Libro secondo

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John Milton - Il paradiso perduto (1667)
Traduzione dall'inglese di Lazzaro Papi (1811)
Libro secondo
Libro primo Libro terzo


Cominciatasi la consulta, Satáno discute se un’altra battaglia abbia a tentarsi per ricuperare il cielo. Alcuni sono di questo avviso, altri vi si oppongono. Si conchiude di seguire il pensiero di Satáno e ricercare la verità di quella profezia o tradizione che correva in cielo intorno ad un altro mondo e ad un’altra specie di creature poco inferiori agli Angeli, e che doveano essere create all’incirca in quel tempo. Dubbj sopra chi dovrà mandarsi alla difficile scoperta. Satáno, loro Capo, intraprende solo il viaggio, e ne riceve onori ed applausi. Sciolta l’adunanza, gli Spiriti si dividono in varie schiere, e per recare qualche sollievo ai loro mali, si danno a vari esercizj secondo le diverse loro inclinazioni, aspettando il ritorno di Satáno. Egli arriva alle porte dell’Inferno che trova chiuse e guardate da due mostri. Gli vengono finalmente aperte. Scopre il gran golfo fra l’inferno e il cielo. Con quanta difficoltà attraversa l’abisso. Il Caos, Sovrano di quel luogo, gl’indica il cammino verso il nuovo mondo, di cui va in traccia.


 
In trono eccelso che più ricco assai
Splende d’Ormus, dell’Indo e del pomposo
Orïente colà dove più spande
Su i barbarici Re l’oro e le gemme,
5Siede Satáno, a quell’altezza rea
Portato da’ suoi merti, e dallo stesso
Disperar sollevato oltre ogni speme
Più alto aspira ognor: la vana e stolta
Guerra col cielo a proseguir lo spinge
10Una superba irrequïeta brama,
E dagli eventi non istrutto ancora
Così dispiega i suoi disegni alteri:
O Principi, o Possanze, o Dei del cielo,
Poichè abisso non v’ha ch’entro i suoi golfi
15Rattener possa un immortal vigore,
Benchè scaduto, e oppresso, il ciel non stimo
Perduto io già. Spirti superni e divi,
Dal lor cader sorgendo, assai più chiari
Mostreransi e tremendi, e contro un nuovo
20Fato staranno in sè sicuri. Un giusto
Dritto e del ciel le fisse leggi in prima,
Quindi la vostra appien libera scelta
E quanto oprai col senno e colla mano
Non indegno di pregio, a me governo
25Sopra di voi già diero; e in fin di questa
Perdita stessa i danni in parte almeno
Già da me riparati, oltre ogni tema,
Oltre ogn’invidia stabilito m’hanno
Su questo soglio, a cui concorde e intero
30Il vostro assenso mi chiamò da pria.
Alto grado lassù nel bel soggiorno
Puote ai men alti esser d’invidia oggetto;
Ma qui chi un seggio agognerà che il renda
Ai colpi del Tonante il primo segno,
35Lo schermo vostro, e a maggior parte il danni
Di dolor senza fine? Ov’è sbandito
Il ben, non entra ambizïosa gara.
Saravvi alcun che a maggioranza aspiri
In questo diro abisso? A chi sì scarsa
40Pena toccò ch’altra cercar ne voglia,
Più alto onor bramando? In ferma lega
Congiunti dunque, in stabil pace e fede
Più che nel cielo esser mai possa, il nostro
A vendicar giusto retaggio antico
45Or noi torniamo, e di felici eventi
Più certi siam che se propizia ognora
Ci fosse stata la Fortuna. Or quale
Sia miglior mezzo, aperta guerra, o frode,
Cercar si dee: chi a dar consiglio basta,
50Apra, chè appien gli lice, il suo pensiero.
Disse; e Molocco alzossi, inclito Rege,
Il più feroce Spirito, il più forte
Che nel cielo pugnasse, ed or più fero
Fatto dal disperar. Ei coll’Eterno
55Aver sperava d’egual possa il vanto,
E nulla sì, di lui minor non mai
Esser volea: con tal pensiero, tutti
I suoi timor perdeo; di Dio, d’inferno
O peggio ei nulla cura, e sì favella.
60Aperta guerra è il voto mio; di frodi,
Men ch’altri in esse esperto, io non mi vanto:
Chi n’ha d’uopo, le ordisca, e quando è d’uopo:
Non ora. E che! Mentre qui lenti adunque
Van costoro macchinando arti ed inganni,
65Dovrà un popolo intier coll’armi in pugno
Il segno sospirar di sua vendetta
E del suo scampo, e qui languendo starsi
Dal ciel sbandito, fuggitivo, in questa
Obbrobrïosa fossa, in questo nero
70Carcer di quel tiranno, il qual per nostro
Indugio or regna sol? No, no: piuttosto
Di queste fiamme e di nostr’ire armati,
Scegliam di viva forza e tutti a un tempo
Del ciel sull’alte torri aprirci il varco.
75Contro il tormentator canginsi questi
Nostri tormenti in orrid’armi: egli oda
L’infernal tuono rimugghiare incontro
L’onnipossente ordigno suo; rimiri
Di questo foco i sanguinosi lampi
80Con egual furia sfolgorar sul volto
A sue schiere atterrite, e queste fiamme,
Quest’atre fiamme strane e questo zolfo
Tartareo, ond’ei medesmo è stato il fabro,
Tutto allagargli e avviluppargli il trono.
85Ardua par forse e malagevol via
Con ali erette il sollevarsi incontro
Sovrastante nemico. E chi pensarlo
Può, se non quei che istupiditi ancora
Stan dal sorso sonnifero di quella
90Obblivïosa lama? Invér la sede
Nostra nativa ci trasporta il nostro
Moto natìo: scender, cader, contrasta
A nostra essenza. E chi pur dianzi, allora
Che noi sconfitti perseguiva a tergo
95Giù per l’immenso báratro il feroce
Nostro nemico con oltraggi e scherni,
Chi nol provò? Chi non sentì con quanto
Duro sforzo, con qual lena affannata
Profondammo quaggiù? L’ascender dunque
100È agevole per noi. - Ma incerto è molto
Quel che avvenir ne può: se il più possente
Osiam di nuovo provocar, sua rabbia
Più fere guise di tormenti a nostro
Danno inventar saprà. - Ma che di peggio
105Può in inferno temersi? Ov’è di questa
Più cruda stanza? D’ogni ben noi privi,
Scacciati di lassù, dannati in questo
Abborrito Profondo a estremi guai,
Ove ci dee d’inestinguibil foco
110Lo strazio eterno esercitar, noi tristo
Bersaglio all’ira di colui, dal suo
Fischiante inesorabile flagello
E dalla tormentosa ora chiamati
A nuove pene ognor, che altro di peggio
115Temer dobbiam? L’annientamento è quanto
Aspettarci potremmo. E perciò dunque
Temerem noi tutta affrontar quant’ira
Ei serra in cor? Stolto timore! O noi
Saremo allora annichilati e spenti
120Dalla sua rabbia, e fia per noi migliore
Che in eterno dolor viver eterni;
O se divino è l’esser nostro e mai
Cessar non può, nulla perciò s’innaspra
La nostra somma inaccrescibil pena;
125E per prova sentiam che forza è in noi
Bastante a disturbar quelle celesti
Sedi e infestargli con perenni assalti,
Ancor che inaccessibile, quel suo
Trono fatal. Se non è vincer questo,
130Vendetta è almen. - Cessa, e da’ torvi lumi
Tal di vendetta e guerra un foco avventa,
Che non ne sosterrìa l’atroce vista
Chiunque è men che Nume. In gentil atto
Dall’altro canto Belïalle alzossi.
135Angel più vago da’ celesti seggi
Di lui non ruinò: splendongli in volto
Grazia e decoro, ad alte imprese adatto
Ei par, ma tutto è in lui fallace e vano.
Mele sua lingua stilla, ottima sembra
140Sulle sue labbra la ragion peggiore,
E i più saggi consigli involve e atterra:
Son bassi i suoi pensier, nel vizio è scaltro,
Ma all’opre illustri timoroso e lento;
Pur col dolce suo dir le orecchie incanta,
145E sì comincia: Esser dovrei pur io,
Campioni illustri, per l’aperta guerra,
Io che, in odio, ad altrui punto non cedo;
Se la ragion, cui sovr’ogni altra estolle
Chi guerra senza indugio a noi consiglia,
150Me più che ogni altra dall’audace avviso
Non ritraesse e sull’intero evento
Non gettasse un fatal presagio tristo.
Dunque chi più degli altri in armi vale,
Mal nell’armi fidando e male in quanto
155Ei pur consiglia, il suo coraggio fonda
Sul disperar? Dunque all’estremo nostro
Disfacimento, al nostro fin son tutte
Vôlte le mire sue, purchè si compia
Qualche fiera vendetta? Ahi! qual vendetta?
160Son le torri del ciel d’armate scolte
Ripiene, e chiusa n’è ogni via: sovente
In sulle rive del vicino abisso
Lor legïoni accampano, e sull’ali
Tacite e brune van con larghi giri
165Qua e là scorrendo il regno della notte,
E di sorprese ridonsi. E se a viva
Forza potessim’anco aprirci il varco,
E dietro noi l’intero inferno a un tempo
Sorgesse inferocito a scagliar questa
170Caligin tutta entro a quell’alma luce,
Pur sull’eterno incorruttibil trono
Il nostro gran nemico appien securo
E intatto sederìa. L’eterea tempra
Macchia temer non può di basso foco;
175Chè tosto il vince e sperde, e come in pria,
D’un fulgòre purissimo sfavilla.
In questo crudo stato, estrema nostra
Speranza è il disperar: dobbiam, si dice,
L’onnipossente vincitore a tanto
180Sdegno irritar, che la sua rabbia tutta
Su noi riversi, e ci consumi alfine:
Questo esser dee nostro disegno e cura;
Non esser più. Tristo disegno e cura!
E chi vorrà, benchè d’affanni colma,
185Questa che intende e vuol, sublime essenza,
Questi d’eternità nel giro immenso
Spazïanti pensier lasciar per sempre,
E giuso d’ogni moto e senso privo
Piombar perduto, inabissato dentro
190All’ampio sen dell’increata notte?
E sia pur questo un ben, chi sa se possa
Darloci il fier nemico, o il voglia mai?
Che il possa, è dubbio; ch’ei non voglia, è certo.
Ei saggio tanto, al suo furore il freno
195Tutto sciorrà ad un tempo e vorrà, quasi
Mal avveduto, e mal di sè signore,
Far de’ nemici suoi paghe le brame
E consumar nella sua rabbia quelli
Che la sua rabbia stessa ad infinito
200Gastigo serbar vuol? - Perchè si cessa
(Dice chi vuol la guerra)? a noi che giova
Lo star timidi e lenti? A duolo eterno
Decretati, serbati, additti omai
Noi siam: checchè si faccia, altro possiamo
205Soffrir di più, soffrir di peggio? - Adunque
Così seder, così tener consiglio,
Così lo starsi in armi è adunque il peggio?
E allor che fu, quando incalzati, quando
Da quell’atroce folgore percossi
210Fuggivam ruinosi, e questo abisso
A ricovrarci imploravamo? Allora
Contro quelle ferite un dolce asilo
Qui ci parve trovare. E quando stemmo
Là catenati su quel lago ardente,
215Peggio non era? E che sarìa se il soffio
Che quelle fiamme spaventose accese,
Destosi ancor, settemplice furore
Vi spirasse per entro e ad esse in fondo
C’immergesse dipoi? Se l’intermessa
220Vendetta colassù quella rovente
Sua destra armasse ancor? Se quanto ei serba
Riposto, sprigionasse, e questa vôlta,
Questa vôlta infernal che tien sospeso
Sul nostro capo un igneo mar, crollando
225S’aprisse un giorno, e gl’infocati fiumi
Per le tremende cateratte infrante
Su noi si rovesciassero? che fora,
Se mentre stiamo glorïosa guerra
Disegnando o esortando, orribil turbo
230Di foco ognun di noi rotasse, e in cima
D’acuto scoglio lo lasciasse infitto,
In trastullo e balía d’atre bufére?
Oppur ricinto di catene e sotto
A quel bollente Oceano eternamente
235Star dovesse sommerso in pianti e strida,
Senza pietà, riposo, o tregua mai
Al disperato interminabil duolo?
Questo inver fora il peggio! Aperta guerra
Quind’io sconsiglio al pari e guerra ascosa.
240Che può forza con lui, che può l’inganno
Con chi tutte le cose a un punto vede?
Nostri vani disegni egli dall’alto
Del ciel mira e deride; ei non men forte
Contro il poter che incontro a frode accorto.
245Ma che? vivremo in tal viltade e tanta
Noi dunque? Noi stirpe celeste e diva
Così sbanditi, calpestati e carchi
Qui sarem di catene e di tormenti?
Poichè il voler del vincitor, decreto
250Onnipossente, inevitabil fato
Sì ne soggioga, assai miglior io stimo
Questo soffrir che incontrar peggio. All’opre,
Come alle pene, è nostra forza eguale:
Che val lagnarsi? Non ingiusta è quella
255Legge che così vuol: così fu fisso,
Se noi saggi eravam, quando a contesa
Contro sì gran nemico in pria venimmo,
E così incerti dell’evento. Io rido,
Quando veggo taluni audaci e baldi
260All’impugnar dell’asta, e quando poi
Essa lor falla, raggricchiar di tema
A quel che inevitabile pur sanno,
A esiglio, a infamia, a lacci, a pena, a quanto
Dannarli goda il vincitor superbo.
265Tal’è per or la nostra sorte: un giorno,
Se soffrirla saprem, può forse il nostro
Alto nemico assai calmar suo sdegno;
Forse avverrà che assai contento alfine
Della presa vendetta, a noi sì lungi
270Da lui nè più offensori, ei più non pensi;
E se nol desta il soffio suo, s’allenti
Questo rabido foco. Allor la nostra
Più pura essenza su quest’atre vampe
Fia che s’innalzi o non le senta, avvezza;
275O alfin cangiata, e contemprata al loco
Riceverà quasi suo proprio, e scevro
Di pena, il fero ardor: per noi giocondo
Quest’orror diverrà, splendide e belle
Queste tenebre stesse. Infin, qual speme
280Dar non ci dee l’interminabil corso
Dei dì futuri, il vario caso e qualche
D’un prudente indugiar degna vicenda?
Felice dunque, ancor che dura, questa
Sorte apparir ci dee, che, sia pur dura,
285La peggior non è già, se addosso trarci
Più gravi danni non cerchiam noi stessi.
Sì con parole ch’han di ver sembianza,
Pace infingarda, ozio e torpor, non pace
Belìal consigliava; e appresso lui
290Così parlò Mammon: O a tor di soglio
Il regnator del ciel tende la nostra
Guerra, se guerra è il meglio, o i nostri dritti
Perduti a racquistare. Allor balzarlo
Dal trono sol potrem sperar che al sempre
295Volubil Caso il sempiterno Fato
Ceda, e il Caosse la contesa sciolga.
Vano è il primo sperar, vano il secondo
Quindi è pur anco: entro i confin del cielo
Qual sede aver possiam, se vinto in pria
300Il Sovrano del ciel per noi non cade?
Pongasi pur che il suo furor ei calmi
E a tutti noi, sulla promessa nostra
Di vassallaggio nuovo, egli promulghi
Grazia e perdon, deh! con qual fronte mai,
305Dite, potremo in sua presenza starci
Ad ogni cenno suo sommessi, umìli?
Al suo Nume innalzar forzate lodi?
Gorgheggiar inni a gloria sua, mentr’egli
Oggetto a noi d’amara invidia in soglio
310Con ogni pompa signoril s’asside
Re nostro, e l’ara sua d’ambrosii odori,
D’ambrosii fior, nostre servili offerte,
Soave spira? Ecco qual fora in cielo
Nostro diletto sempre e nostra cura.
315Rendere a chi si abborre eterni omaggi,
Qual trista eternità! Non cerchiam dunque
Quel che per forza cercheremmo invano,
E che in grazia ottenuto, ancor che in cielo,
Accettabil non fora, il vile stato
320Di splendido servaggio: in noi medesmi
Cerchisi il nostro bene e sia nostr’opra:
Sì, viviamo a noi stessi, entro quest’ampia
Remota sede indipendenti e sciolti,
E dura libertade al facil giogo
325Di servil pompa anteponghiam. Più chiara
Risplenderà nostra grandezza allora
Che da picciole cose uscir le grandi,
Il vantaggio dal danno, e dagli avversi.
Per noi vedransi i fortunati eventi;
330E alfin, qualunque il nostro albergo sia,
Alla grave miseria, al duro stento
La costanza, il sudor, lo sforzo opporsi
Vittorïosi, e trionfar del Fato.
Questo in cupo buior ravvolto mondo
335Paventiam noi? Ma, quanto spesso ei pure
L’alto del cielo regnator non sceglie
Sua sede in mezzo a folte oscure nubi
Senza che di sua gloria un raggio scemi?
Di maestoso tenebror non cinge
340Egli il suo trono tutt’intorno, donde
Poscia profondo in suon di rabbia mugge
Il tuon sì che un inferno il ciel rassembra?
Com’ei le nostre tenebre, ancor noi
Imitar non possiam, quando ci aggrada,
345La luce sua? Questo diserto suolo
Splendidi in sè vasti tesori asconde
Di gemme e d’oro; e di scïenza e d’arte
Noi non siam scarsi onde innalzar eccelse
Moli di Numi degne, emule al cielo.
350Cangiar questi tormenti anco può il tempo
In elementi nostri, e queste fiamme
Quant’or son crude e penetranti, allora
(Fatta la nostra alla lor tempra eguale)
Allenirsi dovranno, ed ogni senso
355Spegnersi del dolor. Tutto c’invita
A consigli di pace, e a fermi starci
Nell’ordine presente, onde possiamo
Cercare in sicurtade ai nostri mali
Il sollievo miglior, quai siam mirando
360E dove siamo, ed ogni van pensiero
Lungi cacciando di rischiosa guerra.
Ecco il consiglio mio. - Finito appena
Egli avea di parlar che tutto intorno
Per quel consesso un mormorìo si sparse,
365Come allor quando il suon de’ feri venti
Che volser tutta notte il mar sossopra,
In cave rocce romoreggia ancora;
E i marinai ch’entro petroso seno,
Calmato il nembo, s’ancoraro a caso
370Da lunga veglia e da fatica oppressi
Col rauco borbottar al sonno invita.
Tal fu l’applauso, il bisbigliar fu tale
Quand’ei finì: piacque il suo voto a tutti
Di pace consiglier; chè un’altra pugna
375Temean più dell’inferno; a lor nel seno
Tanto tuttor del folgore, e del brando
Di Michele potea l’alto spavento,
E la brama non men di por laggiuso
Le basi a impero tal che poscia un giorno,
380Da forti leggi sostenuto, sorga
Sì che n’abbia anco il cielo invidia e tema!
Tosto che Belzebù quei plausi udìo,
Belzebù, di cui niun (tranne Satáno)
Più sublime sedea, con grave aspetto
385Surse, e di stato una colonna parve.
Pubblica cura, alti pensier maturi
Ha in fronte impressi, gli risplende in volto,
Nella ruina maestoso ancora,
Regal consiglio, e a sostener la mole
390Dei più possenti imperi atto si mostra
Su gli omeri atlantèi. Qual cheta notte,
O l’aere immoto di meriggio estivo,
Profondamente taciti ed attenti
Tutti pendean dal labbro suo, quand’egli
395Così comincia: O degli eterei seggi
Prenci, Possanze, Re, Figli del cielo,
Di questi eccelsi titoli il rifiuto
Dobbiam far dunque, e invece esser nomati
Prenci d’Abisso? A questo invero inchina
400Il voto popolar: qui ferma sede
Stabilir vuolsi, qui fondare un vasto
Crescente impero: o cieche menti! o sogni
Torbidi e vani! E che? sicuro asilo
Dalla sua man fulminatrice è questo
405Carcere adunque, a cui quel Dio possente
Ci condannò? Solo ei quaggiù ne spinse
Perchè viviam dall’alta sua ragione
Liberi e sciolti, e in nova lega uniti
Ci rivolgiam contro il suo trono? Adunque
410Vero non è che in duro aspro servaggio
Dobbiam qui sempre starci, e benchè tanto
Lungi da lui, col freno in bocca ognora,
Folla di schiavi a’ cenni suoi serbata?
Ah! ch’ei primiero, egli ultimo, nell’alte
415Sedi e nelle profonde, a me credete,
Esser vuol solo regnator, nè mai
Perder del regno suo minima parte
Pel nostro ribellar. Ei sull’inferno,
Sopra di noi stender suo ferreo scettro
420Vuol, come l’aureo suo lassuso in cielo
Sopra i Celesti. A che seggiam qui dunque
Pace e guerra librando? Il nostro fato
Già la guerra fermò, già ci percosse
D’irreparabil danno: e patto alcuno
425Non fu di pace ancor concesso o cerco:
Poichè qual pace o patto aver possiamo
Dal duro vincitor noi schiavi omai,
Fuorchè catene e stretta guardia ed aspri
Flagelli e quali imporre e quante pene
430Ad esso piaccia? E ch’altro aver da noi
In cambio ei può fuorchè ostinato, fero
Abborrimento e sempre accesa brama
D’una qualche vendetta, ancor che tarda,
Pur sempre intenta ad iscemargli il frutto
435Di sue vittorie e quella gioia cruda
Ch’ei sente in aggravar le nostre pene?
Tempo più adatto a nostre mire, e un qualche
Destro non mancherà; nè mover l’armi
Dovrem con tanto rischio incontro al cielo
440Di cui l’eccelse mura assalto, agguato
O assedio di quaggiù temer non ponno.
Che! qualch’altra per noi men dura impresa
Dunque non vi sarà? Sì; se l’antica
E profetica in ciel fama non erra,
445Un loco v’è, v’è un altro mondo, in cui
Avrà felice sede un’altra nuova
Stirpe ch’Uomo dirassi. Ella creata
Intorno a questo tempo esser dovea,
Simile a noi, di noi però minore
450In nobiltate e in possa, e pur a lui
Che lassù regna, più gradita e cara.
Tale il decreto fu che in mezzo ai Numi
Ei proferì, ch’ei confermò coll’alto
Suo giuramento, a cui del ciel l’immenso
455Girò crollò. Là si rivolgan tutti
I pensier nostri, ivi s’apprenda quale
Schiatta v’abbia soggiorno, e di qual tempra,
Di qual natura; quai sue doti, e quale
Sia la sua possa, da qual parte meglio
460Assalir si potrà, se forza o inganno
Più con lei vaglia. Benchè il ciel sia chiuso
E quel supremo Re segga sicuro
In sua possanza, tuttavia quel sito,
Confine estremo del suo regno, forse
465Aperto stassi, e di chi ’l tien, lasciato
Alla difesa: qualche illustre prova
Compier colà con improvviso assalto
Forse potrem, quanto creovvi appieno
Con queste fiamme esterminare o il tutto
470Far nostro, e come noi cacciati fummo,
Indi que’ fiacchi abitatori e imbelli
Metter in bando, o a nostra parte trarli
Sì che il medesmo lor Fattor si cangi
In lor nimico, e con pentita mano
475Il suo proprio lavor cancelli e strugga.
Non sarìa questa, no, vulgar vendetta,
Se di turbargli quel piacer ch’ei prende
Nel nostro scorno ci avvenisse: e quale
Fia nostra gioia in rimirar sua rabbia,
480Quand’ei, quaggiù fra noi scagliati i cari
Suoi figli, udralli maledir la frale
Origin loro, il lor svanito bene,
E svanito sì tosto! Or voi librate
Se di noi degna è tale impresa, o meglio
485Sia qui sedersi in quest’orror, sognando
E fabbricando imperj. - In cotal guisa
Espose Belzebù quel da Satáno
Già divisato e già proposto in parte
Infernale consiglio: e donde, fuori
490Che dal solo Satán, dal sole autore
Di tutti i mali, sì profonda e nera
Nequizia uscir potea? d’infettar tutta
L’umana stirpe in sua radice e ad onta
Del Creator sovrano, inferno e terra
495Mescer insiem? Ma far più bella solo
La gloria dell’Eterno, altro non puote
Il suo dispetto. Quel disegno audace
Piacque altamente all’infernal Consesso;
Gioia scintilla ne’ lor occhi e a pieni
500Voti l’assenso è dato. Allor ripiglia
Così a dir Belzebù: Saggio decreto,
Dopo lunga contesa, è il vostro alfine,
O Concilio di Numi, e di voi degne
Risolveste gran cose: in onta al Fato
505Dal più cupo Profondo anco una volta
Appresso al nostro almo soggiorno antico
Noi leveremci ed alla vista forse
Di quei confini luminosi, donde,
Tempo cogliendo alle sorprese adatto
510Colle propinque nostre forze, in cielo
Rïentrar potrem forse, o albergo e stanza
Trovar sicuri in qualche ameno sito
Ove del ciel si stenda il dolce lume,
Ed a quel puro sfavillante raggio
515Terger da noi questa caligin atra.
Quella delizïosa aura soave,
Col soffio suo balsamico, le crude
Di questo foco e ancor non chiuse piaghe
Temprerà, salderà. Ma dite in prima:
520A ricercar questo novello mondo
Chi di noi spedirem? Con piè rammingo
Il negro, immenso e senza fondo abisso
Chi tenterà? chi l’aspra, ignota via
Per quella troverà palpabil notte,
525Ed il sublime sterminato volo
Fia che con ala infaticabil sopra
Al discosceso baratro distenda
Pria ch’alla fortunata isola arrive?
Qual sarà mai da tanto o forza od arte
530Che salvo il meni per le caute scolte,
Pe’ fitti posti d’Angeli veglianti
Per tutt’intorno? Egli avrà là ben d’uopo
D’ogni accortezza, e minor uopo or noi
Non ne abbiam nello scerlo: il peso in lui
535Di tutto è posto e la final speranza.
Ciò detto, ei siede, e con sospesi sguardi
Rivolti in giro, se alcun sorga, attende,
Per oppugnar la perigliosa prova,
Per secondarla o imprenderla; ma tutti
540Si stetter muti con pensier profondo
Librando il rischio, e l’un dell’altro in faccia,
La propria tema attonito leggea.
Niun fu tra quei della celeste guerra
Primi e scelti campioni audace tanto
545Che a quel vïaggio spaventoso osasse
Offrirsi od accettarlo. Alfin Satáno
Che il proprio merto sente e va superbo
De’ primi onori, con reale orgoglio
Surse intrepido, e disse: O empirei Troni,
550O progenie del ciel, ben a ragione,
Ancorchè in noi l’usato ardir non manchi,
Profondamente taciti e sospesi
Stemmo finor: lungo è il cammino e duro
Dall’Erebo alla luce, e saldo invero
555È questo nostro carcere: di foco
Orribil vallo nove volte intorno
N’accerchia e serra, e contro noi sbarrate
Roventi porte d’adamante stanno.
Varcate queste, se alcun mai le varca,
560Ecco spalanca sue tremende gole
Il golfo della Notte, il Vôto immenso,
Muto regno del nulla, il qual minaccia
Spegnerlo e tranghiottirlo entro la sua
Sempiterna caligine profonda;
565E se indi salvo in altro mondo o spiaggia
Ignota egli esce, nuovi rischi ignoti
Gli restan sempre, e non men arduo scampo.
Ma ben sarei di questo trono indegno
E di questo sovrano eccelso grado
570Cinto di gloria e di possanza armato,
Se cosa qui proposta e al comun bene
Utile giudicata, unqua potesse
Sotto aspetto di rischio o di fatica
Me dalla prova spaventar. Se queste
575Reali insegne io vesto e non ricuso
Di qui regnare, tanta parte ai rischi
Quanta agli onori io ricusar potrei?
L’una e l’altra a chi regna è al par dovuta;
E il periglio maggior dritto è che s’abbia
580Quei che sugli altri più onorato siede.
Itene dunque, incliti Eroi, terrore
Del cielo ancor nella ruina vostra,
Itene, e quanto più soffribil possa
Render l’inferno, infin che nostro albergo
585Esser pur dee questa città dolente,
Volgetevi a cercar; tentate il modo
Onde si disacerbi o inganni almeno
La nostra angoscia; vigilate attenti
Contro vigil nemico, infin ch’io fuori
590Tutte le buie piagge andrò spïando
Della distruzïone e a tutti noi
Procacciando uno scampo. Addio: con meco
Niuno esser dee di questa impresa a parte.
Così dicendo, egli levossi, e ogni altro
595Dal più parlar cauto prevenne. Ei teme
Ch’altri or commossi dall’esempio ardito
E certi d’un rifiuto, all’alto onore
S’offran d’un rischio sì temuto in pria,
E, quali emuli suoi, la gloria e ’l vanto,
600Onde a sì gran cimento egli s’espone,
S’usurpin di leggier. Ma quei non meno
Il periglio temean che di sua voce
Il severo divieto, e in un s’alzaro.
Il rumor del lor sorgere parea
605Tuon che da lungi s’oda. Umili ad esso
E riverenti inchinansi; qual Nume
Al sommo Nume egual l’esaltan tutti;
E ’l suo gran cor ch’ave la propria a vile
Per la comun salute, ognun estolle,
610Ognun ammira: chè l’idea pur anco
Fra que’ malvagi di virtù si serba;
Onde sue gesta glorïose apprenda
L’uomo superbo a vantar men, che figlie,
Sotto manto di zel, sono sovente
615Di vana ambizïon, di cieco orgoglio.
Così quella dubbiosa atra consulta
Recaro a fine, baldanzosi e lieti
Pel forte loro incomparabil Duce.
Sì qualor dorme in sue spelonche Borea,
620E da’ gioghi de’ monti atre sollevansi
Nubi che tutta la ridente faccia
Del ciel coprendo folta pioggia e grandine
Sovra la terra intenebrata spandono,
Se con un dolce addio stende il suo raggio
625Il sol cadente, i campi si ravvivano,
Ai dolci canti gli augelletti tornano,
E coi belati la lor gioja mostrano,
Le mandre, ond’alto e monti e valli echeggiano.
O vitupèro de’ mortali! Insieme
630Quei Spirti rei mutua concordia annoda;
L’uom solo è all’uom nemico, ed osa poi
Del celeste favor nudrir la speme.
Dio la pace alto grida, e guerra e morte
Gridan di rabbia e di vendetta ciechi
635I feroci mortali, e del lor sangue
Spargon la trista desolata terra;
Come se quell’inferna oste che intenta
Sta dì e notte a’ lor danni, e l’ire folli
Compor dovrebbe in alma pace, assai
640De’ mali lor non aggravasse il peso.
Così fu sciolto il parlamento, e fuori
Del superbo edificio i Grandi tutti
In bell’ordine usciro. Ad essi in mezzo,
Con pompa augusta che del cielo in parte
645La maestade imita, il Sir possente
Viene, e non men che imperador temuto
De’ tenebrosi regni, ei solo appare
Gran rivale del Cielo: intorno il cinge
Con raggianti bandiere ed orrid’armi
650D’ardenti Serafini un folto stuolo.
Quindi, che il fin di quel consesso e ’l grande
Evento si promulghi al regal suono
Di trombe, ordin fu dato: ai quattro venti
Quattro leggieri Cherubini a un punto,
655Gli squillanti oricalchi a bocca posti,
Ne diero il segno, a cui seguì la voce
Degli Araldi solenne: il cavo abisso
Tutto rimbomba, e tutta l’oste inferna
Con alto plauso intronator risponde.
660Quindi men triste in core, e da superba
Fallace speme sollevate alquanto,
Disbandansi le schiere, e ognun, siccome
Proprio talento o trista scelta il guida,
Là volge i passi erranti ove più spera
665Ingannar l’ore dolorose e qualche
Tregua trovar alle inquïete cure,
Finchè rieda il gran Duce. Altri sul piano,
Altri per l’aere in sulle forti penne
Gareggiano fra loro al corso, al volo,
670Qual già soleano degli Olimpj ludi
O de’ Pizi i campioni. Ignei corsieri
Frenan taluni o schivano la meta
Colle rapide rote: altri dispone
Schiere e falangi ad ordinata pugna;
675Come allor quando nei turbati campi
Dell’etra, ad ammonir città superbe,
Appar di guerra portentoso appresto,
E fra le nubi l’un dell’altro a fronte
Due minaccianti eserciti si stanno,
680Vansi prima ad urtar con lancie in resta
Gli aerei cavalieri; indi s’avventa
L’un’oste all’altra in folta mischia e tutto
D’orrendi scontri, dall’un polo all’altro,
Il firmamento romoreggia e avvampa.
685Con gigantéo furor altri più felli
Squarcian rupi e montagne, e van su i nembi
Quell’aër nero trascorrendo: tanto
Fragore appena il vasto abisso cape.
Così d’Ecalia vincitor tornando
690Ercol sentì del feral manto il tosco,
E da rabbioso duol spinto divelse
Dell’Eta i pini e nell’Euboico mare
Lica scagliò dall’alta vetta. Alcuni
Ch’han men fero talento, aman raccolti
695Entro riposta valle, in man di nuovo
Prender le cetre, e con divini accenti
Le lor proprie cantare eroiche gesta,
La gran battaglia e l’infelice evento;
E accusano il Destin che al giogo indegno
700Della Fortuna e della Forza avvinca
Il coraggio e ’l valor. Eran lor versi
Superbi e vani, ma le dive note
(Tanta è la possa del celeste canto!)
Calman l’inferno, e l’affollata turba
705Tengon assorta in estasi profonda.
Altri, d’un ermo colle in vetta assisi,
In sublimi colloquj assai più dolci
D’ogni armonìa (chè questa i sensi alletta,
Quelli scendono nel cor) consuman l’ore;
710E con alto pensar le arcane vie
Cercan scoprir di Dio, l’ordine eterno,
La prescïenza sua, l’immobil fato,
Il libero voler: per ciechi errando
Laberinti così, tentano invano
715Di sempre nuovi dubbj il groppo sciorre.
Di lungo argomentar scabro subietto
Lor porgon quindi la cagione oscura
Del ben, del mal, la misera, e beata
Eternità, dell’alma i ciechi moti,
720La piena requie lor, la gloria, e l’onta;
Inutile saper, fumosa e vana
Filosofia delle superbe menti!
Pur tessere a lor pene un dolce inganno
Così potean, o in sen destar fallace
725Speme, o di dura sofferenza armarlo
Qual di triplice smalto. In grosse schiere
Pel disperato mondo altri sen vanno
A spïar lunge intrepidi se qualche
Men duro clima e men dolente stanza
730Ponno trovar. Per quattro vie diverse
Drizzano il corso lor lungo le ripe
De’ quattro fiumi che nell’igneo lago
Sgorgan acque angosciose; il crudo Stige
Ch’odio esala; Acheronte atro e profondo
735Che gonfi di dolore i flutti volve;
Cocito che di mezzo a’ gorghi suoi
Manda gemiti e strida ond’ebbe il nome;
E Flegetonte che fremendo aggira
Di fiamma e foco rapidissim’onde
740Rabbia spiranti. Il lento e cheto Lete
Lungi da questi in tortuosi giri
Move il torpido umor, del qual chi bee,
Ogni memoria de’ trascorsi tempi
E di se stesso e gioie e affanni obblìa.
745Diserto, oscuro un agghiacciato mondo
Giace al di là, da turbini sonanti
E da sassosa grandine percosso
Eternamente: sulla salda terra
Non si scioglie essa mai, ma in rupi ed alpi
750S’alza ed ammonta che d’antiche moli
Rassembran le ruine: il resto è tutto
Di gelo e neve altissimo baràtro,
Simile a quello che fra ’l Casio antico
S’apre e Damiata, e che fu già d’intere
755Osti la tomba. Ivi l’acuto ed aspro
Aere brucia agghiacciando, e il gel del foco
Ha un effetto medesmo: ivi, ad un certo
Rivolger d’anni, strascinata tutta
Da Furie ch’han d’arpie gli unghiuti piedi
760È dei dannati l’empia folla, ed ivi
Dei feri Estremi la vicenda cruda
Che più feri gli fa, soffre sommersa.
Colà dai letti di rabbioso foco
Vanno a languir nello stridente ghiado,
765Finchè ogni stilla di calor sia spenta,
Irti, confitti, assiderati, immoti;
E risospinti nelle vive fiamme
Indi son poi. Sulla Letéa palude,
Per maggior cruccio lor, tornano e vanno,
770E si struggon, si sforzano passando
Giugner l’acqua bramata, e con un leve
Sorso ogni pena lor spegner repente;
Ansanti già sporgonvi il labbro; invano:
S’oppone il Fato, co’ terrori suoi
775Gorgone truculenta il guado cinge,
E d’esser tocca da vivente labbro
Disdegna, e fugge per se stessa l’onda
Come favoleggiâr profane Muse
Che da’ Tantalei labbri un dì fuggisse.
780Così rinfuse, in via smarrite, incerte
Van quelle torme errando, e di spavento
Tremanti, smorte, con travolte luci
Or per la prima volta appien l’orrore
Veggono di lor sorte: in parte alcuna
785Non trovano riposo, e duol per tutto.
Per molte buie spaventose valli,
Per molti atroci regni elle passaro,
Per molte alpi gelate e molte ardenti,
E per rocce, antri, laghi e gorghi e tane
790E ferali ombre; per un mondo intero
Di ruina e di morte, odio di Dio
Che sì reo lo creò con sua tremenda
Parola imprecatrice, adatta sede
Del mal soltanto, ove ogni vita more
795E sol vive la morte, ove di quanto
Colà produce la natura stessa
Inorridisce: i mostri ivi son tutti,
Tutti i prodigi abbominandi, a cui
Fra di noi manca il nome, assai più orrendi
800Di quante mai la favella o ’l terrore
Anguicrinite imaginò Gorgóni,
Settemplici Idre, e triplici Chimere.
Fervido il cor, pieno la mente intanto
De’ suoi disegni audaci il gran nemico
805Degli uomini e di Dio, Satán dispiega
Sulle rapide penne il vol solingo
Vêr le porte d’Inferno. Egli or la manca
Scorre or la destra costa, or colle tese
Ali rade il Profondo, ora sublime
810All’ignea vôlta s’erge. In simil guisa,
Là dove il sol le notti ai giorni agguaglia
E riconduce i regolari venti,
Ampio navilio, a cui gravò Bengala
O Ternate e Tidore il sen di ricche
815Merci odorose, da lontan sul vasto
Etïopico mare invér l’estremo
Africo Capo veleggiar si scopre,
E par che dentro i gonfi immensi flutti
Or tutto s’innabissi, or d’essi in cima
820Vada a toccar le nubi. Avea da lunge
Cotal sembianza il volator Nemico.
Alfine alzate dal profondo abisso
Fino all’orrida vôlta, ecco d’inferno
Appaiono le mura e le tre volte
825Triplicate sue porte: eran di bronzo
Tre, tre di ferro e tre d’adamantino
Impenetrabil masso, e il foco eterno
Le fascia, le arroventa e nulla rode.
Stan due mostri terribili davanti
830A ciascun lato delle porte: un d’essi
Infino al cinto vaga donna appare;
Ma poi con molte spire in vasto, immondo
A finir va scaglioso atro serpente
Di letal punta armato: al sen di lei
835Intorno, intorno un ululo, un fracasso
Fan con cerberee spalancate gole
Inferni cani, alto, incessante; e dove
Sia quel gridar turbato, a voglia loro
Le s’acquattan nel ventre, ov’hanno il covo;
840E là non visti i lor latrati ed urli
Seguon pur sempre. Erano assai men feri
Que’ truci cani che di Scilla un giorno
Feron scempio in quel mar che dal sonante
Trinacrio lido la Calabria parte;
845Nè più deformi mostri e più nefandi
Seguon giammai notturna Maga allora
Che in segreto chiamata e lunge il sangue
Fiutando de’ fanciulli, in groppa assisa
Degli aerei cavalli a danzar vola
850Fra le Lappone streghe, e a’ loro incanti
La Luna intanto in ciel langue e s’oscura.
Quell’altra forma, se tal nome darsi
Pur puote a ciò che non ha forma alcuna
Distinta in membro od in giuntura, un cieco
855Torbo Fantasma che sustanza ed ombra
A un tempo stesso rassomiglia, stava
Nera qual densa notte, a par di dieci
Furie crudel, come l’inferno orrenda,
E un fier dardo brandía: quel ch’esser fronte
860In lei pareva, di regal corona
Avea sopra un’imago. Ad essa innanzi
Già sta Satán: quel mostro allor repente
Dal suo seggio vèr lui s’alza e si slancia
Con lunghi passi spaventosi: tutto
865Tremò a que’ passi l’Erebo. Satáno
Intrepido ammirò quel che ciò fosse,
Ammirò, non temè, Satán, cui nulla
(Tranne l’Eterno) è a spaventar bastante,
Ma a scherno prende ogni creata cosa;
870E a lui con torvo lampeggiante sguardo
Sì prese a dir: Chi sei? Che vuoi? tremendo
Spettro ma non a me. Chi sei che innanzi
Osi a me farti e attraversarmi il passo
Di quelle porte? Io di varcarle intendo,
875E a tuo dispetto varcherolle. Arrétrati,
Scostati, o questo braccio appien mostrarti
Saprà la tua follìa: vedrai per prova
Figlio d’inferno, se tu dèi con Spirti
Del cielo contrastar. E tu, di’, chi sei?
880(Feroce quello spettro a lui risponde).
Quell’Angelo fellon non se’ tu forse
Che pace e fede invïolate in pria
Ruppe primo lassù? Quegli non sei
Che de’ figli del ciel la terza parte
885Cinta di ribellanti armi superbe
Teco traesti dall’Eterno a fronte,
Ond’ei te poscia e la tua torma rea
Dall’Empireo sbalzando, in questi abissi
Eterni giorni di miseria e duolo
890A consumar dannovvi? e tu t’ascrivi
Fra gli Spirti del ciel, tu qui proscritto,
Traditor empio? tu minacce ed onte
Respiri ov’io do leggi, e dove io sono
Per tua rabbia maggior, tuo Rege e donno?
895Va, disertor mendace, al tuo gastigo
Ritorna, ed ali alla tua fuga aggiungi,
O con flagello di aggroppati scorpi,
Se indugi ancor, t’incalzo, e strano orrore
Ti fo provar con questo dardo e ambasce
900Non pria sentite. Così disse il truce
Irritato Fantasma, e sì parlando
E minacciando, dieci volte fessi
Più spaventoso e squallido. Satáno
Imperterrito stette e d’alto sdegno
905Tutto avvampò: per l’iperboreo cielo
Arde men tetra un feral cometa
Che il vasto Ofiuco in sua lunghezza infiamma,
E dal sanguigno crin su gli atterriti
Mortali scuote pestilenza e guerra.
910Ciascun di lor la fatal mira prende
Dell’altro al capo, e d’un secondo colpo
Non fan pensier: ne’ tenebrosi e biechi
Sguardi rassembran due di lampi e tuoni
Gravide nubi che sul Caspio mare
915S’avanzan negre, romorose e a fronte
Pendon l’una dell’altra infin che i venti.
Dien lor col soffio di cozzarsi il segno
A mezzo l’aere. A que’ sembianti arcigni
Crebbe la notte dell’abisso: eguale
920È il paragon, nè alcun di lor sì grande
Nemico incontra è per aver più mai,
Fuorchè sol uno, onde fien domi entrambi.
Già i lor gran colpi rintronato tutto
L’inferno avrìan, quando l’anguinea Maga
925Che alla porta infernal sedeasi accanto
E custodíane la gran chiave, a un tratto
Surse, e fra lor con alto urlo lanciossi;
E, Padre, ella gridò, che tenti incontro
Quest’unica tua prole, e te, che germe
930Se’ d’ambo noi, qual furor cieco assale,
E quel dardo feral contro il paterno
Capo ti spinge ad avventar? Ah! sai,
Sai tu almeno per chi? Per lui che ride
Lassù nel cielo a’ vostri sdegni intanto,
935E destinato esecutore e servo
T’ha di quell’ira ch’ei giustizia appella,
Dell’ira sua per cui distrutti entrambi
Sarete un giorno. Ella sì disse, e ’l colpo
L’infernal peste a quel parlar rattenne.
940Satán replica allor: Qual strano grido
E quai più strani detti or furo i tuoi?
Chi sei? rispondi (il mio furor sospendo),
Chi se’ tu, strana doppia forma? E come
La prima volta ch’io t’incontro in questa
945Valle d’abisso, me tuo padre appelli?
E com’è prole mia quella deforme
Larva? Io te non conosco, e d’ambo voi
Non vidi mai più abbominosi oggetti.
Dunque scordato m’hai così, soggiunse
950Allor l’inferna Usciera, e agli occhi tuoi
Tanto deforme or sembro, io che sì bella
Comparvi in ciel? Recati a mente quando
Lassù nel mezzo alle falangi tutte
Che incontro a quel Sovrano in lega audace
955S’unir con te, da fiero duol repente
Fosti assalito; in tenebre nuotaro
I foschi lumi tuoi, t’uscir di fronte
Dense e rapide fiamme, al manco lato
Quindi il tuo capo largamente aprissi,
960E a te simil nel rifulgente aspetto,
Alma beltà celeste, armata Diva,
Io fuori ne balzai. Tutti stupiro,
Inorridiro a quella vista e indietro
Si trassero da pria, m’ebbero tutti
965Qual portentoso segno, e tutti il nome
Mi dier di Colpa: a riguardarmi quindi
S’adusaron bentosto, e i vezzi miei
Fèr de’ più schivi cor dolce rapina.
Più che ad altri, a te piacqui: e tu mirando
970Sovente in me la tua medesma imago,
D’amor ardesti, e tal piacer di furto
Prendesti meco, che un crescente pondo
Il mio sen concepì. La guerra intanto
In ciel s’accese e si pugnò: restonne
975(E ch’altro esser potea?) vittoria piena
Al nostro gran nemico e in fiera rotta
Tutti andarono i nostri, in questo fondo
Dal sommo ciel precipitati, e insieme
Io pur caddi cogli altri. In mano allora
980Questa data mi fu possente chiave,
E di sempre tener guardate e chiuse
Queste porte fatali ebbi l’incarco,
Chè, s’io non le disserro, alcun non passa.
Pensosa e sola io qui sedea, nè lungo
985Tempo sedei che il mio per te pregnante
Grembo in ampio volume omai cresciuto
Dentro sentissi portentosi moti
E acerbe doglie. Questa trista prole
Che vedi or qui, questo tuo germe, alfine
990S’aperse il passo fuor per le squarciate
Viscere mie che duolo e orror distorse
Sì, che, qual miri, sfigurata tutta
Ne fu mia forma inferïor; ma questo
Innato mio nemico, uscito appena,
995Lo struggitor brandì fatal suo dardo.
Spaventata io fuggii gridando, Morte!
Tremò tutto l’Inferno al nome orrendo,
E da tutte mandò le sue caverne
Gemiti ed ululati, e morte! morte!
1000Ripetè l’eco in ogni lato. Io fuggo,
Egli m’insegue, e di lascivia ardente
Par più che di furor: di me più ratto
M’aggiugne alfine e di sforzati amplessi
E laidi me sua sbigottita madre
1005Circonda e stringe: indi son nati questi
Urlanti mostri che mi stanno intorno,
Come or vedesti, con perpetuo grido,
Ognor concetti e riprodotti ognora
Con mio duolo infinito: entro quel seno
1010Ond’ebber vita, a grado lor di nuovo
Tornano, addoppian gli urli e pasto fanno
Delle viscere mie: riscoppian quindi
E con fredde paure e strazj alterni
Non cessano infierir sì, che un istante
1015Posa o tregua non ho. Quest’altro in faccia
Mostro arcigno mi sta, nemico a un tempo
E figlio mio, che me gli adizza incontro,
E per difetto d’altra preda, ad ora
Ad ora in me medesma anco la cupa
1020Sua fame volgería, ma sa che unito
È il mio destino al suo, che amaro pasto,
Se ciò tentasse, e suo veleno io fora,
E che del Fato è tal l’immobil legge.
Ma tu quel feral telo evita, o Padre,
1025(Io te n’avverto) e di codeste cinto,
Benchè temprate in cielo, armi lucenti,
Non sperarti securo: a’ colpi suoi,
Tranne chi lassù regna, alcun non regge.
Scaltro Satán quel che di far gli è d’uopo
1030Ha scorto già, già l’ira ha spenta e dolce
Così risponde: Poichè me tuo padre,
O cara figlia, riconosci, e questa
Mia prole a me presenti, amato pegno
Di que’ diletti che già teco io presi
1035Nel ciel, sì dolci allora, or tanto acerbi
A ricordarsi in quest’orribil nostro
Cangiamento impensato, io, qual nemico,
Sappi che qui non vengo. A trar da questo
Fero albergo d’angosce entrambi voi
1040E tutte insiem quelle celesti squadre
Che sursero coll’armi alla difesa
De’ nostri giusti dritti e in questi abissi
Fur con noi spinte, io vengo. Io sol per loro
Calco quest’aspra via, solo per tutti
1045Spiando vo l’interminato abisso,
E per l’immenso Vôto un luogo io cerco
Che già predetto fu, che già creato
Esser dovrìa (se i concorrenti segni
Non son fallaci), fortunato albergo
1050Non lontano dal ciel, rotondo e vasto,
Ove di nuovi abitator locata
Una stirpe esser dee che forse un giorno
I nostri occuperà vacanti seggi.
Quel Dio che la creò, lungi per ora
1055La vuol da sè, forse temendo in cielo
Novelle trame, ov’ei lassù raccolga
Popol soverchio. Or questo siasi, od altro
Più ascoso, il suo consiglio, io là m’affretto
A scoprir meglio il tutto, indi qui riedo,
1060Ed ambo là vi scorgo ov’ampio e lieto
Soggiorno avrete e sulle tacit’ali
Quel puro scorrerete aere soave
Di grati odor sempre olezzante: appieno
Le vostre brame ivi fien sazie e tutto
1065Vostra preda sarà. Satán sì disse,
E udendo Morte che satolla fora
Sua lunga fame, con orribil ghigno
Digrignò le mascelle, e col rabbioso
Suo ventre s’allegrò serbato a tanta
1070Ventura alfin. Non men gioì la rea
Sua genitrice ed a Satán rispose:
Per dritto io serbo e per sovran comando
Del Re de’ cieli onnipossente questa
Chiave infernale: è legge sua ch’io mai
1075Queste non schiuda adamantine porte,
E contro ogni poter sta Morte in pronto
Quel suo dardo a frappor che nulla teme
E tutta abbatte quanta forza vive.
Ma che mi stringe mai gli ordin superni
1080Di lui che m’odia ad eseguir, di lui
Che in questo mi gittò tartareo fondo,
Che a me del cielo abitatrice e nata
In ciel commise l’abborrito incarco
Di qui seder fra eterno duol, qui sempre
1085Cinta dagli urli e dai terror di questa
Mia prole stessa che di me si pasce?
Mio genitor tu sei, questa mia vita
Ell’è tuo dono: e chi obbedir, chi deggio
Seguire altri che te? Dietro i tuoi passi
1090Sarò lassù bentosto, in quel di luce
E di felicità novello mondo,
Fra que’ beati Numi, ed ivi, come
Conviensi a tua diletta unica figlia,
Regnerò alla tua destra, e i giorni miei
1095Trapasserò d’eterna gioia in grembo.
In così dir, da lato ella si tolse
La fatal chiave, orribile strumento
D’ogni nostra sciagura, e vèr la porta,
L’atra divincolando anguinea coda,
1100Si strascinò. Senza niun sforzo ell’alza
La gran saracinesca, a tutte insieme
Le stigie braccia immobil pondo; spinge
Quindi e raggira la dentata chiave
Per gl’intricati ingegni, e le massicce
1105Sbarre di solidissimo adamante
Squassa e rimove: con discorde scroscio
Furïose balzâr le porte addietro
Spalancate, e scoppiò, ruggì sì forte
Dai cardini sonanti un tuon che tutto
1110Scosse il tartareo fondo. Ella le aperse,
Ma il riserrarle ogni sua forza eccede;
E spalancate si restaro. Un vasto
esercito per esse avrìa potuto
Passar di fronte con spiegate corna,
1115Cavalli e carri; e come dalla bocca
D’avvampante fornace, entro il gran Vano
Sgorgaro a un tratto vortici e torrenti
Di fumo e fiamme rosseggianti. Aperti
Or del Profondo antico ecco i segreti
1120Alla lor vista. Un Oceán si stende,
Per ogni parte, tenebroso, informe
Ch’ogni confine, ogni misura inghiotte,
Dove profondità, lunghezza, ampiezza
E tempo e loco s’inabissa e perde.
1125Ivi il Caosse e la vetusta Notte,
Della Natura antecessori, eterna
Mantengon la discordia, e d’incessanti
Guerre tra l’urto e lo scompiglio è posto
Il lor poter. Quattro Campion feroci,
1130L’Umido, il Secco, il Caldo, il Freddo insieme
Là contendon d’impero, ed alla pugna
Traggon gli atomi loro informi, erranti.
In varie torme a’ lor vessilli intorno
S’aggiran questi, lisci, acuti, lievi,
1135Gravi, lenti, veloci, e in densi nembi
S’incalzano, si serrano, più spessi
Di quelle arene che per l’arse spiagge
Di Barca o di Cirene alzano i venti
In turbinose nuvole nemiche,
1140Onde librar lor troppo lievi penne,
Quando ad urtarsi vanno. Il Duce, a cui
Folla maggior d’atomi accorre, impera
In quel regno mutabile un istante;
Giudice il Caos siede e ’l gran contrasto
1145Per qual ei regna, co’ decreti suoi
Raddoppia ognor. Tutto poi guida il Caso,
Grand’arbitro appo lui. Tal era il tetro
Sconvolto abisso, onde Natura emerse
E dove un dì fors’anco avrà la tomba.
1150Ivi terra non è, non mar, non foco,
Non aere, ma confusi insieme e misti
In lor pregnanti cause i germi oscuri
Combatton sempre, e fie la guerra eterna,
Se la Man creatrice un dì non svolge
1155La massa informe e nuovi mondi ordisce.
Colà sull’orlo dell’inferno alquanto
Satán ristassi, e gira intorno il guardo,
Ponderando il cammin; chè ancor non breve
Varco gli resta a superar. Un alto
1160Spaventoso fragor le orecchie a un tratto
Gli scuote e introna, a quel simil (se lice
A grandi assomigliar picciole cose)
Allor che Marte tempestoso tutte
Le fulminanti macchine rivolge
1165A crollare, a spiantar le mura e i tetti
Di superba città. Se il ciel medesmo
Infranto giù precipitasse e svelta
Dall’asse suo la stabil terra in polve
Per gli elementi ribellati andasse,
1170Fora men grande il suono. Alfine ei stende
L’ampie vele dell’ali, il suol percuote
Col piede, e dentro il gonfio ondante fumo
Si slancia e s’alza, e intrepido per lungo
Tratto poggiando va quasi portato
1175Sopra cocchio di nugoli, quand’ecco
Quel seggio gli vien meno, e un Vôto immenso
Incontra inaspettato: allor repente
In giù ben dieci e dieci mila braccia,
Precipitoso cadde come piombo,
1180L’ali invan dibattendo, e ancor cadrebbe,
Se per rea sorte l’improvvisa vampa
Di procellosa nube il sen ripiena
Di nitro e foco, un egual spazio in alto
Non l’avesse respinto. Alfin smorzossi
1185Tanta tempesta in paludosa sirte
Che non è mar nè fermo suol: con lena
Affannata, su i piè, sull’ali a un tempo.
Qual naviglio che remi e vele adopra,
Per quell’infida instabil lama innanzi
1190Ei pur sempre si spinge. In quella guisa
Che il cupido grifone, a cui di furto
Rapito ha l’oro l’Arimaspio astuto,
Per aspre rocce, erme boscaglie e cupe
Valli con forti infaticabil’ali
1195Insegue il predator, così per mille
Diverse vie quel rovinoso Spirto
Il suo cammin precipita a traverso
Stagni, rupi, erte balze e strette gole,
In aere or grave, ora leggier, coll’ali,
1200Co’ piè, col capo, colle braccia, e or nuota
Or guada, ora s’attuffa, or striscia, or vola.
Universale altissimo fracasso
Alfin di strida e d’ululi tonanti
Che uscía dal vôto orror, con gran tempesta
1205Gli assal le orecchie. Ei là si volge audace
A rintracciar qual dell’estremo abisso
Poter, qual Spirto in quel rumor soggiorni,
Da cui ritrar dove del Buio giaccia
La costa ch’alla luce è più vicina.
1210A un tratto il soglio del Caosse innanzi
Gli s’appresenta ed ampiamente steso
Sulla vorago solitaria il nero
Suo padiglione. Atro-vestita in trono
Delle cose antichissima la Notte
1215Siede a parte con lui del regno immenso;
Stan l’Orco e l’Ade a lor dappresso e ’l truce
Demogorgóne, paventoso nome;
Indi il Rumore e ’l Caso ed il Tumulto
E la Confusïon, tutti in un gruppo,
1220E la Discordia con sue mille urlanti
Diverse bocche. Intrepido Satáno
A lor si volge e dice: O Voi, di questo
Ultimo abisso Regnatori e Dei,
Formidabil Caosse, antica Notte,
1225Del vostro impero io qui, de’ vostri arcani
No, spïatore o sturbator non vengo.
Stretto a vagar per queste piagge oscure
In cerca di quel calle, onde per gli ampi
Vostri domíni alla superna luce
1230Uscir si può privo di scorta, solo,
Quasi smarrito, io di saper sol bramo
Il più breve sentier che là mi guidi
Ove co’ vostri tenebrosi regni
Il ciel confina; o se l’etereo Rege
1235Qualch’altra parte ha di recente invaso
Di vostre regioni, io là son vôlto.
Deh! voi drizzate i passi miei; non lieve
Del beneficio ricompensa avrete:
Se al primo orror, se al vostro scettro quelle
1240Tolte provincie ricondur, se tutti
Gl’iniqui usurpator balzarne fuora
A me fia dato, e ripiantar le vostre
Nere insegne colà, sì, vostro appieno
Il frutto ne sarà, mia la vendetta.
1245Così parlò Satáno, e a lui con viso
Scomposto e rotti ed affoltati accenti
Il Signor del Disordine rispose:
Ti conosco, Stranier: tu quel possente
Angelo sei che al Re del ciel pur dianzi
1250Osò far fronte, ancor che invano. Io vidi
Abbastanza ed udii: nè giù per questo
Baratro spaventato oste sì grande
Fuggir poteva inosservato: in tanto
Viluppo traboccavano ravvolte
1255Le schiere sulle schiere, e le falangi
Sulle falangi, e sull’orror l’orrore;
E popol tanto le celesti porte
Versavan fuor che vincitor feroce
A tergo v’incalzava! Io qui soggiorno
1260Fo su questo confin, del regno mio
A conservar, se pur potrò, gli avanzi;
Chè troppo omai per vostre interne liti
È questo impero dell’antica Notte
Invaso e scemo: ampio, profondo sito
1265Sotto me si stendea che in carcer vostro,
In inferno cangiò quel Re supremo;
Ed or sovra il mio regno un altro mondo,
Cielo e terra, ei creò che là sospesi
Stan da catena d’ôr ver quella parte,
1270Donde tue schiere caddero. Se movi
Colà, lontano non ne sei, ma il risco
È tanto più vicino. Or va felice,
Disfà, depreda, semina ruine;
Quest’è ’l guadagno mio. Disse, e Satáno
1275Non fe’ risposta, ma contento e lieto
Che omai di tanto mar s’appressi al lido,
Con nuovo ardor, con nuova forza s’erge,
Qual di foco piramide, pel vasto
Spazio deserto, ed apresi a traverso
1280Al fero urtar degli elementi in guerra
Che ovunque intorno romba, un varco alfine.
Con minor rischio e tra minori strette
Colà per mezzo al Bosforo sconvolto
E a’ suoi cozzanti scogli, Argo trascorse;
1285E minacciato meno il destro Ulisse
Schivò Cariddi e rasentò l’urlante
Scilla vorace. Il duro, arduo tragitto
Satán così s’aprìa fra rischi e pene;
Arduo e duro per lui, ma dopo il fallo
1290Dell’uom bentosto, ahi cangiamento strano!
Con sforzo audace la satanic’orma
Colpa e Morte seguendo un ampio calle
E agevole costrussero (fu tale
Il celeste voler) sul negro abisso;
1295E il fiero golfo tempestoso un ponte
Di stupenda lunghezza a portar ebbe,
Che dall’inferno stendesi di questo
Misero mondo in fino all’orbe estremo.
Per esso a lor grand’agio or van scorrendo
1300Su e giù gl’iniqui Spirti e quei mortali
A sedurre o punir vengon che schermo
Non han di singolar grazia superna.
Ma il sacro influsso della luce alfine
Ecco apparir, che in sen del golfo orrore
1305Dalle rimote empiree torri scocca
Un tremolante albór. Quivi Natura
Ha del suo regno il più lontan confine,
E qual vinto nemico dagli estremi
Ripari suoi, cede e si volge addietro
1310Il Caosse, e le furie e ’l minaccioso
Fragore accheta. Con minore affanno,
E omai senza fatica, al fioco raggio
Tra l’onde or men crucciose oltre s’avanza
Lieto Satán, qual da feroci venti
1315Percossa nave che, sebben con rotte
Antenne e sarte, alfin il porto afferra.
Là di quel Vano tra i vapor men densi
Che d’aere hanno sembianza, egli si libra
Sulle robuste ali distese e ’l vasto
1320Giro de’ cieli di lontan rimira
A suo grand’agio; ma confusa, incerta
La lor figura e nell’ampiezza assorta
Sfugge gli sguardi suoi: l’eccelse rocche
D’Opalo fulgidissimo e di vivo
1325Zaffiro ornati gli alti merli ei vede,
Già sua natìa dimora, e non più grande
Di stella piccolissima, dappresso
A lei che della notte il vel dirada,
Dalla catena d’ôr che al ciel lo lega
1330Pender questo Universo. Ivi spirante
Vendetta e rabbia, in maledetto punto
Affretta quel maligno i passi e ’l volo.