurrava che i debitori del fisco sarebbero stati marchiati in fronte e che i bolli erano già pronti. Di certo il lievito fermentava piú forte in Sicilia che in terraferma. Palermo, antica capitale, si rammaricava del perduto splendore della corte; le pareva vergogna di ubbidire ad un giustiziere di provincia. E Giovanni di San Remigio, che ultimo tenne quell’uffizio, non par sia stato dei meno molesti.
Per rispondere al malumore del popolo egli aveva toccato duramente una corda molto sensibile nel paese, aveva vietato ai cittadini di portar le spade e le lance, come si usava per onoranza da tempo antico.
In questa disposizione degli animi, si celebrò in Palermo la Pasqua di Resurrezione del 1282. Nella settimana santa era avvenuto che affollandosi la gente nelle chiese, gli agenti del fisco vi cercassero dei debitori latitanti, usciti fuori per divozione, con la speranza che nessuno osasse molestarli in quei giorni entro l’asilo delle chiese.
Ma gli agenti non se ne curavano; riconoscendo i debitori, li trascinavano fuori, li ammanettavano, li conducevano in prigione ingiuriandoli: Pagate, Paterini, pagate! Chi sa quante volte coloro che guardavano non dissero tra sé: «Un giorno s’ha a finire» e se non lo dissero anche in compagnia!
Il 31 marzo, martedì di Pasqua, si soleva far festa fuori le mura meridionali della città, nella chiesa di S. Spirito. Era stata, questa, fondata con un monastero di Cistercensi, dall’arcivescovo di Palermo il 1173 e fabbricata in quel sobrio stile d’architettura del quale ammiriamo oggi gli avanzi. Vero o falso che sia, leggiamo che quando se ne gettarono le fondamenta si eclissò il sole, che scavandovi si trovò un grandissimo tesoro, che nel monastero trovò ospitalità qualche volta l’abate Gioacchino calabrese, personaggio un po’ mitico del XII secolo, celebre per dottrina e profezie.
Cento anni or sono il marchese Caracciolo, uomo colto, imbevuto delle idee della rivoluzione francese, essendo viceré di Sicilia e volendo abolire la triste usanza delle sepolture in città, scelse infelicemente per cimitero pubblico il prato di quella chiesa, troppo vicino all’abitato, e sia che egli pensasse al Vespro o no, ch’egli ne comprendesse il gran momento storico o lo giudicasse superficialmente, diede pretesto ad un’accusa molto sottile: che egli voleva buttar lí le ossa dei Palermitani per fare onta a loro e vendicare i diletti francesi.
Il colera, poi, nel 1837 riempí le fosse in men di una settimana, onde si destinò al riposo dei morti altro luogo diverso da questo santificato da due stragi.
Il quale era ricco d’erbe e di fiori il 31 marzo 1282: vi richiamava una enorme folla della città, entravano in chiesa, facevano crocchi fuori, passeggiavano e, come è usanza nei giorni festivi, vi si mangiava, si beveva, si ballava. Il giustiziere mandò i suoi uomini a mantenervi l’ordine, secondo il linguaggio di caserma.
E la sola presenza loro bastava a turbarlo. Perché non si divertivano anche loro? Si avvicinavano infatti alle brigate, entravano senza preamboli nelle danze, prendevano per mano una o un’altra donna, scherzando a modo loro, con parole e gesti sconvenienti.
Dei giovani palermitani, e secondo un cronista ve n’era anche uno di Gaeta, stando lí a guardare brontolavano, qualcuno ammoní gli sbirri a lasciar tranquille le donne. «Oh come, questi vili paterini non oserebbero parlare se non portassero armi. Frughiamoli!» E si mettono a frugare addosso alla gente: era una buona occasione per vedere se le mogli portassero sotto le vesti i coltelli dei mariti.
Andava in chiesa una giovane avvenente e di aspetto signorile coi parenti e col marito. Droetto, familiare del giustiziere, le si fa incontro per cercare armi, le caccia la mano in petto: secondo Niccolò Speciale l’insulto fu piú grave.
A tanto oltraggio la donna stava per svenire e la sostenne il marito, mentre in un baleno un giovanotto, strappata dal fianco di Droetto la spada gliela immerse nel ventre. I presenti urlarono: «Muoiano i francesi» e il grido, come voce di Dio, dice uno scritto di allora, tuonò per tutta la campagna. Con sassi, coltelli, bastoni si buttano addosso ai francesi,
Di questi improvvisi movimenti quasi scoppio di mina quando vi passa la scintilla elettrica, son piene le memorie di Palermo, dal X secolo fino ai nostri giorni. Seguí breve lotta e di duecento francesi non ne scampò uno solo. I ribelli corsero in città gridando sempre: «Muoiano i francesi, muoiano i tartaglioni» e quanti ne vedevano li uccidevano.
La tradizione afferma che nel dubbio che qualcuno fosse straniero lo obbligavano a dire ciciri e chi falliva nella pronunzia era spacciato. Una turba assale il palazzo del giustiziere, irrompe, ammazza le guardie: nel trambusto, Giovanni da S. Remigio si sottrasse ferito in volto, montò a cavallo e col favor della notte prese la via di Vicari, accompagnato da due soli suoi fidi.
Per tutta la città continuò la rivolta fino all’indomani: si cercano gli stranieri nelle case, nei conventi dei frati minori e dei predicatori, sotto gli altari: le vittime sbalordite non si difendevano. Si narra che qualcuno porgeva la propria spada agli assalitori, mentre un altro scoperto nel nascondiglio, si aprí la strada, ne uccise tre e cadde poi con loro.
Tra i vendicatori della carneficina d’Agosta vi fu chi si lavò le mani nel sangue: scannavano le donne, perfino quelle incinte, anche siciliane per spegnere la creatura prima che venisse al mondo. Morirono duemila francesi in quel primo impeto, né ebbero sepoltura. Poi furono scavate fosse qua e là, perché i cadaveri non appestassero l’aria.
Alcune di quelle fosse esistevano ancora nel XVI secolo presso la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, il luogo di altre fu ricordato, non si sa quando, con una colonnina sormontata da una croce di ferro: il qual rozzo monumento dal centro dell’odierna Valguarnera fu poi collocato in un canto e vi rimase per lungo tempo.
In mezzo agli orrori descritti alcuni savi pensarono all’avvenire. La stessa notte il popolo di Palermo, convocato a parlamento, cancella per sempre il nome regio, stabilisce di reggersi a Comune sotto la protezione della Chiesa, come era avvenuto nel 1255. Elegge a capitano del popolo Ruggiero Mastrangelo, nobile uomo e nominano dei consiglieri. S’innalzò il vessillo dell’aquila palermitana. Raccolto quindi un buon numero di uomini armati uscirono fuori della città in cerca del viceré.
Questi, giunto a Vicari di notte, non poté occultare quanto era successo a Palermo. Chiamò alle armi i feudatari dei dintorni e si trovò preparato quando comparvero i palermitani che erano accompagnati dagli uomini di Caccamo. Gli venne intimato di deporre le armi, offrendogli salva la vita se avesse filato diritto per Acquamorta di Provenza.
Ma il cavaliere francese, sprezzando gli assalitori, uscí ad incontrarli con i suoi uomini e li avrebbe messi in fuga se i palermitani, guardandosi negli occhi, non avessero ricordato il loro grido: Muoiano i francesi. Al quale grido li ricacciarono dentro il castello e quelli di Caccamo trafissero il viceré con le saette e poi, scalando le mura, trucidarono tutti i francesi che vi si erano rifugiati.
È quasi certo che quel giorno o il seguente si siano sollevate altre città. Prima di tutte Corleone, colonia lombarda, la quale aveva da poco sofferto aggravi di ogni genere, per la vicinanza coi poderi del re.
Corleone fu cosí pronta alla rivoluzione che il 3 aprile i suoi ambasciatori non solo erano arrivati a Palermo, ma avevano formato una lega della quale ci rimane il testo originale in pergamena e conferma i particolari che ci danno i cronisti piú autorevoli circa gli ordinamenti sorti in quei primi giorni della riscossa.
Vi leggiamo che Ruggiero Mastrangelo, Arrigo Baverio (Barresi?), Niccolò d’Ortilevo Militi e Niccolò d’Ebdemonia, tutti e quattro capitani del popolo di Palermo, insieme col giudice Jacopo Simonide, governatore della città, e coi consiglieri, giudice Tommaso Grillo, giudice Simone de Farrasio, Perrono di Caltagirone, Bartolotto de Milite, il notaio Luca de Guidayfo, Riccardo Fimetta Milite e Giovanni de Lampo, stipularono, a nome del comune di Palermo, unione, fedeltà e fratellanza col comune di Corleone, scambievole aiuto con armi, persone e denari: reciprocità di cittadinanza e di franchigia dalle imposte.
Palermo poi prometteva speciale aiuto a Corleone per la distruzione del vicino castello di Calatamauro, del quale rimangono ancora le rovine in luogo fortificatissimo. Il popolo di Palermo, riunito di nuovo in parlamento, aveva aderito alla suddetta lega su proposta degli oratori di Corleone: Guglielmo Basso, Guilone de Miraldo e Guglielmo Corto. Giurarono questi sul Vangelo insieme coi capitani del popolo e coi consiglieri di Palermo e si stipulò, secondo l’uso di allora, un atto pubblico a mezzo del notaio.
Nello stesso tempo i corleonesi avevano nominato capitano del popolo un tale Bonifazio, ardente patriota, come sembra dalle parole che un cronista gli attribuisce e dai fatti che di lui narra: che messosi alla testa di tremila uomini occupò il castello, distruggendo i poderi demaniali, impossessandosi dei cavalli pronti per la guerra contro i Greci, adoperandoli contro i francesi e dando man forte ai palermitani, vincendo le ultime resistenze nel Vallo di Mazzara e di Calatafimi che si era mantenuta fedele al feudatario Guglielmo Porcelet che era stato sempre giusto e benigno coi vassalli.
Per fortuna queste ultime incertezze non durarono a lungo e le città, liberatesi dagli oppressori, nominarono ad una ad una i loro capitani del popolo, armarono uomini e mandarono i loro sindichi (deputati) a Palermo.
Verso la metà di Aprile si riunirono nell’antica metropoli quasi tutti i rappresentanti della Sicilia occidentale e molti uomini armati che dopo aver gridato per due settimane «Morte ai francesi» intonavano ora la necessaria variante «Morte pria che servire i francesi» e seppero mantenere la seconda parola come la prima. Il parlamento decretò, senza arringhe, io credo, la costituzione in repubblica sotto il nome della Chiesa. Dalla piazza la maschia voce del popolo rispondeva: «Evviva libertà e buono stato».
Ruggiero Mastrangelo e Bonifazio da Corleone allora dimostrarono al parlamento che era necessario accompagnare a quelle nuove parole nuovi fatti: unire tutta quanta la Sicilia per amore o per forza, mandare immediatamente eserciti che corressero l’isola a questo scopo, prepararsi a respingere Carlo d’Angiò, il quale non avrebbe tardato ad assalire il paese. Deliberato alla unanimità ciò, il popolo echeggiò: «Andiamo, andiamo!».
Si divisero in tre schiere, una delle quali mosse sopra Cefalù, l’altra su Castrogiovanni, la terza su Calatafimi. Portavano una insegna con le chiavi di San Pietro dipinte sui margini e l’aquila di Palermo, credo io, nel campo. Arrivati i palermitani a Calatafimi, Porcelet aprí loro le porte a patto che potesse ritornarsene in Provenza.
Fu onorato e insieme ai suoi fedeli si salvò. Le altre due schiere, percorsa la regione occidentale e la meridionale dell’Isola, aiutarono il movimento, che fu dappertutto accompagnato da stragi: i francesi che poterono scampare si rifugiarono a Messina ed i loro beni confiscati. Sperlinga e pochi altri castelli resistettero di piú, ma poi si arresero ad uno ad uno.
Dell’ordinamento politico in questo periodo ne parla Saba Malaspina: furon nominati dei capitani: Simon di Calatafimi nei «Monti dei Lombardi»; Giovanni de Foresta a Lentini; Santoro di Lentini in Val Demone e nella pianura di Milazzo; un messer Alamanno in Val di Noto e molti altri nobili in altre regioni, dice il cronista.
Sembrano dunque dei capi militari, eletti dalle leghe che si formavano qua e là a seconda di circostanze locali tra i borghesi delle città e terre piú grosse.
«Monti dei Lombardi» mi pare che a quel tempo comprendesse una parte degli odierni circondari di Piazza Armerina e di Nicosia, con qualche appendice nella valle dell’Alcantara e qualche altra sopra ambedue le pendici dell’Appennino Siculo, perché nei ricordi del secolo precedente erano chiamati Lombardi gli uomini di Randazzo, Capizzi, Nicosia, Maniaci e vanno aggiunti di certo quelli di Aidone e di San Fratello, a causa del dialetto affine a quello del Monferrato, dalla quale provincia d’Italia molti emigrarono verso la Sicilia allo scorcio dell’undicesimo secolo.
Corleone, essendo lontana da queste città, non faceva parte dei Monti dei Lombardi e la sua gente era venuta da altre provincie dell’Alta Italia nella prima metà del secolo decimoterzo. I documenti poi non suppliscono al silenzio dei cronisti circa questo primo imperfetto ordinamento o necessario disordine della rivoluzione. Ma chi badava a notare i particolari di un governo provvisorio, quando un solo pensiero preoccupava tutti: Che farà Messina?
Sorta in vista del Contirente, su quel mirabile porto che dava ricetto ai navigli quasi pronti per l’impresa di Costantinopoli, Messina col suo numeroso popolo dedito al mare, ricco, vivace, risoluto, era arbitra delle sorti nel duello mortale tra la Sicilia e Carlo d’Angiò. Parteggiavano per costui famiglie messinesi potenti, come i De Riso; Carlo sperava appunto sulla rivalità che corse tra Palermo antica capitale e Messina, ora sede del suo vicario nell’Isola. E pare che egli abbia tentato di attirare dalla sua parte altri autorevoli cittadini non tanto amici, poiché leggiamo che nello stesso giorno in cui si compí la rivoluzione, era tornato da Napoli insieme a Matteo e Baldovino De Riso, un importante magistrato della città, tale Bartolomeo Mussone.
Però la comune avversione allo straniero, le comuni afflizioni, i commerci frequenti, riavvicinavano gli animi dei due popoli; molti messinesi che godevano della cittadinanza di Palermo, vi avevano impiantato negozi e vi contavano molti amici, cosicché le trattative tra le due città non tardarono a concludersi.
Ci rimane il testo di una lettera latina del 13 aprile e tutta infarcita di frasi bibliche, la quale pare sia stata veramente spedita dai palermitani ai messinesi, i quali se non la capivano tutta erano convinti della buona causa e della necessità di seguire il solo partito giusto e savio che convenisse ai Siciliani.
Meglio di tutti la capì il popolo minuto: i popolani grassi che sapevano forse il latino, volevano e non volevano, non osando contrastare con Erberto d’Orleans, vicario del re.
Erberto fece salpare subito contro Palermo sette galee della città e quattro di Amalfi, al comando del prode marinaio messinese Riccardo De Riso; la piccola flotta arrivata a Palermo bloccava il porto e minacciava la città, mentre l’equipaggio gridava le lodi del re Carlo e minacciava i ribelli. Questi se ne stavano zitti e inalberavano soltanto sulle mura la croce messinese accanto all’aquila palermitana.
Frattanto gli amici mandavano messaggeri agli amici assicurando che non avrebbero risposto né alle ingiurie né ai colpi e dicevano: «Ma perché venivano addosso ai fratelli i quali, ispirati da Dio, avevano impreso a liberare se stessi ed anche loro dalla servitú?». Non è improbabile che la lettera latina di cui ho parlato prima sia stata introdotta di contrabbando nelle galee messinesi, poiché la data corrisponde col 13 aprile.
Ma il 15 aprile il municipio di Messina, per compiacere il viceré, mandava 500 balestrieri a Taormina per difenderla contro i rivoltosi che, secondo la fama rimasta, facevano cose terribili. Erberto radunò a Messina 600 cavalli, ma ebbe subito sentore che il popolo fremeva a questi preparativi e dispose che parte venissero allogati nel palazzo e parte nella fortezza di Matagrifone.
Continuando il malcontento, il 27 aprile ne mandò novanta a Taormina con l’ordine di occupare le fortezze. I balestrieri messinesi, come li vedono cavalcare in pieno assetto di guerra e pieni di baldanza, li accolgono con un nembo di saette uccidendone la metà, inseguendo il resto e costringendoli a rifugiarsi nel castello di Scaletta. Quindi i vincitori entrano in Messina con grande tumulto e nel loro passaggio distruggono le insegne di Carlo d’Angiò.
I cittadini però timorosi di eventuali rappresaglie da parte del viceré o per amore di parte non li seguono. Il giorno successivo, martedì 29 Aprile, un tale Bartolomeo Maniscalco con altri popolani riaccendeva il tumulto con tanto furore che, nascondendosi i regi e approvando gli irresoluti, fu revocata in piazza l’ubbidienza al re Carlo d’Angiò e la notte furono uccisi quei pochi francesi rimasti in città.
Ma il Maniscalco che aveva guidato la sommossa, facendosi persuadere da cittadini autorevoli, così scrive il Neocastro, rendeva il governo della città a Baldovino Mussone. Il popolo e gli anziani riuniti il 29 stabilivano di reggersi in comune sotto il nome di Santa Romana Chiesa, eleggevano il Mussone capitano del popolo, inauguravano il vessillo municipale, nominavano i consiglieri e tutti gli altri funzionari del governo.
Il giorno 30 furono chiamate le navi da Palermo e inviati messaggi di amicizia e proposte di confederazione. Né il nuovo governo mancò di avvertire Paleologo di Costantinopoli che Messina si era ribellata al comune nemico.
Le pratiche, poi, della famiglia De Riso non approdarono ad altro che ad un accordo per il quale il viceré ed i suoi s’imbarcarono lasciando armi e cavalli e giurando di far vela direttamente per la Provenza; ma arrivato in mezzo allo stretto, Erberto ruppe il giuramento; lasciò delle navi a molestare i messinesi e sbarcato egli in Calabria riuní ed ordinò le forze che erano scampate da Messina.
L’atto sleale fu espiato non da chi lo commise, ma dai suoi compatrioti che non avendo potuto partire erano rimasti prigionieri; contro di essi e dei loro partigiani si levò a Messina uno spaventevole tumulto, per convincere anche i piú meticolosi, come dice il Neocastro, che non era piú tempo di tornare indietro.
Non occorre dire come papa Martino, sdegnato, respingesse l’ambasceria dei palermitani che cercavano di giustificare la ribellione e chiedevano la protezione della Chiesa. Il 7 maggio il papa ammoniva i fedeli dell’orbe cattolico di non prestarsi a favorire la sedizione palermitana; revocava le confederazioni delle città di Sicilia; dava un termine ai ribelli per tornare all’ubbidienza; minacciava i contumaci di mille castighi nei beni, nella persona e nell’anima.
Ma quelli non se la presero. Corsero, allora, tra il papa e i siciliani, risposte fatte, come dicevasi, tra le quali una che mi sembra assai notevole sia per gli argomenti, sia per lo stile, e che io pubblicai per primo, secondo un codice parigino, per quanto scorretta e forse mutilata in qualche punto. Ne dò qui alcuni squarci piú singolari. Ecco intanto il principio:
«Voi, voi appello al giudizio, o Padri dei Padri; a voi mi rivolgo, o Principi dei Sacerdoti, voi che sedendo nei sacri tribunali, decorate i fianchi del sommo principe, e come membri del suo proprio corpo siete chiamati a partecipare tanto nelle sue cure, quante nella pienezza della sua potestà. A voi mi rivolgo perché tenete in mano le bilance del retto giudizio, perché siete vincolati al servizio della cosa pubblica, siccome cittadini di una città (la quale cosí volesse Iddio che fosse molto tranquilla!); perché non ubbidite alle vostre passioni, né deliberate secondo l’instabile arbitrio della volontà, ma come vi detta un diligente e razionale giudizio. A voi parlo perché, allontanata ogni contemplazione di persona, vi gittate sugli omeri la clamide regia, sottentrate alla regia potestà; rattenete la libertà che non corra per le vie del libito e non precipiti per malvagi appetiti; a voi che ponderando con equità, rallentate ugualmente le redini ai litiganti; censurate nello stesso modo i grandi e i piccoli; ragguagliate gli uni agli altri con giusto equilibrio.
«Tale il debito dell’uffizio vostro. Or piacesse a Dio che non fosse zoppo il giudizio vostro verso gli abbandonati regnicoli, che non divergesse, ahimé, dal diritto sentiero!
«Verso i regnicoli, dico, i quali poc’anzi, non aiutati da umano ingegno, non da braccio mortale, ma mossi da ispirazione del Cielo e sostenuti dalla mano di Dio, si sono sottratti appena dalla tirannide di Faraone e dalla sfrenata ferocia gallica, bramosi di respirare un pochino e di figurarsi che vivono tranquilli, ed ecco che, inopportunamente e non meno crudelmente, loro si comanda (oh vergogna), senza esaminare le giuste cagioni per le quali ei si riscossero dall’orribile servaggio, senza lor dare né pur promettere alcuna emenda delle sofferte iniquità, loro si comanda di ritornare sotto la tetra schiavitú di Egitto, d’incurvare nuovamente sotto l’immane peso di una barbara ferocia i loro colli gonfi ancora ed esulcerati dal primo giogo.
«E che? S’ingegni pure la romanzesca retorica a inorpellare i vizi di quella pazza rabbia gallica, infesta ai mortali e odiosa agli immortali, di quella genía cui può soffrire appena la stessa natura che la produsse e la stessa sua plaga occidentale orribilmente solcata dai fulmini, di quella genía ch’è flagello e particolare danno del secolo nostro e che, permettendolo Iddio nel suo giudizio, si spinse fino alle spiagge della Sicilia! Chi mai potrà metterla a fronte della duplice nobiltà del sangue italiano, della innata prudenza, dell’antica gravità, dei santi costumi di nostra gente, la sola al mondo che abbia saputo esser madre e padrona delle province?».
E dopo frasi reboanti, cosí prosegue l’ignoto autore: «Chi sosterrebbe le mani di costoro pronte alle offese e al sangue, i truci volti, i minacciosi aspetti, l’arrogante parlare, l’alito puzzolente? O morte, speranza dei tribolati, riposo ancora ai felici, ti sospiravano le anime nostre, impazienti di essere tratte al Cielo o all’Inferno, per tutto il tempo in cui questi condannati nostri corpi nulla servirono al bene della patria! Non è ribellione, o Padri Coscritti, quella cui voi mirate; non ingrata fuga dal grembo di una madre; ma resistenza legittima secondo ragione canonica e civile; ma casto amore, zelo della pudicizia, santa difesa della libertà. Ricordiamo la voragine dei nostri mali; tiriamo a riva l’alga corrotta nel profondo del mare! Ecco le donne violentate al cospetto dei mariti; viziate le donzelle; accumulate le ingiurie, sí che pare non rimanga luogo ad altre nuove: ecco le verghe che colpiscono le spalle; le mani che si alzano a percuotere una faccia ritraente l’immagine del Creatore; ecco gli omicidi; le prigionie; le rapine; il disprezzo; l’occupazione dei beni delle chiese; la brutal forza che comanda; il principe fatto solo arbitro dei matrimoni». Ricordando poi che la corte di Roma non ignorava, né poteva ignorare questi mali, notissimi alle genti piú lontane, l’autore continua: «C’è, o Padri Coscritti, un estremo furore della sventura, una forza di necessità, una reazione della libertà umana; e allora nessun eccesso di crudeltà è tanto immane che non giovi con l’esempio, poiché vale a reprimere i malvagi. Fu squarciato il corpo delle donne; furono uccisi i bambini prima d’esser nati: la storia lo narrerà ai secoli piú lontani; e cosí periscano i vizi prima di venire alla luce, si dissipi il veleno con la prole dei serpenti!». A codeste empie parole non manca la sublimità della disperazione. «A voi, ripiglia lo scritto, lasciando i cardinali e addentando il papa, a voi si volge ora il sermone; su voi voterò il calice. Non soffre l’Italia, o Santo Padre, non soffre dominazioni straniere! Fremono d’ogni intorno le guerre; i nemici minacciano; tremano le nazioni lacerate dalle guerre civili e dalle estranee: sono questi, o Padre, i frutti delle opere vostre!». E qui tocca la connivenza alla sommossa di Viterbo, e tutti gli abusi di re Carlo a Roma; e ritrova mille torti a Martino e gli ricorda che, seguendo gli intenti partigiani, s’indebolisce l’autorità del pontificato; che i misfatti permessi perché piacciono portano poi i misfatti che spiacciono; ch’egli non doveva promuovere i suoi cagnotti e trascurare i veri interessi della Chiesa; che i disordini consuman se stessi: «La scure è alzata; accenna di percuotere; fate d’impugnarla voi stesso pria che tronchi l’albero alla radice!».
Con queste e molte altre parole viene esortato papa Martino a mutar via, se gli preme la sua propria salvazione.
Alle idee, al linguaggio, alla erudizione scolastica, biblica e latina; al furor della passione, questo documento è genuino prodotto vulcanico del paese e del tempo: quella eruzione non si poteva contraffare.
Mentre così pensavano e scrivevano, i Siciliani provvidero alla cosa pubblica; ma le parole sono pervenute fino a noi, degli atti si è dileguata quasi la memoria, ché presto li eclissò quell’eroica resistenza di Messina e l’opera della monarchia restaurata da Pier d’Aragona. Pare che sia stato istituito un comando generale della milizia, poiché Saba Malaspina ci dice che messer Alamanno, capitano della Val di Noto, lo fu «infine di tutta la Sicilia».
Rimase la sovranità nominale della corte di Roma, nonostante il suo rifiuto; rimase la sovranità vera ai comuni, come ce lo mostrano alcuni atti relativi ai beni demaniali e la intitolazione di un atto pubblico di Messina: «Al tempo del dominio della Sacrosanta romana Chiesa e della felice repubblica l’anno primo».
Un parlamento provvide ai bisogni comuni dell’Isola, parlamento che pare non sia stato permanente; né ci resta traccia di quello che ora si chiamerebbe potere esecutivo federale; né sembra che in quell’adunanza fossero intervenuti dei prelati, né dei baroni, come avvenne prima e dopo nei parlamenti della monarchia, ma soltanto dei sindichi di municipalità, eletti dalle adunanze popolari che si chiamavano parlamento anch’esse.
Del resto ci mancano gli atti originali e perfino le tradizioni immediate delle adunanze del 1282. Bartolomeo da Neocastro, nel testo in nostro possesso, non parla di Parlamento Generale, convocato prima dell’assedio di Messina; ma il diligente Surita negli Annali d’Aragona (Libro IV, cap. 18) afferma aver letto in una storia in versi del medesimo autore che in verità il parlamento generale fu tenuto allora in Messina, che tutti giurarono di obbedire alla Chiesa romana e di non accettare alcun re straniero, e che nominarono otto capitani e governatori preposti alla difesa dell’Isola.
D’altra parte Saba Malaspina scrisse quello stesso anno o poco dopo che un parlamento dei Nunzii e Ambasciatori di tutte le Università siciliane deliberava di aiutare Messina con vettovaglie per due anni e con rinforzi di arcieri e balestrieri nel retroterra; che uguali aiuti furono decretati per le principali città marittime esposte agli assalti del nemico e il cronista facendo parlare uno degli oratori in Parlamento, dice: «Catania, Agosta, Siracusa, Milazzo, Patti, Cefalú».
Da ciò si vede che il Parlamento risiedeva a Palermo. Sul futuro assetto politico non si concluse nulla nei primi parlamenti; ma ognuno se ne preoccupava e chi voleva rinnovare i rapporti con la corte di Roma, chi aspettandosene un rifiuto, pensava di chiamare qualche principe che portasse uomini e armi, sia il re d’Aragona, sia quello di Castiglia, continua S. Malaspina che conferma le notizie che noi abbiamo da altre fonti circa le pratiche di quei due principi spagnoli coi ghibellini.
Noi pensiamo che si sia tenuto un Parlamento a Messina ed uno piú grande a Palermo e che il partito della sovranità sia rimasto sospeso finché l’estremo pericolo non costrinse anche i sostenitori della repubblica a chiamare Pietro d’Aragona.
Mentre cosí la Sicilia si preparava, risoluta ma senza unità di comando, incerta di ciò che avrebbe dovuto fare per l’avvenire, Carlo aveva chiesto aiuti a Filippo l’Ardito; il papa si sbracciava a soccorrerlo: mandava in Sicilia, con incarico di legato, il cardinale Gherardo da Parma, col compito di apparire blando ma di essere sempre pronto a censurare; le città guelfe di Lombardia e di Toscana, vedendo risorgere la parte avversa, si affrettavano a fornire armi ed uomini, avventurieri veneziani armarono galee; anche Pisa ghibellina fu costretta a dare navi e cosí Genova ostile, le genti di Provenza e dell’Italia meridionale erano al comando del re Carlo e Mille saraceni di Lucera furono costretti a combattere contro la patria dei loro padri con moderne e complicate macchine da guerra, sotto le insegne benedette dal papa.
L’esercito, ammassatosi sulle rive settentrionali dello stretto, per numero e per equipaggiamento si potrebbe paragonare a quelli del nostro secolo e parve incredibile al Muratori.
Per tutto giugno e luglio continuò l’ammassamento di fronte a Messina; durante questo periodo fu combattuta una scaramuccia navale nella quale ebbero la vittoria i messinesi che imbaldanziti da ciò il 24 giugno, vedendo navigare alla volta della Sicilia, una sessantina di navi che portavano cinquecento cavalli e un migliaio di fanti e vedendoli approdare presso Milazzo occupandone il castello, in maniera da intercettare il passaggio delle vettovaglie che pervenivano a Messina, con a capo Baldovin Mussone uscirono disordinatamente dalla città a frotte chi a piedi e chi a cavallo, sparpagliandosi lungo la litoranea. Intanto i nemici che erano scesi ordinatamente li sbaragliarono uccidendo mille uomini e facendo molti prigionieri.
Scampato a mala pena, Baldovino Mussone rientrò in città gridando di essere stato tradito, e il popolo inferocito fece a pezzi Baldovino e Matteo De Riso consegnando al boia un altro De Riso. Frattanto deponevano il Mussone e nominavano capitano del popolo il valoroso vecchio Alaimo da Lentini; nobile e ricco che era stato giustiziere in Principato sotto Carlo d’Angiò e poi segreto, che è come dire oggi intendente di Finanza in Sicilia.
Alaimo ordinò meglio la difesa, addestrò gli uomini alle armi e anche se i lavori non erano ultimati, Messina si trovò pronta a ricacciare il nemico: chiusa la bocca del porto con catene di ferro e travi galleggianti sul braccio di San Ranieri; riedificate le mura che correvano dal palazzo reale al colle della Capperrina, circondata l’altra parte della città con steccati in legno, rispianata la campagna a settentrione che era già piantata a vigne e sparsa di case rustiche.
Furono poste sentinelle nei punti piú strategici, pattuglie di donne giravano a vegliare su tutti i posti, mentre altre prestavano la loro opera nei lavori di fortificazione. Per l’opera prestata dalle donne messinesi il Villani reca i versi di una canzone dell’epoca:
- Deh com’egli è gran pietate
- Delle donne di Messina,
- Veggendole scapigliate
- Portando pietre e calcina.
- Iddio gli dia briga e travaglia
- A chi Messina vuol guastare, ecc.
Il 25 luglio re Carlo sbarcava alla Badia di Roccamadore distante 4 miglia a mezzogiorno dalla città, il 28 si avvicinava al torrente di Porta dei Legni, sí che il letto asciutto del fiume divise gli assedianti dagli assediati. Ma Carlo esitò a dare l’assalto. Sentiva rimorso per il sangue versato in 16 anni di tirannia o perché temeva il biasimo dell’Italia e del mondo ovvero, come scrivono i contemporanei, lo vinse l’avarizia, volendo da solo ricattare la città anziché farla saccheggiare dai suoi uomini? Tra i Guelfi si raccontava che all’annunzio delle stragi di Palermo Carlo si fosse rivolto al cielo pregando: «Sire Iddio, dappoi t’è piaciuto di farmi avversa la mia fortuna, piacciati che il mio calare sia a piccoli passi».
Il suo sgomento appare anche da una lettera inviata a Filippo l’Ardito e che si conserva negli archivi di Francia, e se di lui si narrano atti di incomposta rabbia, si dice anche che il suo animo fu percosso dalla catastrofe che gli troncava il maggior sogno della sua vita, e gli rivelava la potenza della umana vendetta oltre che quella divina.
Per queste ed altre ragioni, fiducioso nelle forze sue preponderanti, differí di dare assalto alla città fino al 6 agosto. Forze numerose investirono il monastero di S. Salvatore, chiave del porto, ma i cento uomini che lo presidiavano, capitanati da Alaimo, ributtarono i francesi. Due giorni dopo altri tentativi furono rintuzzati e mentre gli uomini di Alaimo sono intenti a riparare i danni provocati, il nemico si avvicina agli sbarramenti del Colle Capperrina e li scavalca, ma si imbatte in una squadra di donne che danno l’allarme: Dina, che prima di gridare lanciò dei sassi contro i nemici e Chiarenza che corse a far suonare a stormo le campane sí che i soldati con Alaimo accorsero e misero in fuga quei fanti fino al padiglione di Carlo. Intanto sia gli uomini in armi che il popolo si abituavano alla disciplina e l’espugnazione della città diventava sempre più difficile, tanto piú che non poteva essere presa per fame in quanto le vettovaglie potevano giungere in città dalla parte dove non era stata investita dall’esercito nemico.
Il cardinale Gherardo da Parma, dopo essere stato accolto con grandi onori, quale legato pontificio e vicario del sovrano, ritornò indietro senza avere concluso nulla e lasciando alle spalle intimidazioni e scomuniche.
Sparsasi la notizia degli inutili approcci del cardinale; i soldati, non aspettando alcun comando, assalivano da ogni parte ma erano sempre respinti: non migliore fortuna ebbero fazioni piú ordinate. Si tenta di intercettare la via degli aiuti ai messinesi, poi il 15 agosto tentano un grosso assalto contro la Capperrina e il 2 settembre uno contro le mura settentrionali, ma invano.
Intanto Pietro d’Aragona, acclamato re di Sicilia a Palermo, mandava ambasciatori a Carlo intimandogli di sgombrare dalla sua terra. Ma Carlo d’Angiò il 14 settembre, mentre gli ambasciatori aspettavano una sua risposta, fece assaltare di nuovo la città da tutto il suo esercito e Messina si vide all’alba circondata e sotto un vento di tramontana l’armata correva contro la bocca del porto preceduta da un gran galeone, pieno d’uomini e di macchine che avrebbero dovuto rompere le catene predisposte dai messinesi.
Ma il galeone si impiglia contro le grosse reti di acciaio, mentre da un fortino i messinesi lanciano sassi, dardi, fuochi. In un parapiglia indescrivibile il galeone con le vele squarciate, i fianchi aperti e gli uomini in gran parte feriti, non avendo piú il vento favorevole, si ritirò seguito dal rimanente dell’armata. Allora i difensori corsero alle mura che il nemico difendeva coi gatti e lo ricacciava rispondendo con frecce e con sassi, gettando pece e fuoco greco su chiunque tentasse di salire sulle mura. Le donne intanto si aggiravano tra i difensori, incoraggiandoli e distribuendo loro acqua e vino.
Alaimo, infaticabile, era dappertutto ove era necessaria la sua parola e il suo esempio. Verso sera i nemici si allontanarono lasciando molti morti sul terreno, piú francesi che italiani, contro le cui bandiere i cittadini tiravano di rado, dice il Neocastro; e chi sa se quelle assalivano con la stessa rabbia degli stranieri?
I nemici furono inseguiti e uccisi fin sotto gli occhi di Carlo ed egli stesso per poco non lasciò la vita sotto Messina.
L’assalto generale non fu piú tentato, ma furono rafforzate le uscite della città e devastati ancora di piú i campi intorno a Messina. Frattanto erano entrati in città per i sentieri della montagna Niccolò Palizzi e Andrea da Procida con cinquecento balestrieri delle isole Baleari e con la notizia che Pietro s’era venuto a porre con l’esercito in Randazzo e mandava alla volta di Messina le galee sottili dei Catalani e dei Siciliani.
Risaputo ciò nel campo angioino, si parlò di togliere l’assedio. Si avvicinava l’ottobre, le navi non erano piú sicure di tenere lo stretto contro le tempeste autunnali, segni di ribellione si manifestavano in Calabria; le milizie feudali, compiuto il servizio, ritornavano alle loro case, lasciando nell’esercito i mercenari, i quali non bastavano a circondare Messina finché fosse ridotta per fame a capitolare.
Re Carlo, nel tentativo di chiudere la via per la quale erano entrati il Palizzi e il Procida, fece occupare il palazzo dell’arcivescovo fuori le mura della città: ma la notte del 24 settembre un tale Leucio messinese, con uomini risoluti, assalí improvvisamente il palazzo e trucidò quanti vi erano dentro.
Il 26 il nemico cominciò a ripassare lo stretto, abbandonando molta roba e perdendo molti uomini. Pietro d’Aragona, intanto, costringeva alla resa il presidio francese di Milazzo; ed è da supporre che lasciato il grosso dell’esercito siciliano a Randazzo e valicata con poca gente l’alta giogaia dell’Appennino siculo, sia andato a ritrovare l’armata sulla costa settentrionale. Continuata la strada per la marina arrivò a Messina il 2 ottobre.
Non può finir qui il nostro racconto. A scoprire la parte che ebbe il re Pietro nella rivoluzione siciliana conviene tornare un po’ indietro ed esaminare per prima cosa gli avvenimenti dal 31 marzo alla entrata in Messina. Poiché le passioni di parte guelfa confusero (in buona o mala fede) ed alterarono per l’appunto i fatti di quei sei mesi, la sommossa palermitana ci è pervenuta con due tradizioni ben diverse, delle quali una la presenta come improvvisa esplosione di vendetta, l’altra come effetto di lunga e sottilissima trama.
Per fortuna siamo in possesso di testimonianze di scrittori contemporanei e documenti da poter quasi compilare il diario di Pier d’Aragona in quel breve periodo.
Nel gran personaggio storico di Pier d’Aragona l’uomo vale mille volte piú del re. Il re portava l’antica corona d’Aragona e della contea di Barcellona, ai quali Stati si aggiunsero, per nuove conquiste sui Mori, i reami di Valenza e di Majorca; ma egli governava senza regnare, sugli orgogliosi prelati, sui baroni indocili e guerrieri, e su alcune potenti città, i rappresentanti delle quali, sedendo con gli ottimati ecclesiastici e militari nelle Cortes, prestavano per bocca dell’inviolabile giustizia il giuramento di fedeltà in questi termini: «Essi che valevano ciascuno quanto il re, tutti insieme piú di lui, gli ubbidirebbero se mantenesse loro franchigie; e se no, no».
Ma valorosi fatti di guerra, indomabile costanza, mente e cuore d’uomo di Stato avevano fruttato a Pietro la reputazione che seduce e vince gli animi e, se non amore, ispira fiducia nell’esito d’una impresa. Con gli aiuti di Castiglia e i denari di Costantinopoli egli allestiva pian piano l’armata in Catalogna, quand’ebbe principio la rivoluzione siciliana.
Contro chi egli si armava? Contro Carlo d’Angiò, ne siamo certi anche noi. Pur lo scopo immediato dell’impresa era il reame di Tunisi, come affermano i cronisti contemporanei spagnuoli e italiani, e come lo provano i fatti.
Noi sappiamo da due scrittori catalani e dagli annalisti arabi d’Africa, con poco divario nei particolari, che Pietro, da circa un anno, macchinava di occupare lo Stato di Tunisi, per tradimento dei mercenari spagnuoli al servizio di quel re e per opera di un tale Ibn Wazir, governatore di Costantina, il quale ultimo si era accordato con Pietro per impossessarsi di alcune province e lasciare a lui le altre; apprendiamo inoltre che Ibn Wazir, caduto in sospetto ai governanti di Tunisi e quindi apertamente ribelle nei primi di aprile, aveva sollecitati ansiosamente gli aiuti d’Aragona.
Che nel medesimo tempo siano arrivati a Pietro appelli dalla Sicilia, ci sembra molto verosimile, per quanto nessuno lo dica; neppure gli storici della congiura del Procida, perché costoro falsamente suppongono che Pietro già aspettasse in Africa con l’armata.
Uno di essi, piú coraggioso degli altri, afferma che non aspettò l’annunzio ma partí per l’appunto lo stesso giorno 31 marzo. Il re d’Aragona affrettava i preparativi a seguito delle notizie pervenutegli sia dall’Africa che dalla Sicilia. L’opera di un mese, dice Ramondo Muntaner, la svolse in otto giorni; tanto che il 20 maggio Pietro passò in rassegna i cavalieri, i fanti e l’armata a Portfangos, presso Tortosa.
Quello stesso giorno gli si presentavano, come si apprende da un documento conservato negli archivi d’Aragona, due ambasciatori di Filippo l’Ardito per augurargli la vittoria se egli fosse andato contro i saraceni, e a dirgli che se avesse rivolto le armi contro Carlo o il principe di Salerno, il re di Francia l’avrebbe ritenuto una offesa alla propria persona.
Il detto documento è quello che nella diplomazia moderna si chiamerebbe nota verbale lasciata dall’ambasciatore: difatti esso comincia: Ce soit remembrance de ce que le missage, ecc. Agli ambasciatori Pietro rispose come si legge nei documenti del reame di Francia: «Il mio proposito è tuttavia quel che è stato, e farò sempre quel che ho fatto con intendimento di servire Iddio». Dunque né egli disse di andar contro i saraceni per burlare il re di Francia e cavargli denari, come scrivono alcuni cronisti guelfi, né diede le risposte furbesche inventate da altri; che si sarebbe strappata piuttosto la lingua anziché svelare il segreto, ovvero si sarebbe tagliata con una mano l’altra che lo avesse rivelato.
A Portfangos erano pure pervenuti a Pietro l’arcivescovo di Sardegna, Iporcino da Lodi (?) e Benedetto Zaccaria da Genova, ambasciatori del Paleologo, i quali dovevano passare quindi in Castiglia non si sa con qual missione, ma sappiamo che a Pietro premeva poco la risposta poiché non scrisse se non a Palermo e con una lettera molto fredda, il 22 settembre.
Si affrettò a dare buon assetto alle cose dello Stato e alla propria casa; a far testamento, chiamando erede al trono il suo primogenito Alfonso; ad ultimare il matrimonio di questi con una figliuola del re d’Inghilterra, come si apprende da un diploma del 1° giugno. Pietro salpò da Portfangos il 3 giugno senza che alcuno sapesse dove si recasse.
In alto mare fece drizzare la prua verso Majorca, aspettò pochi giorni nel porto di Maone, poi sciolse le vele alla volta dell’Africa e il 28 giugno arrivò, con una ventina di galee, una diecina di altri navigli, poche centinaia di cavalli e dieci migliaia di fanti, ad Alcoll in provincia di Costantina. Ma durante il viaggio Ibn Wazir è ucciso dai suoi seguaci stessi.
Alcoll, dove Wazir doveva aspettare Pietro d’Aragona, era abbandonata; l’esercito di Tunisi, ritornato a Bugia 1’8 luglio, cominciava a mandare torme di cavalli contro gli aragonesi, i quali parecchie volte li ributtarono con grande strage, ma non potevano avanzare nel paese; appena era consentito di correre i dintorni per fornirsi di vettovaglie.
Questa impresa era dunque fallita; né il re d’Aragona se ne rammaricava molto. Saba Malaspina, che viveva allora alla corte di Roma, scrive che Pietro, consigliato da Ruggiero di Lauria e da altri fuorusciti italiani, radunò i capi a consiglio e a essi propose di inviare ambasciatori al papa per chiedere i favori soliti nelle guerre di crociata: cioè il bando della croce, le decime ecclesiastiche già raccolte, la protezione della Chiesa sui possedimenti del re e dei suoi baroni in Spagna e un legato ecclesiastico al nemico.
Lodarono tutti l’iniziativa e il re la mandò ad effetto facendo imbarcare subito su due galee Guglielmo da Castelnou e Pietro De Gueralt. I quali seppero sbagliare la via. Il papa era a Montefiascone ed essi invece approdarono a Palermo.
Se nessun cronista ci raccontasse che Pietro aveva ricevuto in Africa messaggi dei siciliani, crederemmo sempre il fatto e però diamo molto valore a quanto attesta Neocastro, allora consigliere del magistrato sovrano dì Messina e cioè che i palermitani, dubitando molto della loro sorte quando Messina non si era ancora ribellata, furono persuasi da un certo Ugone Talach a chiamare Pietro d’Aragona e che gli mandarono il 27 aprile un tale Niccolò Coppola, il quale pervenuto dopo otto giorni alle Baleari fu poi spinto dal vento favorevole sulle spiagge d’Africa, dove ritrovò Pietro che era partito dalla Spagna il 17 maggio. Aggiunge il cronista che Pietro non volle prometter nulla senza il consenso dei Messinesi e che mandò ambasciatori per sondare l’animo loro.
Ho esitato anche io ad accettare questa versione sia per la erronea data della partenza di Pietro da Portfangos e sia perché il dubbio del re mi parve finzione patriottica dello scrittore. Riflettendo meglio, giudico la risposta del re molto verosimile perché savia e penso che l’ultima data erronea, potendo provenir da copie od anche informazioni poco esatte, non è tale da mettere in forse un fatto molto probabile.
Lo stesso cronista poi, senza notare particolarmente la data, riferisce che i messinesi inviavano a Palermo tre loro nobili uomini, Giovanni Guercio, militare, il giudice Francesco Longobardo, professore di diritto civile, ed il giudice Rinaldo de Limogiis, con mandato di offrire il regno di Sicilia a Pier d’Aragona e che costoro trovatisi nella stessa città quando provvidenzialmente vi approdarono due galee catalane con gli ambasciatori che Pietro spediva apposta a Messina, fecero sapere al re il voto di quei cittadini.
D’altro canto si ricordi quel che abbiamo detto della testimonianza autorevole di Saba Malaspina, che, aspettandosi in Sicilia da un giorno all’altro gli assalti di re Carlo, e non fidando nessuno nella implorata protezione di papa Martino, si parlò di chiamare al trono di Sicilia un potentato straniero, sia il re di Castiglia, sia quello di Aragona o alcuno dei suoi figliuoli.
Niccolò Speciale, a sua volta, ci narra che durante l’assedio di Messina i nobili e savii siciliani, adunati in consiglio, erano incerti sul partito da prendere, quando un vecchio, ispirato dal Cielo, propose la nomina del re d’Aragona, e tutti assentirono; il quale fatto non esiterà nessuno ad accettare, solo che all’ispirazione di lassú si sostituisca quella di Pietro d’Aragona.
Una cronaca anonima, infine, pubblicata dal Gregorio, reca che il De Gueralt, venendo da Alcoll, trovò il popolo di Palermo radunato nella Chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio e costernato per l’assedio di Messina, che addirittura egli propose di chiamare Pietro e che tutti accettarono. Immantinente furono mandati inviati ad Alcoll, Niccolò Coppola, milite di Palermo e Pain Porcella, catalano, e che Pietro, accoltili bene, promise che avrebbe dato loro una risposta.
Emerge, ad ogni modo, che tra il luglio e l’agosto 1282 Pietro aveva ultimate le trattative coi capi della rivoluzione siciliana e che era arrivato a farsi chiamare al trono. Rimaneva a persuadere gli aragonesi e i catalani che lo seguissero nell’impresa, e, pertanto, era necessario aspettare la indubitabile ricusa del papa. Ma compiuta da un solo aragonese o da lui insieme con De Gueralt stesso, l’ambasceria presso Martino IV, ritornarono entrambi ad Alcoll a dire che il papa lodava l’impresa ma non l’aiutava.
Pietro, approfittando del malcontento che la risposta del papa aveva provocato tra i suoi uomini e del rammarico della fallita impresa di Tunisi, decise di andare in Sicilia dopo avere avvertito i suoi che essi erano padroni di seguirlo o no. I piú lo seguirono ed egli con 22 galee, una nave, poche centinaia di cavalieri e poche migliaia di fanti leggieri, salpò alla volta della Sicilia. Arrivato a Trapani, dopo cinque giorni di viaggio, il 30 agosto, accolto splendidamente da Palmiero Abate e dal popolo, cavalcò il 4 settembre alla volta di Palermo.
Il 7 si radunava il parlamento dei baroni, cavalieri e sindichi della città, dinanzi al quale Pietro prometteva le franchigie dei tempi di Guglielmo il Buono e gli adunati gli giuravano fedeltà.
Assodato cosí, con quanta certezza può dare la storia, il fatto che Pietro d’Aragona non era né vicino alla Sicilia, né pronto il 31 marzo, esaminiamo le due versioni sulla causa immediata della sommossa palermitana. Noi troviamo identica la causa nelle fonti antiche e piú autorevoli.
La prima delle quali è la Cronica di Saba Malaspina, romano, decano di Malta, segretario del papa Martino IV, ardente guelfo che vorrebbe mantenere la potenza di Carlo d’Angiò, ma gli ribolle il sangue italiano contro la prepotenza dei francesi. Egli scrisse, caldo caldo, negli anni 1284 e 1285, mentre la corte di Roma aveva il comando generale del campo nemico, il centro di azione degli angioini contro la Sicilia e la casa d’Aragona, e però il punto al quale convergevano tutte le notizie, tutti i documenti che, forse, passavano per le mani dello scrittore stesso.
Dopo il segretario del papa metterò lo storiografo della Repubblica di Genova Giacomo d’Auria che scrisse gli Annali Genovesi dal 1280 al 1293 e stava in un posto nel quale si lavorò molto contro Carlo d’Angiò, in un posto dove convergevano le notizie degli avvenimenti che si verificavano nel Mediterraneo, nella patria di quel Benedetto Zaccaria che fu intermediario principale, secondo Marino Sanudo, tra Michele Paleologo e Pier d’Aragona.
Ancora i due scrittori catalani Bernardo d’Esclot e Ramondo Muntaner, il frate francescano Salimbene nato nel 1221, guelfo quanto il Malaspina e sdegnato però pure contro i francesi.
Dei siciliani abbiamo la cronaca di Bartolomeo da Neocastro, messinese, giureconsulto, uno dei consiglieri della città, eletto nel 1282 e ambasciatore di Giacomo, re di Sicilia, a papa Onorio nel 1286.
Dopo il Neocastro, Niccolò Speciale, uomo di lettere e di Stato, ambasciatore del re Federigo di Sicilia a Benedetto XII, nel 1334
I suddetti scrittori raccontano la sommossa di Palermo presso a poco come l’ho raccontata io, attribuendola, cioé, alla reazione dei siciliani contro le intollerabili imposte, angherie e ingiurie di ogni genere, culminanti con la piú sanguinosa delle ingiurie fatta a una donna.
V’è poi la versione che della sommossa ne dà Marino Sanudo, statista veneziano, adolescente durante il Vespro. Alla corte di Roma ebbe grande reputazione, conobbe alcuni suoi parenti che avevano militato con Carlo d’Angiò all’assedio di Messina ed ebbe occasione di conoscere e parlare coll’ammiraglio Ruggero di Lauria già ribellatosi a Federigo, re di Sicilia, ed ora contro la causa stessa che aveva propugnata per 14 anni.
Marino Sanudo conferma che una lega esisteva tra Pietro d’Aragona e Michele Paleologo, ciò essendogli stato narrato dall’ammiraglio Lauria, e dalla storia di fra Tolomeo da Lucca, vescovo di Torcello.
Nelle sue Chroniques gréco-romaines, dopo aver detto che la Sicilia si era ribellata in seguito al trattato intercorso tra Michele Paleologo e Pietro d’Aragona, ritorna a pagina 147 sull’argomento sostenendo che la Sicilia si ribellò in seguito al fatto che furono scolpite delle bolle che, secondo quanto si divulgò allora, dovevano servire a bollare i cittadini che avessero evaso il fisco.
E poiché durante una festa all’aperto gli armigeri di Carlo andavano cercando le armi non soltanto addosso agli uomini ma anche indiscretamente addosso alle donne, il popolo di Palermo, acceso di sdegno, si sollevò gridando: «Sian morti li tartaglioni», ché cosí chiamavano per disprezzo i francesi; i quali furono uccisi e pochi scamparono, mentre Corleone «che sono ivi nativi di Lombardia» alla notizia della sommossa di Palermo, si sollevò e cosi tutta l’isola.
Il trattato di cui parla il Sanudo è quello stesso di cui parla fra Tolomeo da Lucca, vescovo di Torcello nella sua Istoria Ecclesiastica, ultimata tra il 1312 e il 1317, dove narra che Michele Paleologo, sentendosi già addosso Carlo d’Angiò, stipulò trattative (tractatum) con Pietro d’Aragona, per mezzo di Benedetto Zaccaria da Genova e di Giovanni da Procida; fra Tolomeo afferma di aver visto quel trattato, il che è molto strano perché un patto stipulato tra due re non è facile che venga nelle mani di un cronista dell’epoca, ma ammessa l’ipotesi che cosí fosse stato, non si comprende per quale illazione fra Tolomeo abbia collegato la congiura di Sicilia cogli accordi tra Aragona e Costantinopoli.
Il compilatore aggiunge che Pietro allestí un’armata con denari del Paleologo e riprende: «Dicono le istorie che papa Martino abbia domandato a Pietro» contro chi si preparasse a combattere e che ne abbia avuta una risposta oscura. Quindi narra il tumulto di Palermo «incominciato per le molte ingiurie dei francesi, col favor di re Pietro. Nello stesso tempo», egli continua, Pietro va a Bona, di lí ad Alcoll e indi in Sicilia.
Dunque altra cosa era il trattato, altra le istorie. Cosí come è un errore «nello stesso tempo» che si accoppia col «favore». Si può favorire una ribellione prima o dopo che sia scoppiata, ma non a quattro mesi di distanza, quanti ne passarono dal 31 marzo allo sbarco di Pietro d’Aragona ad Alcoll.
È evidente, da queste ultime versioni, che al principio del XIV secolo prevaleva alla corte di Roma e tra i guelfi la voce secondo la quale il Vespro Siciliano era da considerare come effetto di una congiura e non come movimento popolare. Il vescovo di Tortello però prestava poca fede a questa versione tanto che nella sua Istoria ne dà un cenno ambiguo.
Il trattato ricompare nella cronaca di frate Francesco Pipino, contemporaneo di Tolomeo da Lucca, che pare si sia occupato della vicenda tra il 1317 e il 1320 che, tra l’altro, dice che i siciliani stanchi delle violenze e dei soprusi dei francesi, ispirati da Dio (domino animante) uccisero tutti i francesi ch’erano nell’isola e chiamarono al trono Pietro di Aragona che si trovava sulle coste dell’Africa.
Attribuisce il merito dell’impresa a Giovanni da Procida, espressamente incaricato dai maggiorenti siciliani che si accorgevano del malcontento del popolo contro le ingiustizie e le violenze dei francesi. Il Procida si reca prima da papa Niccolò III che non vedeva di buon occhio Carlo d’Angiò perché aveva ricusato di dare un suo nipote ad una nipote del papa, e lo convinse a favorire la congiura. Con un documento in tal senso Giovanni da Procida si presenta a re Pietro d’Aragona che accetta di intervenire in Sicilia, dopo di che il Procida va a Costantinopoli per interessare alla congiura il Paleologo che, come già detto, aveva timore di una aggressione da parte di Carlo.
Con denari del Paleologo e dello stesso papa, il Procida ritorna ad Aragona e Pietro comincia ad armare facendo circolare la voce di andare in Africa, dove infatti si dirige e sbarca di lí a poco. Intanto Giovanni da Procida ritorna in Sicilia assicurando i suoi conterranei che il re d’Aragona aveva promesso il suo appoggio; e stabilito il giorno e l’ora della sommossa, il da Procida riparte per l’Africa.
Quel giorno per l’appunto i cospiratori, prese le armi nelle città e terre della Sicilia, con loro seguaci e fautori compiono la strage.
Quel giorno stesso Pietro parte per Messina con l’armata, si impadronisce del Regno ed è incoronato re, nei giorni di Pasqua del 1282.
Altre versioni piú o meno simili alla suddetta si susseguono nel XIV secolo. Il guelfo Giovanni Villani, cronista fiorentino, ha cominciato a scrivere sulla sommossa palermitana intorno al 1330, mentre degli anonimi non si conosce la data.
Di un anonimo siciliano abbiamo un codice che sembra dello scorcio del XIV secolo, dal quale pare abbiamo tratto la narrazione altri due anonimi che essendo di parte guelfa chiamano scellerata la congiura, né risparmiano i ribelli, mentre nell’anonimo siciliano non si avverte alcun biasimo né per il Procida né per i siciliani.
Secondo Francesco Pipino, Giovanni da Procida si trovava in Sicilia verso il 1279 e cosí per l’anonimo siciliano e i suoi seguaci, mentre il Villani lo dice esule volontario, senza precisare in quale luogo, perché i francesi gli avrebbero presa la moglie e una figlia e gli avrebbero ucciso un figlio. L’anonimo siciliano accenna alla figliuola oltraggiata e allo sdegno di Giovanni per la mancata punizione da parte di Carlo d’Angiò. Gli altri anonimi non fanno menzione di alcuna attenuante a favore del cospiratore.
Secondo il Villani, il Procida va a Costantinopoli direttamente per esporre la situazione dei siciliani contro Carlo d’Angiò, mentre avrebbe corrotto papa Niccolò III con gioielli datigli dal Paleologo. Infine tutti sono d’accordo nello stabilire che il Procida sia arrivato in Catalogna con 30.000 once d’oro e con lettere dei baroni siciliani per re Pietro d’Aragona.
Frattanto Niccolò III muore secondo alcuni e la congiura ha una sosta, ma Giovanni da Procida, col solito ascendente, convince tutti a mettere in effetto quanto avevano già stabilito.
Gli scrittori di cui sopra, nel narrare la sommossa incorrono in un anacronismo di un mese o due, importante per il fatto che in questo periodo cade proprio il famoso 31 marzo 1282.
Infatti prima del Vespro il movimento relativo agli armamenti di Pietro d’Aragona avrebbe destato i sospetti delle corti di Roma e di Francia, mentre dopo il Vespro era evidente che i preparativi di un mese, compiuti in otto giorni, erano fatti in considerazione della ribellione che ferveva in Sicilia.
Secondo il Villani, re Pietro d’Aragona con l’ambigua risposta data agli ambasciatori di re Filippo l’Ardito avrebbe beccato al re di Francia L. 40.000 tornesi, mentre frate Pipino glieli fa ottenere da Papa Martino IV.
Frate Pipino fa aspettar Pietro in Africa, mentre i cospiratori sono in Sicilia, i tre anonimi dicono che Giovanni da Procida nel gennaio del 1282, ritornato in Sicilia si era consultato a Trapani coi baroni siciliani, il Villani scrive che nel lunedí di Pasqua del 1282, come era già stato preordinato da messer Giovanni da Procida, tutti i baroni e caporali che tenevano mano al tradimento, si trovarono a far la Pasqua a Palermo e, come d’uso, il 31 marzo i palermitani uscirono fuori della città chi a piedi e chi a cavallo alla festa di Monreale. I francesi vi intervennero pure ed avvenne che uno di loro per suo orgoglio prese una donna di Palermo per farle villania. All’ingiuria i siciliani si ribellarono etc.
Tutti i cronisti sono d’accordo nello stabilire che la scintilla nacque dall’avere usato violenza i francesi a una donna e uno solo sostiene che messer Giovanni da. Procida era presente alla sommossa che seguí alla ricerca di armi che i siciliani avrebbero fatto nascondere alle donne.
Occorre intanto esaminare i personaggi della congiura:
Gualtiero da Caltagirone, uno il quale dopo avere congiurato contro gli angioini si ribellò a Pietro d’Aragona nel 1283 e morí sul patibolo.
Accanto gli sta il grande Alaimo da Lentini, il quale era stato Intendente di Finanza di Carlo d’Angiò. Alaimo non fu tra i primi a prendere le armi contro i francesi e Neocastro narra che la moglie difese alcuni francesi contro il furore popolare e la stessa spinse il marito nel 1284 a congiurare contro il re d’Aragona, per cui fu imbarcato sopra una galea catalana e buttato in mare con un peso al collo.
Resta Palmiero Abate da Trapani, il quale fa la sua comparsa al momento dello sbarco di Pietro d’Aragona a Trapani e poi combatte per vent’anni per la indipendenza della sua patria e in seguito alla sconfitta di Ponza (1300) viene chiuso in carcere dove muore col nome della Sicilia sulle labbra.
La reputazione di Palmiero era viva al principio del XIV secolo e non è difficile che egli sia stato coinvolto nella congiura insieme ai due disgraziati nobili siciliani che essendo stati possenti baroni, i partigiani degli angioini han voluto far passare in seguito come vittime della ingratitudine aragonese.
Di Giovanni da Procida, tra la narrazione e la leggenda, compendierò qui la sua biografia. Quest’uomo, molto dotto secondo i tempi, sagace e abile, nacque a Salerno, ebbe grandi possedimenti a Salerno, Napoli, Procida e Celano, ebbe un posto di prim’ordine alla corte di Federico e di Manfredi, fu medico di fama, tradusse dal greco e compilò in latino, certe massime di filosofia morale degli antichi sapienti.
Dopo la sconfitta di Manfredi egli si trovò ad Ancona; curò Clemente IV di un male alla gamba e il papa lo raccomandò a Carlo d’Angiò; tra il marzo ed il luglio 1266 egli tornò in Sicilia suddito dell’angioino, ma nel 1268 lo vediamo parteggiare per Corradino e dopo la battaglia di Tagliacozzo ripara a Roma; nel 1270 egli è alla corte di Aragona, negli anni 1277 e 1278, dopo la incoronazione di Pietro a quel trono, è fatto consigliere del re e feudatario di tre castelli.
Giovanni da Procida ebbe un grande ascendente su Pietro d’Aragona e insieme a lui un altro fuoruscito, Ruggiero di Lauria, lavoravano con la regina Costanza a spingere Pietro alla conquista del regno di Sicilia. Frattanto alla corte di Pietro, nel gennaio 1282, si trovava una missione del Marchese di Monferrato, capitanata dal nobile Francesco Troisi ed altri ghibellini, che sollecitavano la spedizione in Sicilia.
Nel 1283 il re Pietro nomina Giovanni da Procida cancelliere del reame di Sicilia e nell’aprile quest’ultimo s’imbarca con la regina Costanza alla volta dell’Isola. La regina rimane in Sicilia come reggente, in assenza di Pietro che frattanto si era recato a Bordeaux, mentre il Procida è il principale consigliere della corte. Egli amministra saggiamente la cosa pubblica.
Nel 1290 lo vediamo andare ambasciatore di re Giacomo a Papa Niccolò V, mentre i reali di Aragona progettano di accordarsi con gli angioini. Infine quando Giacomo, salito al trono aragonese, si apprestava a combattere il fratello Federico re di Sicilia per rendere l’isola al papa ed a Carlo II d’Angiò, il Procida insieme con Ruggiero di Lauria prestò omaggio di fedeltà agli angioini, si fece ribenedire dal papa e morí a 90 anni a Roma nel 1299.
Tutte le leggende, sorte sulla vita politica di Giovanni da Procida vengono distrutte dalle genuine fonti della storia. Ci sembra alquanto dubbia la concessione segreta del regno a Pietro d’Aragona ottenuta da Niccolò III, come ci sembrano molto dubbi i misteriosi viaggi dello stesso Giovanni da Costantinopoli per la Sicilia e per l’Africa e viceversa, se si pensa che il nostro doveva essere più vicino agli ottantanni che ai settanta.
La data della morte del Procida coincide col tempo in cui spunta la sua leggenda. Prima del XIV secolo i documenti esistenti presso le corti di Roma, di Francia non parlavano che di macchinazioni di Pietro e soprattutto di aver presa la corona dalle mani dei ribelli, senza peraltro far cenno della congiura in Sicilia. Il primo cenno si vede in una lettera di re Roberto di Napoli a re Federigo di Sicilia il 2 settembre 1314, alla quale Federigo replicò subito il 3 dichiarando espressamente falsa l’accusa.
La guerra degli angioini era finita nel 1302, mentre gli effetti della rivoluzione perduravano in Italia. I guelfi pensavano, con rammarico, al sostegno che avevano perduto e tornavano ad invocare il forte braccio dei francesi che, tra l’altro, non erano piú quei tracotanti seguaci di Carlo. Col secolo XIV la rivoluzione siciliana era presso i guelfi sinonimo di èra nefasta e cercarono di giustificare la sommossa come l’opera dell’odio, dell’ingegno e dell’astuzia d’un povero esule e cioè di Giovanni da Procida.
D’altra parte il colpevole era morto da poco e intorno alla sua memoria le leggende si susseguirono sia per i suoi adulatori sia per i suoi detrattori.
E chissà che anche lui dopo avere chiesto perdono al papa, come si dice, e dopo di essere passato al servizio degli angioini in vecchiaia non si sia vantato di tali prodezze da aver fatto pensare che la Rivoluzione Siciliana sia stata opera soltanto sua.
È naturale che i compilatori delle notizie, che in un primo tempo sono state tramandate dalla voce dei contemporanei, abbiano aggiunto o modificato a loro piacimento e a seconda se di parte guelfa o ghibellina; e cosí si è scritto di un Tractatus addirittura intercorso tra Pietro d’Aragona e Michele Paleologo, al fine di togliere al Vespro il valore di una sommossa irresistibile e improvvisa del furor popolare.
I lettori si saranno accorti che non ho citato fonti storiche moderne quali il Petrarca e il Boccaccio nonché quelle francesi, una delle quali arriva a dire che i cospiratori segnarono di notte tutte le case dei francesi e l’indomani vi irruppero trucidando quanti si trovavano dentro; né l’altra che io sentivo da bambino raccontare e che cioè Giovanni da Procida fintosi pazzo andava girando per la Sicilia dicendo parole inconcludenti ai francesi mentre ai siciliani assegnava il giorno e l’ora in cui dovessero uccidere i francesi.
Ho voluto dare ai lettori una esposizione di ciò che credo sia il carattere generale della leggenda.
Spesso chi scrive la storia è costretto a indovinare il passato; spesso egli deve cavare la verità dalla bocca di colpevoli astuti, di testimoni renitenti o bugiardi; deve rinunziare a una falsa notizia o legger nero dove ad arte si è messo bianco.
La coscienza, o meglio la serietà di chi si propone di mettere in luce un fatto importante della storia deve trattenere a tempo dal dedurre soluzioni che, o per vanità campanilistica o per falso amor di patria o per curialesco sforzo di sostenere quel che si è detto una volta, fanno, in seguito, apparire bianco il nero e viceversa a forza di sofismi.
Non mi sembra mai troppo insistere sul fatto, certo come sono delle trattative intercorse tra Pietro d’Aragona e tutti coloro che ho già nominati, di quanti passi fossero stati fatti dai partigiani di Pietro in Sicilia fino al 31 marzo del 1282, poiché mi è ben chiara la verità storica che la congiura, se aveva messo radici in Sicilia, non fu causa della sommossa immediata dei palermitani.
Si potrebbe in verità domandare: dove erano i «baroni e i caporali venuti a pasquare in Palermo», dove era Alaimo da Lentini, Gualtiero da Caltagirone, Palmiero Abate, la notte del 31 marzo, quando il tumulto trionfante bandiva la repubblica sotto la protezione della Chiesa? Nei documenti del 3 aprile noi leggiamo i nomi dei capitani del popolo eletti mentre ferveva la lotta, e leggiamo i nomi dei primi coraggiosi che mossero il popolo di Corleone a sollevarsi. Di essi non si fa menzione nelle compilazioni che ci descrissero minutamente la sommossa.
Perché poi i vincitori non pensano subito di affidare al re d’Aragona la Sicilia dato che è stato loro complice e capo e l’erede diretto di Manfredi? E perché il capo della congiura avrebbe dato il segnale della rivoluzione se non era pronto, come sappiamo certamente che non lo era né lo fu prima del 3 giugno? E perché il re d’Aragona, invece di accorrere in Sicilia andò prima in Africa? Per prendersi gioco di papa Martino IV era troppo tardi.
Si dirà che lo fece per costringere i suoi soldati a seguirlo subito dopo in Sicilia, visto che la prima campagna era fallita. Ma in tale alternativa la posta in gioco sarebbe stata troppo pericolosa perché mentre egli temporeggiava, Carlo d’Angiò avrebbe potuto conquistare Messina.
Il vero perché si può trovare, senza fare il profeta del passato, quando si consideri che in principio il movimento di Sicilia fu meramente popolare e repubblicano, e che i baroni, come Alaimo da Lentini, non furono chiamati se non quando l’esercito di Carlo, raccolto sulle coste settentrionali dello stretto, fece sentire piú vivo alle popolazioni il bisogno dell’esperienza militare dei nobili (il popolo a quei tempi non era addestrato alle armi).
Ho già accennato, sulla scorta della testimonianza di Bartolomeo da Neocastro, al fatto che Messina dissentí dal proposito di dare la Sicilia a Pietro d’Aragona, come avevano pensato di fare i palermitani nella seconda metà di aprile. Possiamo prestar fede, anche se ci manca il testo di quell’opera, ai provvedimenti presi a Messina prima dell’assedio secondo quanto chiaramente accenna il Saba Malaspina.
È da supporre che il disegno di Pietro d’Aragona, di cui erano a conoscenza i fuorusciti siciliani, fosse quello di approdare ed occupare qualche porto tunisino, secondo gli accordi con quel tale Ibn Wazir e poi di dirigersi in Sicilia sbarcando improvvisamente nell’isola come avevano fatto i ghibellini nel 1267; con aiuti spagnuoli e africani.
Senonché lo scellerato bargello francese aveva provocato a sangue il focoso popolo palermitano che era insorto in quel famoso martedí di Pasqua tagliando il nodo impetuosamente, quello stesso nodo che i politici si studiavano invano di sciogliere. E non fece cosí il Balilla a Genova cinque secoli dopo? Ammettiamo anche che il popolo fu istigato, dopo il primo moto dovuto all’impeto generoso di un giovane che difendeva una donna, da quei pochi che erano a conoscenza di una congiura e che speravano negli aiuti di Pietro d’Aragona.
Scoppiata la rivoluzione, costoro sollecitarono Pietro a venire, mentre i partigiani si accrebbero in tutta l’isola nel timore di rappresaglie nemiche e mal visti dai nobili che forse non vedevano di buon occhio gli uomini nuovi che reggevano la cosa pubblica. La cosiddetta congiura si è sviluppata nell’estate del 1282 e non dal gennaio al marzo. Pietro d’Aragona non aveva mutato nulla del suo disegno nel giugno del 1282, soltanto lo eseguiva assai piú presto e piú agevolmente non dovendo spingere i siciliani alla rivolta, ma persuaderli a sostituire lui alla repubblica che frattanto avevano proclamata.
Ed ora, dopo 40 anni che si è disputato sull’argomento e che si sono pubblicati tanti nuovi documenti degli archivi di Napoli, Parigi e Barcellona, mi sia lecito concludere con le stesse parole con le quali termina il capitolo VI della prima edizione del mio libro e che è del tenore che segue:
«A Procida, alla congiura, davano alcune cronache l’onore di questa nobile riscossa; e le hanno seguite i piú, talché istorie, tragedie e romanzi d’altro non suonano ormai. Io sí il credea, finché addentrandomi nelle ricerche di queste storie, mi accorsi dell’errore. Degli autori primi di esso, pochi sono contemporanei, gli altri, qual piú qual meno, posteriori, tutti sospetti da studio di parte e vizio manifesto in alcuni fatti.
«Ma i contemporanei di testimonianza più severa, siciliani e stranieri, candidissimo alcuno, segnalato fra tutti Saba Malaspina, che fu guelfo fino al midollo, e segretario di papa Martino e informato meglio degli altri dei casi della Sicilia, dicono tutto al piú di vaghi disegni di Pietro; della cospirazione con Siciliani non fa motto, nemmeno dei congiurati riuniti in Palermo: e portano come gli insulti dei francesi in quel giorno di marzo e piú ancora la «mala signoria che sempre accora li popoli soggetti, mossero Palermo», che è la sentenza di Dante, contemporaneo, dispensatore severissimo di biasimi agli uomini stessi della sua fazione.
«Né le scomuniche e i processi dei papi, né gli atti diplomatici susseguenti contengono l’accusa che la congiura sia stata motrice immediata del Vespro; ma tutti sono d’accordo nel biasimare Pietro per aver preso il regno dalle mani dei ribelli e averli sollecitati a ciò con messaggi subito dopo la rivoluzione. Con l’autorità storica concorre la evidenza di altri fatti e cioè: che Pietro non essendo pronto è uscito dalla Spagna dopo lo scoppio della rivoluzione palermitana; che nessuno fa menzione del Procida; che nessuno dei baroni di un certo nome primeggiò nei tumulti o nei governi che ne nacquero; che la repubblica fu solennemente proclamata e mantenuta per cinque mesi e non il regno di Pietro; che i movimenti furono tutti popolari; che Pietro passò dopo tre mesi e diretto non in Sicilia ma in Africa e che soltanto per la paura del nemico (Carlo d’Angiò che assediava Messina), i baroni poterono impadronirsi dell’autorità e quindi chiamare Pietro d’Aragona.
«Da questi e da tutti gli altri particolari si deduce che la rivoluzione del Vespro non fu un movimento preparato, ma a carattere popolare, caratteristico nelle monarchie dei secoli di mezzo. Se no, baroni che congiurano con un re, e gridano repubblica; cospiratori che senza essere spinti da pericoli, danno il segno della rivolta, quando non hanno pronte le forze; fazione che vince e abbandona lo Stato ad uomini di una classe inferiore, sarebbero anomalie inesplicabili, contrarie alla natura umana, mai viste al mondo.
«A me pare si possa concludere: che Pietro macchinava, che i baroni d’accordo con lui aizzavano il popolo, ma forti non si sentirono mai e bilanciando e maturando forse non avrebbero mai fatto ciò che il popolo senza rifletterci compì in un impeto generoso. Questo popolo sapeva appunto che rimedio ai suoi mali non ce n’era che uno; esacerbata dai nuovi aggravi per l’impresa di Grecia, per i vilipendi della settimana prima di Pasqua, Droetto colmò la tazza della vendetta e l’ignoto uccisore di Droetto la riversò.
«Il popolo di Palermo, pronto di mano e d’ingegno, si lanciò in un attimo su quell’esempio, perché tutti la pensavano allo stesso modo. Quelli che capeggiarono il popolo in quell’occasione presero le redini dello Stato, lo ordinarono a Comune secondo le necessità del momento e lo tennero fino a che non si fece sentire l’influenza dei baroni e non aumentò il pericolo del comune nemico.
«Fu allora che venne instaurata la monarchia con re Pietro d’Aragona; allora soltanto, io dico, operò la congiura, ma il Vespro non c’era piú.
«Gli scrittori del reame di Napoli, dell’Italia guelfa e di Francia, dopo poco tempo confusero il Vespro con la venuta di Pietro per gettare discredito sui Siciliani, e scagionare gli angioini.
«L’ignoranza, le difficili comunicazioni, la rarità delle cronache e gli animi propensi piú al meraviglioso che al vero, diffusero l’errore, come avviene ancora oggi.
« Gli storici successivi si copiarono l’un l’altro, molti riferirono, senza impegnarsi, le opinioni sulla congiura e sulla sommossa spontanea e popolare. Tacendo degli altri, noterò come lo storico Gibbon dubitasse e soltanto perché ingannato da un anacronismo.
«Voltaire sorrise della congiura.
«Non è superbia dunque se, documentato da tutte queste fonti autorevoli, ho creduto opportuno sostenere la mia opinione.