Il protezionismo operaio/Prefazione
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PREFAZIONE
Quando, alcuni mesi sono, il signor Samuele Gompers percorse banchettando le città d’Italia, i rappresentanti e gli organi delle classi operaie, tutti occupati a dibattere la legittimità delle sue credenziali dal punto di vista della ortodossia proletaria, dimenticarono di rivolger la loro attenzione ad un problema alquanto più importante per gli interessi nazionali: quello di vedere per quali moventi di dissimulato tornaconto questo condottiero di sindacati americani avesse giudicato opportuno di recare in persona attraverso l’Oceano il saluto della fratellanza e della solidarietà ai concorrenti più temuti delle organizzazioni che lo riconoscono capo, tentando di stringer rapporti e iniziar trattative nell’ostentato intento di un vantaggio comune.
Non molto acume occorreva, a dir vero, per scoprire, sotto le abili circonlocuzioni di prodigata affabilità, le intenzioni recondite di quella ambulante propaganda; né mancaron fin da quei giorni coloro che, astraendo dalle ristrette preoccupazioni in base alle quali elevò pur qualche dubbio la partigianeria demagogica, ne scorsero e denunziarono senza ambagi il significato reale1. Ma ciò non valse ad abbassar d’una nota il calore dei brindisi salutanti, nella gioconda terra d'Italia, il passaggio dell’astuto emissario. Partito il quale nessuno si preoccupò altrimenti dei problemi che la sua venuta aveva un istante suscitati ed assorti all’onore della discussione pubblica, né vi fu chi richiamasse l’attenzione sul significativo indizio che l’evento, in apparenza trascurabile, rappresentava rispetto ad uno dei più vitali interessi della patria nostra.
La verità è che la visita amichevole del cittadino Gompers non fu se non un episodio, d’importanza per sè stesso assai limitata, della formidabile tendenza che matura oltre Oceano ai danni delle vecchie nazioni esportatrici di merce-lavoro. Ed è essenzialmente a tale titolo, come indizio cioè del fermo proposito delle classi operaie di non dar tregua alla lotta contro la mano d’opera straniera, che il fatto, troppo presto dimenticato, merita la più seria considerazione.
Non gli Stati Uniti soltanto, ma ormai quasi tutte le moderne democrazie accennano da parecchi anni a velleità schiettamente esclusivistiche; mentre non fa che crescere d’altro lato la corrente migratrice dei più umili strati delle plebi europee. Contrasto impressionante, da cui scaturirà certo uno dei più gravi problemi internazionali del domani, e che fin d’ora non può lasciar indifferente un popolo come il nostro, per il quale l’emigrazione costituirà probabilmente ancora per assai tempo un correttivo indispensabile alla esuberanza demografica, se non anche un contributo essenziale all’equilibrio economico.
Il fenomeno offre d’altronde, dal lato teorico e scientifico, dei punti di vista assai originali, rispetto alle forme, alle manifestazioni ed agli effetti di questo nuovo protezionismo; il quale, pur procedendo da forze e da moventi tanto diversi — come quello che non è, in ultima analisi, se non una manifestazione più grandiosa della tradizionale politica di limitazione della mano d’opera dell’unionismo operaio — risuscita gli impedimenti e riedifica le barriere che il vincolismo despotico del secolo XVIII aveva eretti e moltiplicati, per pregiudizi economici, gelosie di sovranità o diffidenze oscurantistiche, sul libero cammino degli emigranti.
Seduzione di indagine speculativa ed interesse vivo di questione attuale e pratica concorrono quindi nel farmi ritenere non affatto inutile uno studio del vasto movimento cui ho accennato; che si svolge, secondo i luoghi, in foggie diverse e con varia intensità, ma del quale riescirà forse istruttivo indagare, attraverso le differenti incarnazioni, i lineamenti uniformi e le impronte caratteristiche, per cercare di trarne argomento a qualche deduzione generale.
Non passa mese senza che le riviste americane ci mandino l’eco delle dotte controversie a cui il problema — tema di frequenti proposte e dibattiti nei consessi politici — da luogo altresì nelle riunioni e nelle pubblicazioni dei pit autorevoli corpi accademici. Sorge da esse e si concreta in lineamenti di giorno in giorno più precisi la fisionomia politica e giuridica di quel diritto di esclusione, che, applicato dapprima empiricamente come semplice concessione alle esigenze di partiti interni, tende gradatamente a teorizzarsi foggiandosi a sistema scientifico.
In una discussione che tocca tanto da vicino gli interessi più vital dell’espansione nostra, parmi sarebbe legittimo e altamente profittevole un più attivo intervento della scienza italiana. Ad invocare il quale, assai più che a recare all’argomento largo contributo di osservazioni originali, mirano essenzialmente queste mie modeste ed obbiettive ricerche2
Note
- ↑ Cfr. tra i più espliciti, l’Economista d’Italia, 20-21 settembre 1909.
- ↑ Mentre correggevo le ultime bozze del presente lavoro, mi giunse il volume di Emanuele Sella, La vita della ricchezza (Torino-Roma, 1910), un capitolo del quale (pag. 182-198) è dedicato alla trattazione sommaria di questo stesso tema. Dopo alcune osservazioni generali sui caratteri del fenomeno, che chiama “protezionismo demografico„ (denominazione da me pure usata in qualche caso, per la sua chiarezza sintetica, ma che forse si presta a qualche critica), l’A. ne indica succintamente le conseguenze economiche, notando come esse possano riassumersi “in un aumento del costo di trasformazione dei capitali personali nello spazio„. La conclusione, in sostanza, non differisce notevolmente da quelle a cui fanno capo le presenti indagini; nelle quali possono trovarsi pure prove molteplici dell’asserto, enunciato come fatto evidente dal Sella, circa i rapporti del protezionismo demografico col commerciale. L’assenso inatteso che mi porgono le ricerche coscienziose compiute contemporaneamente, a completa mia insaputa, dall’egregio amico, concorre a confermarmi nella accettabilità sostanziale dei risultati raggiunti dal presente studio.