Il paradiso perduto/Libro quarto

Libro quarto

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John Milton - Il paradiso perduto (1667)
Traduzione dall'inglese di Lazzaro Papi (1811)
Libro quarto
Libro terzo Libro quinto


Satáno, alla vista dell’Eden e del luogo ove si propone di eseguire l’audace suo disegno contro Dio e contro l’uomo è agitato da molti dubbj e da molte passioni, dal timore, dall’invidia, dalla disperazione; ma alfine si conferma nel male e si avanza verso il paradiso, del quale si descrive l’esterno prospetto e il sito. Egli supera tutti gli ostacoli e si posa in forma di smergo sull’albero della vita, il più alto di tutti per ispiare all’intorno. Descrizione del giardino. Satáno vede per la prima volta Adamo ed Eva; riman preso da maraviglia alla nobiltà delle loro sembianze ed alla felicità del loro stato, ma persiste nella risoluzione di procurare la ruina loro; sta ad ascoltare i lor discorsi, ne raccoglie ch’era loro vietato sotto pena di morte il mangiare del frutto dell’albero della Scienza, e disegna di fondare sopra un tale divieto la sua tentazione e sedurli alla disubbidienza. Differisce il suo proponimento al fine di informarsi meglio del loro stato per qualche altro mezzo. Intanto Uriele, scendendo sopra un raggio del sole, avverte Gabriello, a cui era affidata la guardia delle porte del paradiso, che qualche malvagio Spirito erasi fuggito dall’abisso, ch’egli era passato verso l’ora del mezzodì per la sua sfera sotto le forme d’un Angelo beato; che di là era disceso verso il paradiso, e che i suoi gesti furiosi sul monte lo avevano scoperto. Gabriello promette di trovarlo prima del nuovo giorno. Adamo ed Eva trattengonsi parlando insieme, e alla fine del dì si ritirano a riposo nel loro albergo. Descrizione di questo, e loro preghiera della sera. Gabriello ordina di far la ronda agli Spiriti ch’eran di guardia, e invia due Angeli verso l’albergo di Adamo per timor che il maligno Spirito non tenti qualcosa contro i nostri primi padri mentre dormono. È trovato all’orecchia d’Eva occupato a tentarla in un sogno, ed è condotto a Gabriello. Risponde con orgoglio e ferocia e si prepara al combattimento, ma intimorito da un segno che appare in cielo, se ne fugge dal paradiso.


 
Dove ah! dov’è quella pietosa e fera
Voce che l’Inspirato udìo di Patmo
Dal profondo del ciel tonare un giorno
"Guai della terra agli abitanti" allora
5Che, di nuovo sconfitto, a far scendea
Furibondo il Dragon le sue vendette
Sopra l’umana stirpe? Oh! perchè avviso,
Finchè n’è tempo ancora, ella non porge
Ai nostri primi sventurati padri
10Del lor vicin nemico, onde i mortali
Schivar agguati suoi potesser forse?
Di rabbia acceso ecco Satán discende,
Pria tentator e accusator dipoi,
La prima volta in terra, e ’l suo furore
15Per la perduta pugna e per l’orrenda
Caduta sua vien a sfogar sul frale
Uomo innocente; ei vien, ma benchè tanto
Intrepido da lunge, or non ritrova
Pei vinti rischi e pel suo presto arrivo
20D’allegrarsi ragion. L’atro disegno,
Presso a scoppiar, nello sconvolto petto
Gli si raggira e bolle e ’l proprio fabbro
Si ritorce a colpir, come guerriera
Macchina fulminante indietro balza,
25Mentre dal seno il tuon scaglia e la morte.
Dubbio, terror tutti confonde e mesce
I suoi pensier: d’inferno uscito invano
Egli è, l’inferno ha in cor, l’inferno intorno
Pertutto egli ha, nè per cangiar di loco
30Al circondante orror più che a sè stesso
Può un sol passo involarsi. Il già sopito
Suo disperar di coscïenza al fero
Grido or si sveglia, e la mordace idea
Di quel ch’ei fu, di quel ch’egli è, di quello
35Che in avvenir sarà, delle più gravi
Pene che sempre a maggior colpe aggiugne
La giustizia infallibile del cielo,
L’ange e spaventa. I dolorosi sguardi
All’Eden che fiorito e fresco e vago
40Gli s’appresenta, or ei rivolge, ed ora
Al cielo, e al sol che in cima arde e lampeggia
Dell’alta sua meridiana torre;
Quindi così del cor l’ambascia cupa
Esalò sospirando: O tu, che cinto
45Di tanta gloria, spazïando vai
Solo Signor lassù, che sembri Nume
Di questo nuovo mondo, e in faccia a cui
La scema fronte ogn’altra stella asconde,
Mi volgo a te, ma non con voce amica
50Io già mi volgo, ed il tuo nome aggiungo,
O sol, per dirti in qual dispetto io m’abbia
I raggi tuoi che mi rammentan quale
Fosse il grado ond’io caddi, e la tua spera
Quant’io di gloria e di splendor vincessi.
55Oimè! da quale stato un cieco orgoglio
Precipitommi! Io contro il re del cielo,
Io contro lui che paragon non ave,
Osai levar lassù la fronte e l’armi?
E perchè mai? No, tal ricambio invero
60Ei non mertò da me, da me che a tanta
Altezza avea creato, ei che i suoi doni
Non mai rimproverò, che lievi e dolci
Servigi sol chiedeva, animo grato
E sacre laudi. E qual men grave omaggio
65E qual più giusto? Eppur maligno tosco
Furo al mio core i benefici suoi,
E sol dier di nequizia orrido frutto.
Innalzato cotanto, a sdegno io presi
Lo star suggetto; un sol varcato passo
70Credei che fatto a lui m’avrebbe eguale,
E il pondo insofferibile di mia
Riconoscenza per le grazie, ond’egli
Ognor mi ricolmava, a un tratto scosso
Avrei così da me; nè seppi allora
75Che un grato cor, mentre confessa il dono,
Più debitor non è. Qual era dunque
Il mio gravoso incarco? Ah! se locato
Egli m’avesse in men sublime seggio,
Felice ancor sarei, nè spinte avrebbe
80Una sfrenata ambizïosa speme
Sì lungi le mie brame. E se qualch’altro
Al par di me possente Angelo osava
Tentar la stessa impresa e me con seco
A sua parte traea? Ma che! son forse
85Cadute altre Possanze a me simili,
E ferme e fide non si serban contro
Ogn’inganno, ogni assalto? Al par di quelle
Libera volontà fors’io non ebbi
Ed ugual forza? Ah! sì. Di che mi lagno
90Dunque? Chi dunque accuserò? Quel Dio
Che fu d’eguale amor, di doni eguali
Largo con tutti? Maledetto dunque
Quell’amor e quei doni, a me, del pari
Che il feroce odio suo, cagion fatale
95D’interminabil duolo; anzi in eterno
Maledetto io medesmo, il cui volere,
Contro il voler di lui, libero scelse
Questa ch’or merto e provo acerba sorte.
Dove, misero me! dove sottrarmi
100All’immensa ira sua? Dove allo stesso
Mio furor disperato? Ovunque io fugga,
Trovo l’inferno, anzi del core in fondo
Meco lo porto: ivi un più cupo abisso
Di quell’abisso atroce in cui m’ha spinto
105Il mio delitto, si spalanca, e tanto
Lo supera in orror che bello e dolce
L’inferno stesso è al paragone. Ah! cedi,
Cedi, Satáno, alfin. Che! loco alcuno
Al pentimento ed al perdon non resta?
110No, se sommesso in pria, se umìl... Che dico?
Umil, sommesso io mai? Qual onta! Ah! furo,
Fra quei Spirti laggiù da me sedotti,
Ben altro fur le mie promesse e i vanti.
Io che l’Eterno a rovesciar dal solio
115Bastante m’affermai, potrei fra loro
Servo e di servitù nunzio tornarmi?
Oimè! ch’essi non san quanto una vana
Mi costi ombra di gloria! essi non sanno
Fra quali angosce internamente io gema,
120Mentre da lor sull’infernal mio solio
Adorato m’assido! A me che giova
Scettro e corona, se più ch’altri appunto
Io ruino perciò nel cupo centro
Di tutte le miserie e son supremo
125Sol negli affanni? O ambizïon, son queste
Le gioie tue? Ma se a pentirmi ancora
Scender potessi, e col perdono il mio
Racquistar primo stato, i sensi alteri
In me rigermogliar quella grandezza
130Non faría tosto, e tutto aver a sdegno
Quanto giurò mendace ossequio? I voti
Che duolo e forza mi svellea dal labbro,
Quai nulli e vani la cangiata sorte
Tutti terrebbe. No, rinascer vera
135Amistade in quel cor non può giammai,
In cui d’odio mortal fur sì profonde
Ferite impresse. A più fatal caduta
Io sol risorgerei, la breve tregua
A prezzo d’addoppiati aspri tormenti
140Solo comprata avrei. Ben sallo il mio
Sagace punitor che a darmi pace
Tanto avverso è perciò quant’io mi reco
A dispetto il cercarla! Or ecco, invece
Di noi cacciati in crudo esiglio indegno,
145Ecco creato l’uom, tenero oggetto
Delle sue cure; ecco d’un mondo intero,
Liberal largitor, gli ha fatto il dono.
Fuggi dunque, o speranza, e tu con essa
Fuggi, o timor, da questo sen; fuggite,
150Vani rimorsi miei; per me in eterno
È perduto ogni ben: tu solo, o male,
Sii mio sol bene omai; per te diviso
Col re del cielo almen tengo l’impero,
E più che la metà saprò fors’anco
155Occuparne per te. Vedrai bentosto,
Uomo odïato, e tu, novello mondo,
La possa di Satán. - Mentr’ei sì parla,
Fera procella gli dibatte il core,
E un lurido pallor d’invidia e rabbia
160E disperazïon gl’infosca il volto
A vicenda tre volte. Ad ogni sguardo
Le scompigliate sue mentite forme
Lo avrìen scoperto: chè sereni e sgombri
Da sì sconce tempeste il cor, la fronte
165Hanno i Celesti ognor. Lo avvisa ei tosto,
E, artefice di fraude, appiana e copre
D’esterna calma ogni tumulto interno.
Egli il primiero fu che l’alma fella
D’aspra vendetta covatrice ascose
170Sotto dolci sembianze. Esperto tanto
Non è però che ad Urïele accorto
Far possa inganno. In suo cammin coll’occhio
Egli seguillo, e sull’Assirio monte,
Più ch’a beato Spirto avvenga mai,
175Disfigurato il vide. I gesti feri
Di lui che allora inosservato e solo
Colà credeasi, il torbid’occhio ardente
E ’l portamento furibondo e folle
L’Angel scôrse e notò. Così Satáno
180Suo cammin segue e a’ fortunati campi
Dell’Eden s’avvicina. Un verde giro
D’argine rustical cinge la vasta
Pianura stesa in cima ad erto monte,
Che di pungenti vepri e d’alti e densi
185Rovi tra lor confusamente attorti
Ispidi ha i lati e d’ogni parte il varco
Impenetrabil fa. Gli abeti, i pini,
L’eccelso cedro e la ramosa palma
Torreggian sopra, e sull’agreste scena
190Stendon lunghissim’ombra; e quanto il colle
Più si solleva, alte ognor più spargendo
L’ombre sull’ombre, un boschereccio, altero
Maestoso teatro offrono al guardo.
Ma più ancor di lor cime il verdeggiante
195Muro del Paradiso in alto sorge,
E al nostro primo padre ampio prospetto
Dei sottoposti spazïosi regni
Presenta d’ogn’intorno. Oltre quel muro
Disposti in giro ergono al ciel le sempre
200Chiomanti braccia i più fecondi e belli
Arbori carchi de’ più dolci frutti.
Sul ramo stesso ivi matura e spunta
Insieme il frutto e ’l fior, ambi d’un vivo
Aureo colore, a cui del par lucenti
205Si mescono mill’altri; e il sol più lieto
Co’ ripercossi rai vi splende e scherza
Che in vaga nube a sera, o nell’acquosa
Iride bella quando ha sparsa Iddio
La pioggia sulla terra. Amabil tanto
210È quel beato suol! Ride pertutto
Soave primavera, ognor più puro
Spira quell’aere a chi s’appressa, e tale
Un almo infonde avvivator conforto
Che può dal cor, se non uscì di speme,
215Ogni affanno sgombrar. Gentili aurette
Le leggiere scotendo ali fragranti
Spandon pertutto i loro profumi, e sembra,
Che voglian dir coi lor susurri il loco
Donde involâr quelle odorose prede.
220Come al Nocchier ch’oltre gli estremi Cafri
Veleggia, e Mozambico ha già varcato,
Il vento aquilonar dalle felici
Arabe spiagge odor Sabei tramanda,
Ond’egli preso da diletto allenta
225Il suo cammino, e ’l vecchio Oceano stesso
Per ampio tratto si rallegra e ride:
Così allettato era il malvagio Spirto
Da quell’alme dolcezze, ei che venìa
Del suo veleno ad infettarle. A tardi
230Passi e pensoso, di quell’erto colle
Giunto all’aspra salita egli era omai,
Quando per varcar oltre alcun sentiero
Più non appar; di così folti ed irti
Cespugli e dumi un’aggroppata selva
235Impenetrabil s’opponea. Restava
Sola una porta dall’opposto lato
Vêr l’Orïente: videla il fellone,
Ma la sdegnò superbamente, e ratto
Oltre la ripid’erta e l’alto muro
240Spiccò d’un salto e sovra i piè leggieri
Nel bel loco balzò. Qual lupo spinto
Da cupa fame a ricercar di preda
Novelle tracce, erra qua e là spiando
Ove i pastor nelle di vinchi inteste
245Lor chiuse a sera di raccor son usi
Il sazio gregge, e con agevol lancio
Sopra la fratta, furibondo, ingordo
Nel recinto si scaglia; o qual notturno
Ladro che all’arca per molt’oro grave
250D’un ricco cittadin le insidie ha volte,
Poichè assalto non temono le forti
Soglie e le ferree sbarre, ei s’apre il passo
Per le finestre, o sopra l’arduo tetto
Arrischievol s’arrampica; tal questo
255Primo atroce ladrone entrò nel santo
Ovil di Dio. Quindi a vol s’erge e sopra
L’arbor di Vita, che l’altera cima
Nel mezzo al bel giardin sugli altri innalza,
Si posa in forma di rapace smergo:
260Ivi della vital salubre pianta
L’alta virtude a meditar l’iniquo
Non stette già, ma sol tramò la morte
A color che vivean. Di quel sublime
Loco che a lui, se provvido era e saggio,
265Stato saria d’immortal vita pegno,
Ei sol si fe’ vedetta a stender lungi
L’indagator di preda avido sguardo.
Sì poco ognun (tranne sol Dio) conosce
Del bene il prezzo, ma strumento il rende
270Spesso del male, o in usi indegni il torce.
Or con nuovo stupor mira Satáno
Sotto di sè, dentro non largo giro,
L’ampie ricchezze di natura accolte
A far pago dell’uomo ogni desìo;
275Anzi gli par di rivedere il cielo
Sopra la terra. Quel felice suolo
D’Eden Iddio medesmo aveva eletto,
E sugli Eoi confini il bel giardino
Ei stesso vi piantò. Verso l’aurora
280L’Eden si distendea da Auran fin dove
I greci Re dipoi le rocche altere
Di Seleucia innalzaro, o dove surse
Talata e dove in pria d’Eden i figli
Ebber soggiorno. In sì ridente terra
285Più assai ridente il suo giardino adorno
Avea disposto Iddio. Gli arbori tutti
Più vaghi, più fragranti e più soavi
Cresceanvi rigogliosi, e ad essi in mezzo
Sublime, eccelso e germinante ognora
290Di vegetabil oro ambrosie frutta
L’arbor sorgeva della Vita, e presso
Alla vita sorgea la nostra morte,
L’arbor della Scienza, arbor funesto
Che, il ben mostrando, al mal la strada aperse.
295Per l’Eden verso l’austro un ampio fiume
Scorre, e d’un monte nel boscoso fianco,
Senza torcer suo corso, entra e s’ingolfa
Per sotterranee vie. Là posta avea
Di propria man quella montagna Iddio,
300Qual sponda al suo giardino, alta sovresso
La rapida corrente: indi bevuta
Dalle segrete sitibonde vene
Del poroso terren sorgea gran parte
Di quell’acque in un chiaro, immenso fonte
305Che dipartito in cento rivi e cento
Irrigava il giardin; quindi per l’erta
Balza, unito di nuovo, in giù cadea
La vasta piena a rincontrar che uscita
Alfin dal cupo varco al dì risale,
310E con vario cammin, divisa in quattro
Maggiori fiumi, per lontane terre
Stende suo corso e per famosi regni.
Or qual arte giammai, qual alto e dolce
Stile ridir potrìa come da quella
315Sorgente di zaffir scendon fuggendo
Sovr’aurea sabbia e orïentali perle
I ruscelletti garruli da lievi
Aure increspati? e come in mille e mille
Giri sorto le fresche ombre pendenti
320Volgono il puro néttare dell’onde
A visitare ed a nudrir le piante
E i fiori tutti, di quel loco degni
Anzi del cielo? In brevi aiuole e gruppi
Non ordina colà difficil arte
325Quelle piante e que’ fior, ma in colle, in valle,
In pian con mano liberal gli spande
L’alma natura, e dove il sol percuote
Co’ novelli suoi rai gli aperti campi,
E dove imbruna impenetrabil ombra
330In sull’ore più calde i bei recessi.
Tal era e varia e maestosa e schietta
Del loco la beltà! Colà distilla
Gomme odorose e balsami il boschetto;
Qui aurate poma pendono ripiene
335Di celeste sapor. Gli Esperid’orti
Favoleggiati poi, qui veri in prima,
Qui fur soltanto. Là ridenti prati,
Qua piagge amene, ove pascendo vanno
Le tener’erbe i fortunati armenti;
340Qui coperto di palme un colle sorge,
Ed ivi s’apre il vario pinto grembo
D’irrigua valle, ove pomposa mostra
Fan tutti i fior più vaghi, e porporeggia
Senza spine la rosa. In altro lato
345Vedi freschi ritiri, ombrose grotte,
Su cui lieta s’inerpica e distende
Lussureggiante le ritorte braccia
Gravi di biondi grappoli la vite.
Con grato mormorìo discendon l’acque
350Dai colli aprici e van divise errando,
O uniscono i lor rivi in chiaro lago
Ch’offre il suo specchio cristallino al margo
Coronato di mirti. Odesi intorno
Almo d’augei concento, a cui le molli
355Aurette carche di fragranti spoglie
Di campi e boschi accordano il susurro
Delle tremule fronde. Avria creduto
Forse la Grecia favolosa quivi
Veder danzanti Pan, le Grazie e l’Ore
360E insiem guidar la primavera eterna.
Eran men belle assai l’Etnée campagne,
Dove involata fu dal fosco Dite,
De’ fior ch’ella cogliea più vago fiore,
Proserpina gentil, per cui l’afflitta
365Madre corse e cercò la terra intera.
Non quel di Dafne dilettoso bosco
Presso l’Oronte, di sì lieto suolo
Venga al confronto; non l’Aonie piagge
Cui l’onda sacra e inspiratrice irriga;
370Non quella dal Triton bagnata e cinta
Isoletta Niséa, dove l’antico
Cam, che Libico Giove e Ammon nomato
Fu dai Gentili, il pargoletto Bacco
Ed Amaltea celava al vigil guardo
375Della matrigna Rea; non l’erto monte
D’Amara, là del Nil presso alle fonti,
Che, di splendenti rocce intorno chiuso,
De’ monarchi Abissini i bruni figli
Serba nel grembo, e i salitori stanca
380Per un intero dì, montagna amena,
È ver, ma da talun creduta a torto
Del Paradiso la verace sede.
Volge Satán l’occhio geloso attorno,
E senza alcun diletto ogni diletto
385Del bel giardino e l’infinita schiera
Delle viventi creature osserva;
Meraviglioso a lui spettacol novo.
D’assai più nobil forma, alte ed erette,
Erette in guisa di celesti Spirti,
390Due là vestite di natìa bellezza
Nella lor nuda maestà, del Tutto
Sembran tenere, ed a ragion, l’impero.
Nei lor sembianti la divina imago
Del lor Fattore, verità, consiglio,
395Pura ed austera santità risplende,
Austera sì, ma in filïal riposta
Libero ossequio, onde più bella e grande
Appar dell’uom la dignità sovrana.
Come diverso è il sesso lor, diversi
400Son pur i pregi e diseguali: agli alti
Pensieri ed al valor formato è l’uno,
L’altra alle grazie e a’ molli vezzi: è quegli
A Dio solo soggetto, a Dio soggetta
Ed allo sposo ell’è. Sovran signore
405Allo sguardo sublime, all’ampia fronte
Ei si palesa: in crespe e folte ciocche
I giacintini suoi capei dall’alto
Cadon divisi in sulle larghe spalle,
Ma non più giù. Neglettamente sparse
410Le trecce d’ôr fino allo snello fianco
Scendono a lei qual velo, e in vaghe anella
Rassomiglianti ai tenerelli germi
Onde s’aggrappa la pieghevol vite
Al vicin olmo, ondeggiano, e son quasi
415Di quell’appoggio, ond’ella ha d’uopo, il segno.
Gentil impero ei prende, ella gliel cede
In ritrosetto amabile sembiante,
E quel modesto orgoglio e quelle molli
Ripulse e quegl’indugi assai più dolce
420Fanno il suo consentir. Nè delle membra
Veruna parte allor geloso ammanto
Copriva ancor, nè la vergogna rea
Nè questo infame onor ne’ petti umani
Era entrato per anco. Onor! Pudore!
425Figli di Colpa, di virtude infinita
Vane ombre e larve ingannatrici, ahi come
Tutto avete quaggiù turbato e guasto!
Come sbandiste dall’umana vita
Quant’ella avea di più vitale ed almo,
430Schietto candore ed innocenza pura!
Nuda così le belle membra e senza
Temer lo sguardo d’Angelo o di Dio,
Tenendosi per man, tra l’erbe e i fiori
Sen giva errando quella coppia, in cui
435Reo pensiero non cade; amabil coppia,
Fra quante in dolci maritali amplessi
Dipoi ne strinse amor, la più gentile;
Egli il più bel di tutti i figli suoi,
Di tutte le sue figlie ella più vaga.
440Sotto un ombroso susurrante gruppo
Di arbori, in mezzo al verde smalto, e presso
D’un fresco fonte essi adagiârsi, e tanto
Sol d’opra speso al bel giardino intorno
Quanto più grate le aleggianti aurette,
445Più soave il riposo a far bastasse
E de’ cibi e del ber più vivo il senso,
Della lor cena a saporar si diero
L’ambrosie frutta che i curvati rami,
Lungo il molle sedil tutto vestito
450Di tener’erba e di fioretti sparso,
Offrir pareano in volontario omaggio.
Ne spremean essi la soave polpa,
E nella cava scorza il colmo rio
Quindi attingean; nè lusinghier sorriso
455Fra lor mancava o parolette accorte,
O cari vezzi, o giovanili scherzi,
Qual si conviene a bella coppia in dolce
Coniugal nodo avvinta e sola. Intorno
Festosamente givanle ruzzando
460Quanti animai, dipoi feroci e crudi,
Fuggiro ad abitar erme foreste
E boschi e tane. In carezzevol atto
Fra le sue branche dondola il lione
Il tenero capretto; ed orsi e tigri
465E linci e pardi insiem giulivi e mansi
Saltabellano intorno. Il lento e grave
Elefante fra loro ogni sua prova
A sollazzarli tenta, e attorce e snoda
In cento guise la volubil tromba.
470L’astuto serpe in tortuose spire
Cheto e leggier s’avvolge, e di sue frodi
Dà inosservato segno. Altri sull’erba
Accovacciati stannosi, e satolli
Guatan con occhio immoto; altri a sdraiarsi
475Lenti, lenti s’inviano e il preso cibo
Van ruminando. Ver l’occaso intanto
Bassato il sol precipitava il corso,
E messaggiere della sera omai
Nella lance del ciel sorgean le stelle,
480Quando Satán tuttor, qual prima, immoto
Per lo stupor, ricoverando alfine
La smarrita favella, in questi accenti
Angoscioso proruppe: Oh inferno! Oh rabbia!
E fia ver quel ch’io miro? Appresso tanto
485Innalzati a quel ben ch’era già nostro
Costor son dunque, di novella tempra
Strano lavor che della terra forse
Uscio? costor non Spirti al certo, eppure
Ai rifulgenti Spiriti del cielo
490Somiglianti così? Quant’io dappresso
Più li vo riguardando, in me maggiore
Sorge la meraviglia, e a mio dispetto
Amarli anco potrei: tanta risplende
In lor celeste somiglianza, e tanta
495Grazia e beltà nei lor sembianti ha sparso
La man che li creò! Coppia gentile,
Ah tu non sai quanto a cangiarsi è presso
La sorte tua! come dispersi andranno
Bentosto i tuoi diletti, e del dolore
500Tant’aspro e amaro più, quant’or più dolce
È questo tuo gioir, preda sarai!
Tu sei felice, è ver, ma saldo schermo
Tu non avresti, onde durar felice:
No, qual doveasi, quest’eccelso ed almo
505Soggiorno tuo non fu munito e cinto
Da ripari bastanti a tener lungi
Tal nemico ch’entrovvi. In te non tutto
Vôlto è l’odio però che il sen m’attosca,
E ancor pietà di te meschina avrei
510Bench’io pietà non trovi. A stringer vengo
Scambievole amistà, scambievol lega
Forte così che in avvenir tu debba
Viver meco in eterno od io con teco.
Gradito al par di questo bel giardino
515Forse a te non sarà quel mio soggiorno;
Ma pur, qualunque siasi, in esso accogli
L’opra del tuo Fattore: egli a me diella,
Io volentier te l’offro. A voi davante
L’ampie sue porte schiuderà l’inferno,
520E con gran festa manderavvi incontro
Tutti i suoi re. Non somigliante a questi
Brevi confini, ma capace e vasto
Sarà quel loco, a ricettar bastante
Il grande stuol de’ vostri figli tutti;
525E se miglior non è la stanza, a lui
Grado n’abbiate che su voi mi sforza
Immeritata ad eseguir vendetta
Di quell’ingiurie, onde sol egli è reo.
Pietà mi desta l’innocenza vostra,
530Ma la pubblica causa, i torti atroci
Ch’io deggio vendicar, di questo nuovo
Mondo la omai vicina ampia conquista,
L’onor, la gloria, mio malgrado ancora,
Spingonmi a quello, ond’io, sebben laggiuso
535Dannato eternamente, orrore avrei.
Così parlava quel maligno, e i suoi
Infernali disegni iva scusando
Colla necessità, discolpa usata
Sul labbro de’ tiranni. Indi dall’alta
540Cima ov’egli posava, a vol si gitta
Fra lo stuol sollazzevole di tanti
Quadrupedi animali, ed or dell’uno,
Ora dell’altro, qual conviensi meglio
Al suo proposto, le sembianze prende.
545Più da vicino rimirar sua preda
Ei può così, così spïarne i detti
E gli atti inosservato, e aver contezza
Di lei più certa. Or con fiammanti luci,
Fatto leone, le passeggia intorno,
550Ed or qual tigre che scherzar sul prato
Ha scorto a’ caso due cervetti e corre
Ad acquattarsi presso lor, poi s’alza
E sceglie il suo terren, cangia gli agguati,
Onde con slancio più securo entrambi
555Nell’una e l’altra branca insiem gli afferri.
Con Eva intanto Adam favella, e quegli
Tutto vér loro si protende, e sembra
Che drizzi mille orecchie al suon novello.
O sola, Adam diceva, o sola in tanti
560Piacer compagna mia, tu che più cara
Mi sei di tutti, ah! quel sovran Signore
Che noi fece e per noi quest’ampio mondo,
Infinità bontà certo congiunge
Ad infinita possa, e de’ suoi doni
565È liberal come infinito. Ei fuora
Della polve ci trasse, in questo ameno
Di gioia albergo egli ci pose; e quali
Fur seco i merti nostri, o che possiamo
In cambio offrirgli ond’uopo egli abbia? È solo
570Per tante grazie sue tal ci richiede
Prova di servitù che in ver più lieve
Esser non può per noi. Fra tanti e tanti
Di dolcissime frutta arbori carchi,
L’arbor della Scïenza ei sol ci vieta;
575Quel solo ei vieta che vicino sorge
All’arbor della Vita: appresso tanto
Sta la vita alla morte! E checchè sia
La morte, al certo spaventevol cosa
Ella esser dee; chè Dio, tu ben lo sai,
580Dio minacciolla a chi gustare il frutto
Di quell’arbore osasse, unico pegno
Di nostra ubbidïenza in mezzo a tanti
Impressi in noi di signoria, d’impero
Splendidi segni sovra quante il suolo
585E l’onda e l’aere creature alberga.
Un sì leggier divieto, Eva diletta,
Potrìa duro sembrarci allor che tanto
Ampia ed intera libertà concessa
N’è sovra ogni altra cosa, e di sì vari
590Diletti abbiam la scelta? Ah! no: s’esalti
Dunque da noi con sempiterne lodi
Quell’infinita sua bontade, e il caro
Lavor che ci affidò, seguasi intanto
Di crescer questi fiori e tôrre il troppo
595Rigoglio a queste piante. È dolce l’opra,
Ma se grave anco fosse, ognor mi fora
Gioconda e bella al fianco tuo. Sì disse
Adamo; ed Eva: O tu, per cui, rispose,
E di cui mi formò la man superna,
600O mia guida e signor, carne primiera
Di questa carne mia, tu, senza cui
Un’opra vana e di disegno priva
Fora stato il crearmi, ah! sì, ben giusto
E verace è il tuo dir: a Dio dobbiamo
605Eterne lodi, eterne grazie, ed io
Principalmente, io che il destin più bello
Godo in goder di te che tanto sei
Di me maggior, mentre compagna eguale
Tu a te medesmo ritrovar non puoi.
610Spesso quel giorno mi ritorna a mente,
In ch’io riscossa da profondo sonno
La prima volta, in grembo ai fior distesa
Mi trovai sotto l’ombra, e dov’io fossi
E chi mi fossi e da qual loco e come
615Ivi recata, attonita men giva
Ricercando fra me. Di là non lunge
Un mormorío da cava rupe uscìa
D’acque sgorganti che più giuso in chiaro
Liquido pian si distendeano, e immote
620Stavano e pure come un ciel sereno.
Con pensiero inesperto io là m’invio,
Seggo sul verde margo, e al liscio e terso
Lago m’affaccio che pareami un altro
Lucido firmamento. I lumi appena
625Io chino a riguardar che incontro appunto
Nell’acquoso chiarore ecco una forma
M’appar che inchina mi riguarda. Indietro
Io balzo, indietro ella pur balza: io lieta
Tosto colà ritorno, e lieta anch’essa
630Tosto ritorna e a’ guardi miei risponde
Con guardi vicendevoli, spiranti
Pari amor, pari brame. Ivi tuttora
Terrei fisi quest’occhi e in van desìo
Mi struggerei, se un’amorosa voce
635Così non m’avvertìa: quel ch’ivi scorgi,
Creatura gentil, quel ch’ivi ammiri,
È il tuo sembiante stesso; ei teco viene,
Teco sen va. Ma seguimi, e tua scorta
Sarò là dove il tuo venir e i tuoi
640Teneri amplessi non attende un’ombra,
Ma tal, di cui tu se’ l’imago. In dolce
Inseparabil nodo a lui congiunta
Vivrai beata, un’infinita stirpe
Uscirà dal tuo fianco, e sarai detta
645Dell’uman gener madre. Io tosto (e ch’altro
Potev’io far?) quell’invisibil guida,
Ove m’invita, seguo, e te discopro
Sotto l’ombra d’un platano, te bello
E maestoso in ver, ma pur men vago,
650Vezzoso men, men lusinghiero e dolce
Di quell’ondosa imago. Indietro io torco
Alla tua vista il passo, il passo affretti
Tu allor vér me gridando: ah! perchè fuggi?
Ritorna, Eva gentil, t’arresta, o cara;
655Ah! da me fuggi, e mia tu sei; tu sei
Mia carne ed ossa: io dal mio lato fuori,
Dal lato al cor più presso, a darti vita
Io la sostanza porsi, onde tu poscia
Il mio conforto e ’l mio diletto fossi,
660Dal mio fianco indivisa: io te ricerco,
Parte dell’alma mia, te chiedo e voglio
Qual altra mia metà. Con gentil atto
Nella tua la mia man prendesti allora,
Ed io m’arresi, e da quel punto intendo
665Quanto sia vinta femminil beltade
Da viril grazia e da saggezza, in cui
Sol sta vera beltà. Così dicendo,
La nostra madre universal, con occhi
Raggianti un puro ardor, tenera e dolce
670Sopra del nostro genitor primiero,
Per metade abbracciandolo, appoggiossi;
E con metà del colmo ignudo seno,
Sol adombrato dalle sciolte trecce
Sotto l’oro ondeggiante, a incontrar venne
675Il sen di lui. Da quelle grazie umíli
E da tanta bellezza Adam rapito,
Con amorosa maestà sorride
Alla sua sposa, e con soavi baci
Preme le caste labbra. In tale aspetto
680Sorridente a Giunon dipinto è Giove,
Quand’ei le nubi che di maggio i fiori
Spargon sul suol, feconda. Il guardo altrove
Il rio Demon punto d’invidia torse;
Pur con gelosa rabbia indi tornolli
685A sogguardar traverso, e il suo dolore
Esalò in questi detti: Oh tormentosa
Vista! Oh vista abborrita! In braccio dunque
L’un dell’altro costor, di gioia in gioia
Passan l’ore felici, ed io dannato
690Son per sempre laggiù, donde i piaceri
E amore han bando eterno, e dove un crudo
Non appagato mai desìo bollente
Fra tanti altri martír ne cruccia e strugge?
Ma non s’obblii quel che dal loro incauto
695Labbro raccolsi. In lor arbitrio il tutto
Qui non è dunque; un arbore fatale
Vietato è lor, che del Saper si noma.
Che! vietato il saper? Iniqua legge
Che gelosia dettò! Quel lor Signore
700Perchè tal pregio ad essi invidia? E fia
Colpa il saper? pena la morte? solo
Ignoranza li regge e in essa è posta
La lor felicità? quest’è di loro
Ubbidïenza e di lor fè la prova?
705Oh! quale scorgo agli artifizi miei
Ed alla lor ruina aperto campo!
Fervida del saper dunque s’accenda
In lor la brama, e gl’invidi comandi
Traggansi a disprezzar che il sol disegno
710Di tener ligi quei che al par de’ Numi
La scïenza ergerebbe, ha lor prescritto.
Spinti da tal desìo gustino il frutto
E con esso la morte. Esser diverso
L’evento ne potrìa? Ma tutto intorno
715Questo giardin prima s’indaghi, e niuna
Più chiusa parte inosservata resti.
Forse condur colà potrammi il caso
Ove in qualche celeste errante Spirto
Che presso un fonte o all’ombra delle piante
720Stia soletto, io m’avvenga e da lui tragga
Qualche miglior contezza. Or vivi, intanto
Che il puoi, felice coppia; in fin ch’io torni,
Affrettati a goder; di lunghi guai
Già s’avvicina inevitabil corso.
725Disse, ed il piè di là sdegnoso, altero
Torse, ma gli occhi rivolgendo intorno
Sagaci, intenti, e selve e colli e valli
A cercar diessi. Per l’estreme vie
Là dove il ciel coll’oceán confina,
730Lento scendeva intanto il sol cadente,
E co’ suoi vespertini opposti raggi
Del Paradiso saettava appunto
La porta orïental. Fino alle nubi
Un’ardua rupe d’alabastro ell’era
735Che fea di sè lontana mostra, e solo
Avea da terra un accessibil varco
Che salìa tortuoso all’erta cima.
Era il restante aspra, scoscesa balza
D’impossibil salita, e qual pria surse,
740Spaventosa pendea. Del masso aperto
Fra i gran pilastri Gabrïello, il Duce
Delle angeliche guardie, assiso stava
Aspettando la notte. A eroici ludi
S’esercitava intorno a lui l’inerme
745Gioventude del ciel, ma pronti all’uopo
Pendean là presso per gran gemme ed oro
Raggianti, eterei scudi e usberghi ed elmi
Ed aste e spade. Ivi Urïel, scorrendo
Sovra un raggio del sol per l’aria fatta
750Già mezzo bruna, rapido discese;
Come in autunno, quando è carco il cielo
D’ignei vapori, spiccasi talora
E con lucido solco il sen dell’ombre
Fende una stella che al nocchiero, intento
755Sovra l’indica pietra, il punto insegna
Onde più l’ira ei dee temer de’ venti.
Sollecito Urïel così rivolge
A Gabrïello i detti: In sorte avesti,
O generoso Gabrïel, l’incarco
760Di star di queste mura a guardia ed ogni
Insidia allontanarne. Or odi: un Spirto
Sul pien meriggio alla mia sfera è giunto
In questo dì, che di conoscer meglio
L’opere uscite dall’eterna mano
765Studïoso mostrossi e sovra ogni altra
L’uom che è di Dio la più recente imago.
Tutt’ansio egli era di partir, lo instrussi
Del suo cammino, per l’aereo volo
Riguardando lo stetti, e là sul monte
770Che quinci a Borea giace e dove in prima
Egli calossi, il suo sembiante io vidi
Fuor d’ogni uso celeste, in modi strani
Scomporsi e ottenebrarsi. Io d’inseguirlo
Coll’occhio non cessai, ma sotto l’ombre
775Ei mi disparve alfin. Qualcuno, io temo,
Della sbandita ciurma, a tentar nuove
Trame, sbucò quassù dal cieco fondo.
Il rintracciarlo a te s’aspetta. Ei disse,
E l’altro a lui: Se dal raggiante cerchio
780Dell’astro, ov’hai tua stanza, Angel sublime,
Sì lungi ed ampiamente il guardo stendi,
Stupor non è. Per questo varco poi
Niun passa inosservato, e niun che appieno
Qui non sia noto e che dal ciel non venga;
785Nè alcun dopo il meriggio indi qui scese.
Ma se maligno insidïoso Spirto
Oltre slanciossi a queste mura, il sai,
A incorporea sostanza è fral ritegno
Argin corporeo. Se però nel giro
790Di questo loco, in qualsivoglia forma
Colui s’appiatta, onde favelli, al nuovo
Albóre io lo saprò. Tanto ei promise,
Ed all’ufficio suo tornò Urïele
Sul raggio stesso, onde l’alzata punta
795Obliquamente per declive calle
Lo riportò nel sol caduto omai
Sotto le Azorre; o sia che là nel suo
Diurno giro oltra ogni creder ratto
Fosse trascorso quel grand’orbe, o sia
800Che con più breve rota invêr l’aurora
Questa terra volgendosi, il lasciasse
Là sul suo trono occidentale, ond’egli
Tutta de’ suoi color sgorga la piena,
E di porpore e d’ôr pinge ed ammanta
805Le circondanti officïose nubi.
Già la sera innoltrava, e ’l grigio incerto
Suo lume rivestìa tutte le cose
D’un languido colore: a lei d’appresso
Il silenzio venìa; chè augelli e belve,
810Quelli a’ lor nidi e queste al letto erboso,
Eransi tutti ricovrati. Il solo
Vigile rossignuol la notte intera
Al bosco, all’aura intorno i suoi d’amore,
Onde le taciturne ombre molcea,
815Ripetè soavissimi lamenti.
Già di vivi zaffir tutta del cielo
Arde la volta, ed Espero guidante
L’esercito stellato, in luminosa
Pompa s’avanza, quando alfin degli astri
820La notturna reina alto levando
In nubilosa maestà la fronte,
La sua discopre incomparabil luce
E dispiega sull’ombre il vel d’argento.
Ad Eva allor sì parla Adam: Quest’ora
825Notturna, o cara mia compagna, e questa
Comune requie delle cose, a noi
Un simile riposo ancor consiglia.
Per decreto divin fatica e giorno,
Notte e riposo con vicenda alterna
830Succedere si denno; e già del sonno
Vien la rugiada ad aggravar con dolce
Peso le nostre ciglia. Il giorno intero
Van tutte l’altre creature errando
Senza incarco o pensiero, e minor uopo
835Han di posa perciò; ma il suo lavoro
Di membra o d’intelletto all’uom prescritto
È giornalmente, del suo grado eccelso
Non dubbia prova e del vegliante ognora
Sovra tutti i suoi passi occhio del cielo.
840Pria che diman la fresca alba novella
Rosseggi in orïente, all’opre nostre
Sorger dobbiamo, all’opre usate e care.
Qui questi archi fioriti e là que’ verdi
Vïali ombrosi, ove a diporto andiamo
845In sul caldo meriggio, hann’uopo assai
Di nostre cure. I rami lor cresciuti
Son omai di soverchio e ’l troppo scarso
Nostro lavor deludono: più braccia
Si converriano a diradare il folto
850Rigoglio lor. Quei gran rampolli ancora
E quelle gomme che, stillando al suolo,
Fan scabro mucchio ed alla vista ingrato,
Convien pure sgombrar, se tor vogliamo
Al piè gl’inciampi. A riposare intanto
855Ci fa la notte e la natura invito.
Disse, ed a lui d’ogni bellezza adorna
Eva rispose: O di mia vita fonte,
Amato arbitro mio, dal tuo bel labbro
Sempre dipenderò: Dio così vuole;
860Tua legge è Dio, la mia tu sei. Di donna
Il più bel vanto ed il saper migliore
È il non saper di più. Se teco io parlo,
Mi fuggon l’ore; ogni stagione ed ogni
Vicenda lor mi scordo, e tutto al paro
865Teco m’aggrada. È del mattin soave
L’auretta; è dolce il rimirar l’aurora
Che sorge al canto de’ già desti augelli;
È bello il sol nascente allor che inaura
Questo ameno giardin co’ raggi primi,
870L’erbe, le piante, i frutti e i fior lucenti
Di tremolanti rugiadose stille;
Fragrante è il suolo appo una molle pioggia,
È dilettoso di tranquilla sera
Il languido imbrunir, grata la notte
875Co’ suoi silenzj e ’l tenero gorgheggio
Di questo augel melodïoso; è vaga
L’argentea luna e queste fiammeggianti
Gemme del cielo che le fan corona.
Ma nè l’auretta del mattin, nè il canto
880De’ lieti augelli, nè il nascente sole,
Nè l’erbe, i tronchi, i frutti, i fior cospersi
Di tremolanti rugiadose stille,
Nè grato odor che dopo molle pioggia
Esali dal terren, nè della sera
885Il languido imbrunir, nè della notte
Le tacit’ombre e il tenero concento
Di questo augel, nè della luna al raggio
Lenti passeggi, o scintillar di stelle,
Nulla, ben mio, senza di te m’è caro.
890Ma perchè, dimmi, tutta notte splende
Di questi astri la luce? e per chi fatto
È spettacol sì bello allor che il sonno
D’ogni vivente ha chiusi i lumi? O cara,
Di Dio figlia e dell’uom, bellissim’Eva,
895Le rispondeva il comun padre, intorno
A questa terra essi il prescritto corso
Dall’uno all’altro sol compiendo vanno,
E portano così di piaggia in piaggia
L’apparecchiata per le varie genti
900Ancor non nate, necessaria luce.
Senz’essi sovra il negro intero mondo
Ripiglierebbe il suo dominio antico
La notte universale, e fora estinta
La vita in ogni cosa. Il lor benigno
905Foco sottil per la natura tutta,
Come il lor lume, spandesi, ne’ vari
Corpi con vario influsso egli s’interna
E fomenta e riscalda e tempra e nudre
E abbella il mondo, e quanto in terra cresce
910Prepara a sentir meglio i rai più forti
Del sol che tutto poi matura e affina.
Benchè null’occhio li rimiri, invano
Non splendon gli astri dunque, e, senza noi,
Non creder già che spettatori al cielo
915Mancassero ed omaggi ed inni a Dio.
Mentre dormiam, mentre siam desti, errando
Spiriti innumerabili sen vanno
Per ogni dove, al nostro sguardo ascosi,
E notte e dì con incessanti lodi
920Contemplan l’opre sue. Quanto sovente
Dal folto de’ boschetti o dalle cime
Degli echeggianti colli, in mezzo all’alto
Silenzio angusto di tranquille notti,
Non abbiam noi celesti voci udite,
925O sole o alterne, al Creator supremo
Cantar inni devoti? e quanto spesso
Intere squadre di quei Spirti, o mentre
Stanno a lor guardie o van scorrendo in ronda,
Alle soavi note in pieno coro
930Unendo il suon di lor celesti lire
Si dividon la notte, e dolcemente
Levan di terra al ciel nostro intelletto!
Così parlando, se ne gían soletti,
Tenendosi per man, verso il felice
935Albergo lor che Dio medesmo avea
Scelto e piantato allor che in prima all’uso
E al diletto dell’uom tutto dispose.
Strettamente intrecciati allori e mirti
E qual più cresce altr’arbore di salde,
940Ampie e fragranti foglie il denso ombroso
Tetto ne feano; e il flessuoso acanto
Con ogni arbusto più odoroso e folto
Ne tessean quinci e quindi i verdi muri.
L’iri, la rosa, il gelsomino ed ogni
945Più vago fiore ergean le fresche e liete
Cime e pingeano le pareti intorno
De’ più leggiadri fregi: il suol smaltava
La violetta, il croco ed il giacinto
De’ più vivaci e gai color che al guardo
950Offrisse mai per ingegnosa mano
Di varie e vaghe pietre insiem contesto
Splendido pavimento. In sì bel loco
Penetrar non osava augello o belva
O insetto alcun: tal riverenza allora
955Tutti aveano per l’uom! Non mai più sacro
Solingo, dilettevole boschetto
Pane o Silvano o Fauno o Ninfa accolse
In favolosi canti. Eva, novella
Sposa, di molli ed odorose erbette,
960Di fiori e di ghirlande ornò la prima
Il nuzïal suo letto, e dalle sfere
Intuonâr l’imeneo celesti Cori
Nel fortunato dì che al primo padre
Guidolla il pronub’Angelo più adorna
965In sua nuda beltade e più vezzosa
Di quella un dì favoleggiata e colma
De’ doni degli Dei fatal Pandora
(Troppo ad Eva simíl nel tristo evento)
Quando da Erméte al malaccorto figlio
970Di Giapéto condotta, ella i mortali
Allacciò co’ suoi vezzi e fe’ vendetta
Dell’involato al ciel foco primiero.
Giunti all’ombrosa chiostra, ambo fermârsi,
Ambo dier volta, e sotto aperto cielo
975Adoraron quel Dio che il ciel, la terra
E l’aere e ’l firmamento e della luna
Il lucid’orbe e le stellanti rote
Trasse dal nulla. E tu la notte ancora
Festi, o supremo Fabro, e festi il die
980Ch’or nell’opra commessa abbiam fornito,
Nell’aïta scambievole felici,
Felici appieno in questo mutuo amore,
Che tu medesmo c’imponesti e tutti
I tuoi favor corona. A te pur anco
985Questa dobbiam delizïosa sede
Troppo ampia per noi soli, e dove i doni
In sì gran copia da te sparsi hann’uopo
Di chi nosco li goda e al suolo intanto
Caggion non colti; ma dal nostro dolce
990Nodo, tu il promettesti, immensa debbe
Uscir progenie a popolar la terra
Che il tuo poter, la tua bontade esalti
Insiem con noi quando il nascente sole
All’opre ci richiami, e quando al sonno,
995Soave dono tuo, facciano invito,
Com’ora, le cadenti ombre notturne.
Così dicean concordi, ed altro rito
Non seguitando che i devoti e puri
Sensi del core, a Dio più ch’altri accetti,
1000Ambo per mano, al bel segreto albergo
Si miser dentro, e dall’impaccio scevri
Di questi nostri abbigliamenti, a lato
L’un dell’altro si giacquero, nè volse
Le spalle Adamo alla gentil sua sposa,
1005Se ben m’avviso, nè gli arcani riti
Eva sdegnò del coniugale amore.
Salve, almo nodo coniugal, divina
Mistica legge, salve, o nobil fonte
Dell’umana progenie e solo bene
1010Che proprio fosti in paradiso e in mezzo
All’altre cose tutte in pria comuni.
Dagli uomini per te fra i bruti errando
Il cieco andò libidinoso ardore;
Strette per te, per te in ragion fondate
1015Le care parentele in prima furo,
E di padre e di figlio e di fratello
Uditi i dolci affettuosi nomi.
Sempre il mio labbro e la mia penna sempre
Tue lodi innalzeran, viva sorgente
1020Di sincere domestiche dolcezze
E santa e pura anco fra noi, qual fosti
Ne’ prischi dì fra i Patriarchi e i Santi,
Salve, almo nodo coniugal; tu sei
Segno agli aurei d’amor più scelti strali;
1025Ei sol per te la sua durevol face
Accende, ei sopra te lieto s’aggira
Sulle purpuree penne; ei teco regna,
Teco gioisce; non di Taidi e Frini
Nel compro riso e nei bugiardi vezzi,
1030Non fra l’orgie e le maschere procaci,
Non fra ’l tumulto di notturne danze,
Non nelle infette Corti o nei dolenti
Versi che della luna al freddo raggio
L’assiderato amante all’aura sparge
1035Per la bella tiranna, assai più degna
D’abbandono e di scherno. - Al dolce canto
De’ rossignuoli, l’un dell’altro in braccio
S’addormentâr gli sposi, e sulle ignude
Lor membra intanto dal fiorito tetto
1040Una pioggia scendea di molli rose
Che rinnovò l’alba vegnente. Oh! dormi,
Dormi, coppia beata, appien felice,
Se più felice esser non cerchi, e apprendi
A non saper di più! Ma già la notte
1045Della celeste vôlta ascesa al mezzo,
L’ombre spargea dall’alto, e fuori usciti
Per le notturne guardie all’ora usata
I Cherubini sull’eburnea porta
In bell’ordin guerrier stavano armati,
1050Quando a lui ch’appo sè là tien l’impero,
Gabrïel così disse: Esci, Uzzïello,
Colla metà di questi, e attento e destro
Costeggia l’austro: l’aquilon percorra
L’altra metade, e all’occidente entrambe
1055Si raffrontino poi. Ratta qual fiamma,
Si divide la schiera, altri allo scudo,
Altri all’asta girando. Indi a due prodi
Sagaci Spirti che gli stanno appresso,
Ei sì comoda: Iturïel, Zefóne,
1060Le preste ali spiegate, e niuna sfugga
Di questo loco più segreta parte
Alle ricerche vostre; e là più ancora
Spïate attenti ov’or del sonno in braccio
Quelle due vaghe creature stanno
1065Sciolte d’ogni timor. Celeste messo,
Qui giunto a sera, d’aver visto narra
Un de’ rei Spirti che le sbarre infrante
Chi ’l crederia? d’inferno, a questa volta
Con qualche a lui commesso empio disegno
1070Se ne venía: costui cercate e preso
Qui lo traete. Disse, e le raggianti
Squadre che oscuran col fulgór dell’armi
Il fulgór della luna, ei mosse. Andaro
Dritti al boschetto i due campioni, ed ivi
1075Di lurido in sembianza immondo rospo
Acquattato trovaro il fier nemico
D’Eva all’orecchio. Con diabolic’arte
Ei della mobil fantasia procaccia
Gli organi penetrarle, e a suo talento
1080Destarvi immagin strane e larve e sogni,
O con alito infetto i tenuti spirti
Che, qual da chiaro rio sottili aurette,
Sorgon dal puro sangue, irle spargendo
D’atro veneno, e generar scontenti
1085Egri pensier così, speranze vane,
Vani disegni e stemperate brame
D’un cieco superbir tumide e calde.
Lui tutto intento all’opra rea coll’asta
Iturïello leggiermente punse;
1090E, poichè al tocco di celeste tempra
Sparisce ogn’arte ed ogni inganno, e riede
Tosto ogni cosa al suo verace aspetto,
In sua forma infernal s’alza repente
Sovrappreso Satán. Così se vola
1095Sul negro acervo di sulfurea polve
Che pronta sta per minacciata guerra,
Una lieve scintilla, in aere a un tratto
Scoppia converso in vasta orribil fiamma.
Da stupor côlti all’improvvisa vista
1100Del truce Re balzâr gli Angeli addietro;
Ma il serran tosto intrepidi, e: Chi sei
Tu di quegli empi nell’abisso spinti?
(Lo richiedon crucciosi), e come osasti
Sottrarti al carcer tuo? Che fai? Che tenti
1105Qui trasformato e vigile all’orecchio
Di chi tranquillo dorme? A voi son io,
Satán ripiglia dispettoso, a voi
Dunque ignoto son io? Lo credo: innanzi
A me che tanto sopra voi sedea,
1110Mai non aveste d’apparir l’onore.
Il non mi ravvisar secura prova
È che di quello stuol voi ciurma siete.
Ma se lassù del Signor vostro in Corte
Voi mi vedeste un giorno, a che la vana
1115Dimanda vostra? A lui Zefón con scherno
Ribattendo lo scherno: E che! risponde,
Le stesse ancor le tue sembianze credi,
Spirto ribelle? E quel fulgór che in cielo
Te puro e fido circondava, ancora
1120Ti pensi aver? No: quella gloria insieme
Perì colla tua fè; del tuo delitto
E del carcere tuo l’orrore in fronte
Or soltanto ti sta. Ma vieni, a lui,
Che invïolati di serbar c’impose
1125Questi bei lochi e questa coppia illesa,
Debita renderai ragion severa,
Disse, e in quel suo rimproverar feroce
Il vago scintillò giovin sembiante
Di grazia insuperabile. Smarrissi
1130Satáno, e quanto la bontà tremenda
E augusta sia, sentì; vide in sua forma
Quanto è amabil virtù; videlo, e tristo
Di sua perdita fu, ma più l’afflisse
Il ritrovarsi agli occhi altrui sì scemo
1135Dell’antico splendore. Audace e baldo
Pur tuttavia si mostra, e: Teco, dice,
Eccomi pronto; al Duce tuo si vada.
Se qui pugnar si dee, con lui che manda,
Col messaggier non già, col Duce io Duce
1140Deggio affrontarmi, o con voi tutti insieme:
Così più gloria acquisterò vincendo,
O men ne perderò, se vinto io sono.
Il tuo timor, Zefón replica ardito,
Or qui vieta il provar quanto di noi
1145Anco un minimo e solo, a fronte possa
Di te malvagio, e debil quindi. Invaso
D’alta rabbia Satán più non risponde,
Ma qual fero corsier che il duro morso
Rode, superbo s’incammina: ei stima
1150Il fuggire o ’l pugnar vano del pari:
Tale un terror superno agghiaccia e doma
Quel cor ch’altro non teme. Omai son presso
Al punto occidental dove, trascorso
Il mezzo giro lor, giungeano appunto
1155I due drappelli, e in densa squadra uniti
Attendean nuovi cenni. Ad essi grida
Gabrïello da fronte: Ascolto, amici,
Vêr noi di piede un calpestìo frequente,
E già Zefóne e Iturïel discerno
1160Pel dubbio lume fra quell’ombre. Un terzo
Con lor s’avanza di real presenza,
Ma di scemo splendor, che agli atti, al truce
Sembiante par d’inferno il Prence: altrove
Ei non vorrà di qui torcere il passo
1165Senza contesa, e torve e arcigne io scorgo
Sue ciglia già: voi saldi state. Appena
Egli finì che i due colà fur giunti,
E in brevi detti chi traeano, e dove,
In qual opra, in qual atto, in qual sembiante
1170Da lor fu colto, raccontaro. A lui
Con fero sguardo Gabrïel sì disse:
Perchè il confine al tuo fallir prescritto,
Satán, rompesti, e qui nel loro incarco
Vieni quelli a turbar che fidi stanno
1175Contro il tuo fello esempio? A noi s’aspetta
Aver di tanta audacia or qui ragione,
E delle insidie che tramando stavi
A quella coppia in dolce sonno immersa,
E che in questo felice almo soggiorno
1180Locata ha Dio. Con dispettoso ciglio
Risponde a lui Satán: Di saggio in cielo
Tu stima avevi, o Gabrïello, e tale
Io già ti tenni pur, ma quel ch’or chiedi,
Dubitar me ne fa. Dov’è colui
1185Ch’ami le pene sue? Chi non vorrebbe,
Trovandone la via, scampar d’Averno,
Ancorchè là dannato? E tu, tu stesso
Romper non cercheresti i lacci tuoi
E audacemente avventurarti ovunque
1190Fossi più lungi dalla pena, e dove
Di scambiar col riposo i tuoi tormenti,
E col gioir più pronto il duol passato
Ricompensar sperassi? Ecco quel ch’io
Qui ricercai. Ma forse a te che solo
1195Conosci il ben nè mai provasti il male,
Or parlo invan: la volontade in fine
Di quei che là ci confinò, m’opponi:
Ebben; munisca di più salde sbarre,
Se in quell’atra prigion guardarci intende,
1200Le sue porte di ferro. A tue dimande,
Ecco le mie risposte: il resto è vero;
Ov’essi han detto, mi trovâr; ma quindi
Vorresti tu di vïolenza o trame
Dunque accusarmi? Con amaro scherno
1205Ei sì parlava, e l’Angelo guerriero
Sdegnosamente sorridendo: Oh! disse,
Qual danno in ciel, dacchè Satán ne cadde,
Satán, l’esperto estimator di saggi,
Eppur di là per sua follia sbalzato!
1210Ei dal suo carcer fugge, e in dubbio stassi
Or gravemente se sia saggio o folle
Chi dell’audacia sua ragion gli chiede
E degl’infranti suoi limiti inferni!
Cotanto savia cosa ei stima al suo
1215Dolor sottrarsi, al suo gastigo! e poi
D’accrescerli non cura! Or resta, iniquo
Spirto superbo, in tuo pensier fintanto
Che di fiamma settemplice avvampando
L’ira superna, alla tua fuga in mezzo
1220Non ti raggiunga, e negli abissi al suono
Del suo flagel terribil non ripinga
Quest’alto senno tuo, che ancor non seppe
Come pena non avvi che all’acceso
D’un infinito Dio furor s’adegui.
1225Ma perchè qui tu sol? perchè non venne
Tutto con te lo scatenato inferno?
Men aspro è il duol pe’ tuoi compagni, o meno
Atto al soffrir se’ tu? Valente Duce
Primo a fuggir dal duol, se alle tue schiere
1230Cotal ragion di fuga avessi addotta,
Qui senza fallo il disertor tu solo
Or non saresti. - Con un torvo sguardo
Gli risponde Satáno: Al par d’ogni altro
Io soffrir so, nè sbigottisco al duolo,
1235Angelo insultatore, e ben per prova
Sai se fero lassù m’avesti incontra,
Allorchè in tuo favor la ruïnosa
Folgore velocissima discese,
E all’imbelle asta tua soccorse all’uopo.
1240Ma i tuoi pur sempre vaneggianti detti
Móstranti ignaro assai di ciò ch’a esperto
E fido capitan dopo le dure
Passate prove e disastrosi eventi
Far si convenga, onde a perigli ignoti
1245La somma delle cose ei non esponga.
Quindi d’abisso a valicar gl’immensi
Deserti io solo, io sol m’accinsi e questo
Nuovo mondo a spïar, di cui non tace
Anco laggiù la fama. Io dar qui spero
1250Miglior albergo in terra o in aere a’ miei
Infelici compagni, ancor ch’io deggia
In tal conquisto far novella prova
Di ciò che tu, di ciò che ardiscan queste,
Incontro a me, tue leggiadrette schiere;
1255Di cui più facil fora e degno incarco
Servir lassuso al lor Signor, cantargli
Inni devoti intorno al trono, e starsi
Fra prescritte distanze umili e inchini
Che trattar l’asta e ’l brando. - A lui risponde
1260Tosto l’Angel guerrier: Dire e disdirsi,
Saggio vantarsi sfuggitor di pene,
Quindi un abbietto esplorator, conviensi,
A Duce, dimmi, o di menzogne e frodi
Ad un maligno artefice? E di fede
1265Tu favellar potesti? O sacro nome
Di fede profanato. E a cui tu fido?
A quella iniqua abbominevol, vile
Tua ciurma di ribelli, adatto corpo
Di capo tale? Oh! rara fede è quella
1270Fra voi giurata appunto allor che al vostro
Supremo re da voi rompeasi fede,
Ed apparir di libertà campione,
Mostro d’ipocrisia, vorresti adesso
Tu che sì basso il guardo, umil la fronte,
1275Più che alcun altro, alla presenza augusta
Del Re del ciel portavi? E perchè, dimmi,
Se non per torgli il trono e por te stesso
In vece sua? Ma quel ch’io dico, or nota
Va, là rifuggi onde fuggisti; se osi
1280Più in questi comparir sacri confini,
Con mille giri di catene avvinto
Giù ti strascino al tuo baràtro, ed ivi
Ti conficco così che a scherno poscia
Non avrai più di quelle porte mai
1285Le troppo lievi sbarre. - Ei sì minaccia;
Ma di minacce il fier Satán non cura,
E di più rabbia acceso. - Allor, soggiunge,
O gran custode di confini e porte
Altero Cherubin, parla di ceppi
1290Quand’io sia tuo prigion. Benchè sì spesso
Codeste alate spalle tue cavalchi
Il Re del cielo, e ’l trionfal suo carro
Cogli altri tuoi compagni al giogo avvezzi,
Per quelle vie d’astri smaltate, in giro
1295Tu strascini lassù, ben altro peso
Da questo braccio poderoso adesso
Aspettati a sentir. - Mentr’ei dicea,
Il rifulgente angelico squadrone
Più che fiamma si fe’ corrusco e rosso,
1300Ed in sembianza di crescente luna
Aguzzate le corna, intorno il prende
Ad accerchiar coll’aste in resta. In ricco
Campo folta così torce la messe
L’irte crestute cime ove le spinge
1305Gagliardo vento, e ’l buon bifolco intanto
Riguarda e teme che sol triste paglie
Lascin sull’aia poi le vôte spiche.
Nel gran rischio Satán, tutta raccolta
L’estrema possa sua, grande ed immoto
1310Sta qual Atlante o Teneriffe; agli astri
Giunge sua mole, e in sulle nere penne
Del gran cimiero lo spavento ondeggia;
Nè di lancia la man, di scudo il braccio
Sforniti son. Terribile conflitto
1315Già fra lor cominciava, e all’urto orrendo
L’Eden non sol, ma la siderea vôlta
Forse del ciel crollato avrebbe, o tutti
Di questo mondo gli elementi almeno,
Naufraghi e sciolti, nel disordin primo
1320Saríen tornati, se repente in cielo
Non sospendea l’onnipossente destra
Quell’aurea lance ch’ivi ancor fiammeggia
Fra lo Scorpio ed Astrea. L’Eterno in essa
Librò da prima ogni creata cosa
1325E le sfere e la terra e l’aria e ’l mare,
E in essa libra ancor battaglie e regni
Ed ogni evento di quaggiù. Due pondi
Or su v’impose, un di battaglia segno,
L’altro di fuga e a Gabrïel n’ascrisse
1330L’uno, l’altro a Satán: rapido alzossi
Questo e l’asta toccò. Ciò mira e dice
L’Angelo all’empio Spirto: Io la tua possa,
Satán, conosco, e tu la mia, non nostre,
Ma sol di lui che le ci diè; che giova
1335L’armi tentar, se quanto sol permette
Il ciel, vale il tuo braccio e vale il mio,
In cui dall’alto ora cotal s’infonde
Doppio vigor ch’io sotto i piè qual fango
Calpestarti potrei? Solleva in prova
1340Colassù gli occhi a quel celeste segno,
E vedi quanto debole e leggiero
Tu sei, se a me resister osi. - Il guardo
Leva Satáno e vede alto balzata
La lance sua; nè più, ma via sen vola
1345Rabbiosamente mormorando, e seco
Si dileguano insiem l’ombre notturne.