Il paradiso perduto/Libro nono

Libro nono

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John Milton - Il paradiso perduto (1667)
Traduzione dall'inglese di Lazzaro Papi (1811)
Libro nono
Libro ottavo Libro decimo


Satáno, avendo percorsa la terra con meditato inganno, ritorna di notte in forma di nebbia nel Paradiso, e s’insinua nel serpente che dorme. Adamo ed Eva al sorgere dell’aurora escono alle usate loro occupazioni. Eva propone al consorte di dividerle fra loro e che ciascuno lavori da sè a parte. Adamo vi si oppone, adducendo il suo timore che il nemico, del quale sono stati avvertiti, non venga a tentarla mentr’ella sarà sola. Eva, sdegnandosi perché egli non la crede né assai circospetta né assai ferma, persiste nel suo primo pensiero e vuol far prova di sua virtù. Adamo finalmente s’arrende. Il serpente la trova sola, le si accosta con destrezza, la rimira con meraviglia, le parla lusinghevolmente, innalzandola con le lodi sopra tutte le altre creature. Eva meravigliata nell’udirlo parlare, gli dimanda com’egli abbia acquistata la voce e la ragione umana che non ebbe fin allora. Il serpente le risponde aver ottenuto questi vantaggi pel frutto d’un certo albero ch’è nel giardino. Eva il prega di condurla a quell’albero, e trova ch’esso è quello della Scienza, a lei e ad Adamo vietato. Il serpente con molte astuzie e argomenti la induce alfine a mangiar delle frutta di quello: essa le trova squisite, e delibera per qualche tempo, se ne farà parte al suo sposo o no: finalmente gli porta un ramo carico di quei pomi. Adamo rimane attonito e costernato, ma per eccesso d’amore, risolve di perir secolei, e cercando estenuar la colpa, mangia anch’egli del frutto. Effetti di esso in ambedue. Eglino cercano di coprir la loro nudità: la discordia entra tra loro, e si accusano e rimproverano scambievolmente.


 
Non più di Dio che sulla terra scenda
Facil, benigno all’uom, non più m’è dato
D’Angelo favellar che al desco stesso
Coll’uom s’assida, ospite, amico, e in dolce,
5Amorevol colloquio i ricchi doni
Con lui divida della terra. Or denno
Di triste note risonare i carmi,
E raccontar la rotta fè, la turpe
Diffidenza dell’uom, le calpestate
10Celesti leggi, dell’offeso Nume
Il giusto sdegno, e la feral sentenza
Che il mondo empiêr di guai. La colpa or viene,
Vien seco indivisibile la morte,
E forieri di morte angoscia e pianto:
15Dolente sì, ma più sublime tema
Di quel furor che per tre volte intorno
Spinse ai muri di Troia il fero Achille
Sul fuggente nemico; assai più grande
Dello sdegno di Turno allor che tolta
20Gli fu la sposa, e più che gli odj acerbi
Di Nettuno e Giunone, ond’ebber tanto
Affanno i Greci e di Ciprigna il figlio.
Sì, ben più grande è l’argomento mio,
Se la Musa del ciel che mi protegge,
25Darammi stil conforme, ella che suole,
Nel notturno silenzio a me scendendo,
Dettare od inspirare i pronti versi
Non implorata, fin dal dì che prima
Dopo lungo indugiare io scelsi alfine
30L’alto subietto al canto. Armi e guerrieri,
Ch’altri stimò finor d’eroica tuba
Degna materia sol, l’ingegno mio
Destar non sanno, e per natura io sdegno
Di finti cavalieri in finte pugne
35Nojosamente raccontar le stragi,
Mentre miglior fortezza in faccia agli empj,
Crudi tiranni di tormenti e morte
Sprezzatrice magnanima e costante
Celebrator non ha. Corse ed arringhi
40Cantin pur gli altri, effigïati scudi,
Ricche divise, e per gran fregi e barde
D’argento e d’oro sfolgoranti intorno
Cavalieri e cavalli; indi le vaste
Adorne sale, i nobili conviti
45E ’l pronto stuol di siniscalchi e paggi;
Vulgare e bassa impresa, ignobil arte,
Non qual di vate o di poema a dritto
Può la fama eternare. A me, che ignaro
Son di tai studj e non li curo, innanzi
50Altro argomento sta per sè bastante
Ad innalzare il nome mio, se il peso
Degli anni e ’l freddo sangue e ’l freddo clima
Al disegnato vol deboli e manche
Non mi fan l’ali, e ben potrianlo, ov’io
55Fossi dell’opra il solo autor, non quella
Che a notte nell’orecchio a me l’arreca.
Già s’era il sol nell’ocean nascoso,
Già diffondeva un fioco e dubbio lume
Espero sulla terra, e dal confine
60D’un emispero all’altro il fosco ammanto
La notte distendea, quando Satáno
Che al minacciar di Gabrïello s’era
D’Eden fuggito, or fatto ancor più scaltro
In suoi disegni iniqui, e infellonito
65Ognora più dell’uomo alla ruina,
Sprezzando ogni più grave e certo danno
Che a lui sovrasti, impavido ritenta
La prima via. Fuggì di notte, e, scorsa
Tutta la terra, della notte al mezzo
70Tornò, la luce ognor cauto schivando
Per tema d’Urïel che già nel primo
Entrar suo lo scoperse e dienne avviso
Ai Cherubin custodi. Indi cacciato,
Pien di angoscia e di rabbia egli per sette
75Continue notti andò vagando; il cerchio
Dell’equinozio trapassò tre volte,
E quattro volte il carro della notte
Da un polo all’altro. Nell’ottava alfine
Ei fe’ ritorno, e per un varco opposto
80De’ Cherubini alle veglianti ascolte
Trovò furtiva, e non sospetta via.
Eravi un loco, onde più traccia alcuna
Or non riman (benchè il peccato oprasse
Tal cangiamento e non il tempo), dove
85Del Paradiso alle radici il Tigri
S’ingolfava sotterra, e quindi appresso
L’arbor di Vita in larga fonte all’aura
Uscìa di nuovo in parte. Ivi col fiume
S’incavernò Satáno, e su con esso
90Fra ’l nebbioso vapor poscia risalse,
E investigò dove celarsi. Ei tutta
Avea cerca la terra e tutto il mare
Oltre il Ponto salendo, oltre le pigre
Meotich’onde ed oltre l’Obio estremo,
95E giù dell’Austro agli ultimi confini
Scendendo poscia: inver l’Esperie piagge
Ei quindi scorse di Panáma al seno,
E quindi al suol che l’Indo e ’l Gange inonda.
L’Orbe intero così spïando ei venne
100Con sollecita cura e a parte a parte
Le creature tutte, in sè librando
Qual d’esse meglio alle sue trame adatta
Esser potesse, e alfin più scaltro il serpe
Di tutte giudicò. Fra tutte quindi,
105Dopo un lungo ondeggiar fra i suoi pensieri,
Lui di sue fraudi atto strumento elesse,
E in lui d’entrare e al più sagace sguardo
Di celar s’avvisò le perfid’arti:
Chè ogni scaltrezza in chi sì astuto nacque,
110Stata sarebbe di sospetto scevra,
Ma in altre belve, d’infernal possanza,
Che in loro oprasse oltre il brutal costume,
Dare indizio poteva. Ei sì risolse,
Ma prima lo scoppiante interno duolo
115Prese a sfogar così: - Quanto se’ vaga,
O terra, e al ciel simil, se anzi nol vinci
In tua beltà, degno di numi albergo
Più che dell’uomo, opra seconda, in cui
Forse il Fattor le prime idee corresse
120(Poichè qual Dio crear vorrebbe il peggio
Dopo il miglior?), terrestre ciel che intorno
Hai nobil danza di rotanti cieli
Che sol per te, lume aggiungendo a lume,
Le ufizïose loro eteree fiamme,
125Siccome appare, accendono, e nel seno
Ti vibran tutta de’ lor raggi a prova
L’alma virtù! Qual d’ogni cosa è centro
Quel Nume in cielo e tutto a sè rivolge,
Tal sei tu pur di queste sfere il centro,
130Chè tutte in sè non già, ma in te fan mostra
Di quell’igneo poter che informa e nudre
L’erbe e le piante, e agli animali imparte
Diversi gradi di più nobil vita,
Moto, senso, ragion, che tutti accolti
135Son poi nell’uomo. Oh con qual gioia scorsa
Tutt’intorno io t’avrei, se gioia alcuna
Entrare potesse in me! Qual vario sempre
Giocondo aspetto! or monti or valli or fiumi
Or selve or piani or terra or mare or liti
140Incoronati di foreste, rupi,
Antri, spelonche! Ma rifugio o posa
In loco alcun non io già trovo, e quante
Più delizie ho d’intorno, in cor più sento,
Come in sola d’affanno amara fonte,
145Addoppiarsi i tormenti. In me veleno
Fassi ogni gioia, e in cielo, in cielo ancora
Sarìa peggior la sorte mia. No, starmi
Nè qui desìo nè colassù, se domo
Pria non giungo a veder quel re superbo.
150Nè già scemar la mia miseria ho speme
Per quel ch’io cerco; al par di me dolente
Sol di far altri io spero, e peggio ancora
Seguane poi per me. Sparger ruine
Di questo cor feroce è il sol conforto;
155E se per forza o fraude io traggo alfine
Nel precipizio quei, per cui create
Fur queste cose tutte, il tutto ancora
Che nel bene e nel mal con lui s’unisce,
In un pari destino andrà ravvolto.
160Cada egli dunque, e furïoso scorra
Per ogni dove l’esterminio. Il vanto
Io solo avrò fra le possanze inferne
D’aver disfatto in un sol dì quel ch’opra
Fu di sei giorni e di sei notti intere
165Per lui ch’è detto Onnipossente; e forse
Gran tempo innanzi ei meditolla ancora,
O l’ebbe almen da quella notte in mente,
In cui scior seppi da servaggio indegno
La metà quasi dell’angelic’oste,
170E assai men folta colassù ridussi
La turba adoratrice. Egli, vendetta
Bramando, e il danno riparar sofferto,
Sia che a crear nuovi Angeli l’antica
Sua scemata virtude inabil fosse
175(Seppur questi da lui l’origin hanno),
Sia per maggior nostr’onta, empier le nostre
Sedi risolse d’un terrestre fango,
E l’uom da tanta sua viltade ergendo,
De’ bei doni del ciel, di nostre spoglie
180Adornarlo, arricchirlo. Il suo decreto
Ad effetto recò, l’uom fe’, per lui
Quest’Universo splendido costrusse,
Gli diè la terra per sua sede, in essa
Dichiarollo signore, ed, oh vergogna!
185L’ale avvilì degli Angeli pur anco
Al suo servigio, e posegli d’intorno
Di fulgidi ministri ascolte e ronde.
A ingannar di costor la vigil cura
Forza mi fu penetrar qui fra i ciechi
190Vapor notturni ascoso, e qui mi fia
Ora gran sorte il ritrovar fra queste
Macchie e cespugli addormentato il serpe,
Fra le cui torte spire io celi e copra
Me stesso e le mie frodi. Oh turpe, oh strano
195Avvilimento! Io che pugnai co’ Numi
Per ergermi sovr’essi, or son costretto
Dentro il loto a ravvolgermi e la bava
D’un bruto e questa mia divina essenza
Che già del cielo i primi onori ambìa,
200Ad incarnare, ad imbestiar! Ma dove,
Di vendetta il desìo dove non mena?
A che non scende ambizïon? Quant’alta
È più la meta ov’ella aspira, è forza
Che tanto più s’abbassi e, prima o poi,
205Soggiaccia ad ogni cosa indegna e vile.
E tu, vendetta, ancor che dolce in pria,
Come presto ti cangi, e il tosco amaro
In te stessa rivolgi! Ebben, nol curo;
Purchè a ferire ed atterrar tu giunga,
210Se non giungesti a più sublime scopo,
Questo del mio livor secondo oggetto,
Quest’uom sì caro al ciel, questo novello
Figlio del suo dispetto, opra di fango
Che tal formata fu solo per nostro
215Scherno maggiore. E non sarà ch’io renda
Odio all’odio, onta ad onta, oltraggio a oltraggio?
Così dicendo, come nebbia oscura
Che terra terra striscia, ogni palude,
Ogni boschetto andò spiando, e il serpe
220A trovar non tardò che al sonno in preda
Giaceasi avvolto in raddoppiati giri,
E in mezzo ad essi riposava il capo
D’astuzie pieno. Egli innocente ancora
Non sotto l’orrid’ombre e in cupe tane,
225Ma in grembo all’erba tenera dormìa
Senza timore e non temuto. Entrógli
Per le fauci Satán, tacito e leve
Del cerebro e del cor le intime vie
Gli penetrò, gli scorse, e aggiunse il lume
230D’intelletto e ragione al brutal senso;
Ma non turbógli il sonno, e il nuovo albòre
Stette là chiuso ad aspettare. Or quando
In Eden cominciò la sacra luce
A scintillar sugli umidetti fiori
235Esalanti l’incenso mattutino,
Mentre quanto germoglia e quanto spira
Dalla grand’ara della terra innalza
Mute laudi al gran Fabro e odor soavi,
Fuor se n’uscì l’umana coppia, e il suo
240Vocal, divoto ossequio al muto Coro
Unì dell’altre creature. I freschi
Olezzi del mattino e l’aure molli
Va poi godendo insieme e divisando
Come possa in quel giorno affrettar l’opra
245Che troppo per due soli in quel sì largo
Terren cresceva, e al suo consorte in pria
Eva sì prese a dir: - Ben possiam noi
Questo giardin rassettar sempre, o caro,
Sempre le piante e l’erbe e i fior disporne,
250Nostro sì dolce incarco: in fin ch’aìta
Non ci recan più mani, invan represso
Sotto il nostro lavor, più sorge ognora
Il gran rigoglio lor. Quanto nel giorno
S’opra da noi, questi arboscei spogliando
255Di troppi rami e ambizïose fronde
Od acconcio sostegno a lor giugnendo,
Tutto è perduto, e, nello spazio breve
D’una o due notti, la natura prende
Col suo vigor l’opere nostre a scherno;
260Tutto a imboschir ritorna. Il tuo consiglio
Proponi dunque, o ciò che in mente or vienmi
Non ti spiaccia d’udir. Fra noi divisi
Sieno i lavori: ove il desìo ti guida
O il bisogno è maggior, tu vanne, e a questo
265Boschetto intorno il caprifoglio avvolgi,
O là dirigi l’edera seguace
Ove meglio s’arrampichi e s’infrondi.
Io colà fra quei mirti e quelle rose
Fino al meriggio le mie cure intanto
270Impiegherò; chè, mentre uniti all’opra
Passiam così l’un presso all’altro i giorni,
Qual meraviglia se in sorrisi e sguardi
Si perdon l’ore, e nuovi obietti sempre
A nuovo ragionar materia danno,
275Talchè langue il lavor, sebbene impreso
Di buon mattino, e della cena intanto,
Che non abbiam mertata, il tempo arriva?
- O amata e sola mia compagna - a lei
Dolcemente così risponde Adamo -
280O fra quanto creò l’eterna mano
Oltr’ogni paragone a me più cara,
Al tuo provvido avviso, a questa cura
D’affrettare il lavor che Dio c’impone,
Come negar potrei debite lodi?
285Quale in donna esser può studio più bello
Che il domestico bene, e all’opre oneste
Il consorte eccitar? Pur sì severa,
No, Dio non fe’ del faticar la legge,
Che necessario od opportun ristoro
290A noi si vieti, o di colloquio, dolce
Nudrimento dell’anima, o di sguardi
E di sorrisi l’alternar soave,
Di teneri sorrisi, onde natura
Negò il bel dono a’ bruti ed ornò solo
295Il sembiante dell’uomo, esca gentile
Onde si pasce quell’amor che il nostro
Più basso fin non è. Creonne Iddio
Al travaglio non già penoso e duro,
Ma al piacer ci creò, piacer che giunto
300Sia con ragione. A questi andari, a queste
Frondose volte, non temer, per quanto
Ad agïato passeggio uopo ci fia,
Torran le nostre mani agevolmente
Ogni selvaggio ingombro, ed altre nuove
305In nostr’aìta giovinette braccia
Verran bentosto. Se però discaro
T’è il conversar soverchio, oppormi a breve
Lontananza fra noi non vo’: chè solo
Starsi, è talor la compagnia migliore;
310E a più dolce ritorno ci sospinge
Un picciolo ritiro. Io sol pavento
Che tu da me divisa un qualche danno
Possa incontrar: qual ci fu dato avviso
Dal ciel, tu il sai; tu sai qual vegli astuto
315Nemico che il suo ben perdeo per sempre,
E or invido del nostro, a noi con scaltro
Assalto va tramando onta e ruina.
Certo in agguato ei sta non lunge, e ’l tempo
Del suo vantaggio e il loco, avido aspetta,
320Quando disgiunti noi sarem, stimando
Vane le prove sue mentre l’un l’altro
Soccorrerci possiamo. O sia ch’ei tenti
A quel sommo Signor renderci infidi,
O il nostro disturbar tenero amore,
325Che forse in lui maggior invidia desta
D’ogni altro nostro ben, sia questo, o ancora
Peggiore il suo disegno, ah! tu, mia cara,
Quel fido lato ah! non lasciar che vita
Ti diè da prima e ch’or ti guarda e copre.
330Là dove onta o periglio ascosi stanno,
Il posto più dicevole e sicuro
È per la donna del suo sposo al fianco;
Ch’ei veglia a sua difesa o corre insieme
Ogni peggior destino. - A questi detti,
335Qual chi amor pari all’amor suo non trova,
Dolce ed austera insiem, con tutta in volto
La maestà dell’innocenza accolta,
Eva così risponde: - O Adamo, o figlio
Della terra e del cielo, e re non meno
340Dell’ampia terra tutta, il so che a trarci
Dentro i suoi lacci un fier nemico aspira:
Tu me n’avverti, e già l’udii pur anco
Dall’Angel che partìa, mentre sull’ora
Che i fior chiudon le foglie, indietro alquanto
345Tra questi arbor frondosi il piè rattenni.
Ma che sorgerti in cor dubbio potesse
Di mia costante fè vêr te, vêr Dio
Perchè un nemico può tentarla, ah! questo
D’udir non m’attendea. L’aperta forza,
350Incapaci, quai siam, di morte e pena,
È vana contro noi: dunque gl’inganni
Tu temi del nemico e temi a un tempo
Che l’amor mio, che la mia salda fede
Possan sedursi o vacillare. Ah! come
355Questi pensieri, Adam, per lei che tanto
T’è cara, nel tuo sen trovan ricetto?
Con questi dolci allor teneri accenti
Procura Adam racconsolarla: - O vaga
Del ciel figlia e dell’uomo, Eva immortale,
360Chè tal ti rende l’innocenza e ’l primo
Invïolato tuo candor, non io,
Perchè di te diffidi, ognor vicina
Ti bramo al fianco mio, ma perchè ancora
Gli assalti stessi del nemico nostro
365Vorrei che tu schivassi. Anco sedurti
Tentando sol, di turpe nota ei sparge
La tua virtù che corruttibil crede
Nè contro l’arti sue secura appieno.
Un’onta è questa, ancor che vana, e sdegno
370Tu medesma ne avresti. Or non ti spiaccia
Se da te sola io distornar procuro
Oltraggio tal, che l’inimico a un tempo,
Per quanto audace sia, contr’ambi noi
Non avrà forse di tentar baldanza,
375O vôlti in me primier ne fian gli assalti.
Nè la malizia e le coperte vie
Tu dispregiar di lui: chi que’ superni
Spirti sedur potè, sottile e destro
Ben esser dee. No, non stimar soverchia
380L’aìta altrui: dai sguardi tuoi maggiore
Fassi ogni mia virtude: a te dinanzi
E più saggio e più vigile e più forte
Mi sento, ov’uopo il richiedesse, e l’onta
D’esser sugli occhi tuoi vinto o deluso,
385Doppia virtù m’accenderebbe in petto.
E come tu del pari al fianco mio
Non sentiresti maggior forza al core,
E di venir coll’inimico a prova
Anzi non sceglieresti allor ch’hai presso
390Di tua virtude il testimon migliore?
Le domestiche sue vigili cure
E ’l coniugal tenero affetto esprime
Ad Eva Adam così; pur ella assai
Apprezzata da lui sua fè non crede,
395E dolce gli risponde: - In breve giro
Se rattenerci ognor così ristretti
Debbe un nemico o vïolento o scaltro,
E se niuno di noi per sè non basta
A stargli all’uopo incontra, e come in questa
400Perpetua tema ci direm felici?
Ma che! niun mal, se nol precede il fallo
Puote avvenirci alfin: ci oltraggia il nostro
Nemico, è ver, con la sua turpe stima
Di poterci sedur, ma quella turpe
405Speranza sua verun disnore in fronte
Non c’imprime però, che tutto torna
Sovr’esso a ricader. Perchè temerlo,
Perchè evitarlo dunque? Un doppio onore
Dallo schernito suo stolto disegno
410Anzi noi ritrarrem, l’interna pace,
E dal ciel testimon di nostra fede
Grazia sempre maggior. La fè, l’amore,
La virtù che son mai, se all’uopo soli
E senz’aìta altrui secura prova
415Di sè non danno? Ah! non crediam che scema
Nostra felice sorte abbia lasciata
Quel saggio Creator sì che del pari
Vivere in sicurtade uniti o soli
Noi non possiam. Troppo sarebbe incerto
420In cotal guisa il nostro bene, e a tanto
Periglio sottoposta, indegna fora
Del titol suo questa beata sede.
- Non lagnarti del cielo (allor soggiunge
Fervidamente Adam); tutte le cose
425Ottime uscîr di man del Fabro eterno:
Nulla quell’alta, onnipossente mano
Lasciò imperfetto: e l’uomo avrìa lasciato?
No, quanto sicurar da esterna offesa
Può ’l suo stato felice, appien tutt’ebbe.
430Suo rischio in lui sta sol, sebben la possa
Stavvi ancor d’evitarlo, e mai non fia
Che contro il suo voler danno riceva.
Ma franco è il suo voler; chè franco è quello
Che obbedisce a ragione; e retta Iddio
435Fe’ la ragione, ma le impose ancora
Di sempre star tra le maligne e false
Imagini del ben guardinga e attenta,
Onde contro gli espressi alti divieti
La male istrutta volontà non torca.
440Diffidenza non già, ma caldo amore
Mi move dunque ad iterar sì spesso
Gli avvisi miei con te; tu pur sovente
Porgimi, o cara, i tuoi. Fermi or noi stiamo,
Ma vacillar potremmo. Ah! sì, potrebbe
445Qualche fallace, lusinghiera imago,
Qualche nemico, insidïoso laccio
Avviluppar ragion non così desta
Com’ella esser dovrìa. Non gir cercando
Dunque una pugna ch’evitar è il meglio,
450E più agevole ancor, se tu non lasci
Il fianco mio. Non ricercato ancora
Il periglio verrà. Di tua fermezza
Brami dar prova? Ah! dammi quella in pria
Di tua docilità. Se lunge sei,
455Testimon di tua fè, di tua costanza
Come sarò? Pur tuttavia se stimi
Che non cercato rischio a coglier abbia
Entrambi noi più sprovveduti e lenti
Di quel che tu, così avvertita, or sembri,
460Va pur; chè, qui malvolentier restando,
Più lontana da me saresti ancora.
Va nel nativo tuo candor, riposa
In tua virtù, tutta la sveglia, Iddio
Le sue parti ha compiute, a te s’aspetta
465Compier le tue. - Così diceale il nostro
Antico sire: ella però non lascia
Il suo proposto, ed ultima soggiunge,
Ma sommessa ed umìl: - Tu mel consenti,
E negli ultimi detti anco tu stesso
470Pensi che un rischio inopinato entrambi
Assalir ci potrà men cauti forse
E men provvisti. Io più guardinga quindi
E più lieta men vo, nè già m’attendo
Ch’alla più debol parte in pria si volga
475Un nemico sì altier, ma pur, se tale
È il suo disegno, con maggior vergogna
Rispinto ei partirà. - Così dicendo,
Dolcemente la mano ella ritira
Dalla man dello sposo, e qual fu pinta
480Da’ greci vati boschereccia ninfa
Oreade o Driade o del Latonio coro,
Leggiadra e snella avviasi; e Delia stessa
Al divin portamento, a’ bei sembianti
Vinto avrebbe d’assai, benchè non d’arco,
485Siccome quella, e di feretra armata,
Ma sol d’arnesi rustici quai l’arte
Dal foco intatta e rozza ancor, formolli,
O qualche Angel recati aveali in terra.
Pale o Pomona rassembrar piuttosto
490Ella poteva o Cerere, in lor primo
Vezzoso fior di verginal beltade.
Con occhi accesi di desìo la segue
Adamo, e con la man vêr lei distesa
Di ritenerla agogna ancor; più volte
495Di rieder tosto ei l’ammonì; più volte
Verso il meriggio ella tornar promise,
E nell’ordin miglior tutto disporre
Quanto alla mensa è d’uopo, e a gustar quindi
Grato riposo allor che il sol più ferve.
500Eva infelice! Oh qual inganno è il tuo!
Qual ritorno ti fingi! Ahi fero evento!
No, dolce pasto e placida quïete
Da quell’ora fatale in paradiso
Non gusterai tu più. Tra i fiori e l’ombre
505Sta nascoso infernal, invido agguato,
Che di fè, d’innocenza e d’ogni bene
Ignuda ti rimanda! Infin dal primo
Spuntar dell’alba, di verace serpe
Sotto le forme, iva spïando attento
510Il fier nemico ove la prima e sola
Coppia ritrovi e faccia in lei di tutta
L’inchiusa stirpe un’ampia preda opima.
Cercò boschetti e campi, ove alcun gruppo
Sorgea più vago d’arbuscelli, e i segni
515Apparìan di cultrice, industre mano,
O d’uman piè qualche vestigio impresso,
Or sul margin d’un fonte, ora d’un rio
Di liete ombre coperto. Ei tutto intorno
Col guardo interrogando, ambi ricerca,
520Ma incontrar sopra tutto Eva in disparte
Egli desìa; desìa, sebben non spera
Ciò che sì rado avviene. Ai voti suoi
La sorte alfin oltre ogni speme arride,
E soletta la scorge. Un nuvoletto
525D’alme fragranze le ondeggiava intorno,
E folti cespi di vermiglie rose
L’ascondean per metade: il molle stelo
Ella s’inchina a raddrizzar de’ fiori
Che le incarnate, porporine, azzurre
530O di bei spruzzi d’ôr dipinte teste
Lascian cadere a terra languidette,
E con tralci di mirto al lor sostegno
Gentilmente le annoda. Ah! ch’ella intanto
Fra tutti il più bel fior, se stessa, obblìa,
535Chè lontano l’appoggio e sì vicina
Ha la procella! Spazïose vie,
Su cui dall’alto il cedro, il pin, la palma,
Diffondon ombra maestosa, allora
Ravvolgendosi audace in lunghe spire
540Tra i folti arbusti e fior che quinci e quindi
Fan per mano di lei serto alle sponde,
Or nascosto, or visibile ei traversa,
Ed a lei si avvicina. Ameni e vaghi
Tanto non fur del redivivo Adone
545Imaginati un dì gli orti famosi,
O quei d’Alcinoo, albergator cortese
Del figlio di Laerte, o quei non finti,
Ove con la leggiadra Egizia sposa
Iva a diporto il saggio Re. Satáno
550Molto il loco ammirò, ma più la bella
Abitatrice. Qual chi chiuso a lungo
In città popolosa, ove le folte
Case e latrine attristan l’aere, uscendo
In bel mattino alla stagione estiva
555Per ville amene a respirar le pure,
Campestri aurette, insolito diletto
Prova da quanto incontra, or dalle fresche,
Ora dalle recise erbe fragranti,
Ora dalle cascine, or dagli armenti,
560Da ciascun suono e da ciascuna imago;
Ma se vezzosa forosetta intanto
Passa a Ninfa simìl, quanto gli piacque
Or per lei gli divien più vago e caro;
Più che in altro però, sovr’essa il guardo
565Torna a fissar, nel cui leggiadro aspetto
Stima ogni gioia, ogni beltà raccolta:
Tal dolcezza nel cor scender sentissi
Satán, mirando il florido recesso
Ove così di buon mattino e sola
570Eva giungea. Le angeliche sembianze
Di femminil, dolce mollezza sparse,
Le sue grazie innocenti, ogni più lieve
Suo moto ed atto la malizia in lui
Giungono ad affrenare, e con soave
575Rapina a svergli dall’atroce petto
Il disegno feral. Stettesi alquanto
Di sua malvagità, di sua fierezza
Spogliato il crudo in stupida bontade,
Ed invidia, rancor, frodi, vendetta
580Vinto obbliò. Ma quel che in sen gli bolle,
E in mezzo al ciel lo seguirebbe ancora,
Rovente inferno ripigliò bentosto
Novella forza, e l’ammiranda vista
Di tante gioie a lui negate accrebbe
585Tutti i tormenti suoi. L’odio e la rabbia
Quindi ei raccoglie, se n’allegra e ’n questi
Accenti infiamma la feroce mente:
- A che venimmo, o miei pensieri? E quale
Dolce delirio immemori vi rende
590Di ciò che qui ci trasse? Odio fu quello,
Amor non già, nè di cambiare in queste
Gioie gli affanni miei speranza alcuna.
Solo il piacer che dal distrugger nasce
Ogni piacere, a me s’aspetta; ogni altro
595Perduto è omai. L’occasïon m’arride,
Trapassar non si lasci: ecco soletta
Ad ogni assalto mio s’offre la donna;
Lungi n’è Adam, per quant’io scorgo: è troppo
Colui sagace, vigoroso, altero;
600Benchè fatto di creta, ei tal non sembra
Nelle sue forme eccelse, e forse ancora
Non spregevol nemico esser potrebbe.
Ah! sì, dal duol, dalle ferite immune
Egli è, tal non son io: così cangiato,
605Avvilito così da qual ch’io m’era,
M’han le mie pene! È bella inver costei,
Divinamente bella e degno oggetto
Dell’amor degli Dei! Terror non spira,
Benchè terrore anco in amor si trovi
610Ed in beltà, se lor non fassi incontro
Odio più forte; e l’odio è allor più fero
Che sotto il vel di finto amor si cela;
E così trarla a sua ruina intendo. -
Così fra sè dicea chiuso nel serpe
615Il gran nemico dell’umana gente,
E ad Eva intanto s’avviò, non prono
Con ondeggianti, sinuose pieghe
Sul suol, com’indi in poi, ma di sua coda
Su circolar sostegno ei dritto s’erge
620In moltiplici rote, una sull’altra,
Di torreggianti spire. Alto sormonta
Il crestato suo capo, e quai carbonchi,
Gli fiammeggiano gli occhi; il liscio collo
Arde d’un oro verdeggiante in mezzo
625Ai pieghevoli giri, onde gli estremi
Volumi a fluttuar scendon sull’erba.
Dilettevole, amabile in sembianza
Egli si mostra, e serpe alcun più vago
Non fu visto giammai; non quelli, in cui
630Cadmo ed Ermione e d’Epidauro il Nume
Cangiati fur, siccom’è fama, o quelli
In cui si tenne che l’Ammonio Giove
Ed il Capitolino un dì s’ascose,
Per Olimpiade l’un, l’altro per lei
635Che in Scipio partorì di Roma il vanto.
Obbliquamente in pria, qual chi pur brama
D’appressarsi ad alcun, ma insiem paventa
Giugnere inopportuno, a lei di costa
Satán si tragge: o qual nocchiero esperto
640Presso una foce o capo, ove più varj
Soffiano i venti, a questa parte e a quella,
A seconda di lor, cangia governo,
E torce obbliquo delle vele il grembo;
Tal egli ancor varia i suoi moti, e ’n cento
645Scherzosi avvolgimenti a vista d’Eva
Il flessuoso strascico raggira
Onde allettarne i guardi. Ella ben ode
Di fronde uno stormir, ma ad altro intenta
Non si volge però; chè avvezza è spesso
650Veder davanti a sè scherzar pe’ campi
Le belve alla sua voce ubbidïenti
Più che non fu da greci vati pinto
Sommesso a Circe il trasformato gregge.
Più audace quindi le s’appressa in atto
655Di meraviglia e di stupore, a lei
L’altera cresta e lo smaltato collo
Più volte inchina lusinghiero, e lambe
Il terren tocco dal leggiadro piede.
Quel muto favellar, que’ guizzi alfine
660Richiamâr d’Eva il guardo; egli n’esulta,
E la lingua del serpe a nuovi umani
Accenti disciogliendo, ovver spirando
Nell’aere un vocal suono, alle sue trame
Diè principio così: - Sovrana eccelsa,
665Non istupir, seppur a te che chiudi
Tutte le meraviglie, oggetto alcuno
Mirabil esser può, nè gli occhi tuoi,
In cui tanta del ciel parte risplende,
Di sdegno armar, s’io così solo ardisco
670Di farmiti d’appresso e pascer quella,
Ch’ho d’ammirarti, insazïabil brama;
Nè paventai l’augusta fronte e ’l ciglio
Che maggior maestà spirano ancora
Fra questi ermi recessi. In te, perfetta
675Del grande Autore imagine sublime,
Tien fiso il guardo ogni vivente cosa
Ch’è a te per don del Creator soggetta,
E la celeste tua beltade adora,
Quella beltà che di più vasto degna
680Altro teatro fora e d’altri onori.
Entro questo recinto, in mezzo a queste
Belve, insensate spettatrici, e inette
A discerner perfin de’ pregi tuoi
Una piccola parte, or chi ti mira,
685Tranne un sol uomo? Ed un sol uomo ch’è mai,
Mentre locata fra gli Dei tu Dea
E da perpetuo d’Angeli corteggio
Adorata e servita esser dovresti? -
Così la voce lusinghiera sciolse
690Il tentator serpente, e d’Eva in core
Si fer strada quei detti. Al nuovo suono
Ella attonita resta, e: - Qual portento
Fia questo? alfin risponde - uman linguaggio
Nella bocca d’un bruto, e sensi umani!
695Alle belve finor negato il primo
Stimai dal ciel che sol le fe’ capaci
Di rozzi accenti e mormorio confuso.
Se luce di pensiero in esse splenda,
In dubbio io stonne; chè a’ sembianti, agli atti
700Molta ragione in lor sovente appare.
D’ogni altra belva più sottile e scaltro
Te, serpe, io conosca, ma voci umane
Atto a formar non ti credei. Rinnova
Or questa meraviglia, e narra come
705A te già muto ora il parlar s’è aggiunto,
E come sì piacevole ed amico
Più di tanti animai che al mio cospetto
Stan tutto il dì, mi ti dimostri. Parla;
Chè ben d’ascolto un tal prodigio è degno.
710- Bellissim’Eva, il tentatore astuto
Subito replicò, degna Reina
Di quanto in sè questo bel mondo serra,
A te l’imporre, a me s’aspetta i tuoi
Cenni obbedir, nè il soddisfarti adesso
715Difficile mi fia. Qual l’altre belve
Che van pascendo le calcate erbette,
Io pur m’era da prima, e abbietti e vili
Eran, come il mio cibo, i miei pensieri.
Il cibo e ’l sesso io discernea soltanto,
720Ma nulla di sublime e di gentile;
Finchè, per questi campi un dì vagando,
A scorger venni una superba pianta
Che tutta carca rifulgea da lunge
D’aurate insieme e porporine poma.
725M’appresso a vagheggiarla, e tal si spande
Da lei soave peregrino odore
Che più i sensi m’alletta e mi lusinga
De’ finocchietti teneri, fragranti,
E delle mamme che stillanti e colme
730Recan di latte le pasciute gregge
In sulla sera e non succhiate ancora
Dai giovin figli alle lor tresche intenti.
Di gustare i bei frutti ardente brama
Tosto mi nacque, e d’appagarla tosto
735Io pur presi consiglio, e fame e sete,
Due stimoli possenti, in me da quella
Dolce fragranza anco innaspriti, a un tratto
Mi spinser sulla pianta. Agli alti rami,
Che a gran fatica il tuo disteso braccio
740Può giugnere a toccare o quel d’Adamo,
Avviticchiato pel muscoso tronco
Su, su m’alzai. D’un invido desire
Ogn’altra belva che a mirarmi stava,
Struggeasi a piè dell’arbore, agognando
745Nè potendo salir. Giunto là dove
Pendeami intorno allettatrice e folta
Di que’ pomi la copia, avidamente
Io mi diedi a spiccarli, e farne appieno
Sazie le voglie mie chè in pasco o fonte
750Non mai trovato avean dolcezza tanta.
Satollo alfine, in me subito farsi
Sento mirabil cangiamento: un raggio
Di viva luce a rischiararmi scese,
Aura superna ricercommi il petto,
755Nè il parlar mi mancò, bench’io serbassi,
Come tuttor, le prime forme. A grandi
Sublimi studj da quel punto io tutti
I miei pensier rivolsi e quanto il cielo,
L’aere e la terra abbraccia e quanto in essi
760È di vago e di buon, colla capace
Mente tutto indagai, tutto discersi.
Ma guanto altrove di più bel si trova
E di miglior, nel tuo divino aspetto
Unito io vidi e nel celeste lume
765Di tua bellezza. No, bellezza eguale
O simile alla tua certo non evvi.
Ciò mi spinse a venir, benchè importuno
Forse, per ammirarti, e omaggio e culto
Render a lei che, a gran ragion, d’ogni altra
770Creatura e del mondo ebbe l’impero. -
Così ripien dell’infernal possanza
Dicea l’accorto serpe, e incauta e presa
Da maggior maraviglia Eva soggiunge:
- Le somme lodi, o serpe, onde cotanto
775Tu di quel frutto la virtude estolli
Da te provata sol, sospeso, incerto
Tengono il creder mio. Ma di’, tal pianta
Dove e quanto di qui cresce lontana?
Molte e diverse, a noi tuttora ignote,
780Qui sorgon piante, e tal dovizia a noi
S’offre pertutto di squisite poma
Che non tocca di lor la più gran parte
Dai curvi rami incorruttibil pende;
Finchè a tante ricchezze un giorno sorga
785Novella gente e sgravino altre mani
Alla natura l’ubertoso grembo.
- Breve, o Reina, e facile è la via,
Lieto risponde a lei l’astuto serpe:
Per la pianura, oltre un filar di mirti,
790Appresso un fonte e dopo un bel boschetto
Di balsamo e di mirra. Ivi bentosto
Sarai, se accetti la mia scorta. - Andiamo,
Eva soggiunge: e al mal oprar veloce
Egli a vicenda or si raggruppa or scioglie
795Ratto e lieve così che dritto sembra
In suoi viluppi camminar. La speme
Alto gli leva il collo, e per la gioia
D’una luce maggior gli arde la cresta.
Come pingue vapor, da gel notturno
800Cinto e stretto talor, s’erge nei campi,
Indi agitato si converte in chiara,
Tremula vampa, a cui maligne larve
Spesso, siccom’è fama, unite vanno,
E col suo lume ingannator travia
805Sovente il peregrin che dentro a ciechi
Burroni e stagni alfin s’affonda e perde
Privo d’aìta; tal risplende il serpe,
E la credula nostra antica madre
Conduce con sue fraudi alla radice
810D’ogni mal nostro, all’arbore fatale.
Quand’ella il vede, al guidator rivolta,
- Ben potevám di qui lontani, o serpe,
Rimanerci, gli dice; ancor che tanta
Copia di frutte da quest’arbor penda,
815La lor virtude, i lor stupendi effetti
Mostrinsi pur in te: toccar perfino
A noi non lice questa pianta: Iddio
Così c’impose, e di sua voce figlio
A noi lasciò questo divieto solo.
820In nostro arbitrio è il resto, ed è soltanto
La ragion ch’ei ci diè la nostra legge.
- E fia ciò vero? - insidïoso a lei
Replica il tentator - non tutte dunque
Gustar potete queste frutta? e Dio
825Così vi disse allor che tutto in terra
E nell’aer sommise al vostro impero?
- De’ frutti d’ogni pianta, Eva soggiunge
Innocente tuttor, gustar ci lice;
Ma del frutto che dà quest’arbor vago
830Posto in mezzo al giardino, Iddio medesmo:
Non ne gustate e nol toccate, o morte
Avrete inevitabile, ci disse.
I brevi detti ella chiudeva appena,
Che, fatto quel maligno anco più baldo,
835Amor per l’uom fingendo e zelo e sdegno
Per l’oltraggio ch’ei soffre, un nuovo aspetto
Riveste, e par che fra magnanim’ira
Incerto ondeggi; maestoso e grave
Quindi si leva, e a dir sublimi cose
840Pronto si mostra. Nell’antica etade
Tal in Atene o Roma, ove fiorìa,
Muto dipoi, libero dir facondo,
Celebrato orator quando al sostegno
Di gran causa accingeasi, in sè raccolto
845Tutto si stava, e pria che l’aurea piena
Sgorgasse dalle labbra, il volto, il ciglio,
Ogni gesto, ogni moto in lui parlava
Ed ascolto chiedea; talor rapito
Dallo zelo del dritto e impazïente
850D’esordj e indugi, all’argomento in mezzo
Fervido si slanciava. In simil guisa
S’atteggiò quell’iniquo, erto levossi
E all’arbor vôlto, impetuosamente
Così proruppe: - O sacra, o eccelsa pianta,
855Di Saper madre e largitrice, or chiara
Sento in me la tua possa, or che discerno
Delle cose non sol le fonti e i semi,
Ma di que’ sommi Artefici, per quanto
Saggi stimati sieno, ancor gli arcani.
860No, Reina del mondo, a tai minacce
Di morte ah! non dar fè: voi non morrete:
Morir! perchè? pel frutto? Ei più sublime
Vita v’arreca sol. Morte paventi
Da chi la minacciò? Me, me riguarda
865Che toccai, che gustai quell’almo cibo;
Eppur vivo non sol, ma vita n’ebbi
Di quella assai più luminosa ed alta
Che assegnommi il destin, calcato e vinto
Dal mio felice ardire. All’uom si nega
870Ciò ch’è libero a’ bruti? E così lieve
Trascorso accenderà d’un Dio lo sdegno?
Nè fia piuttosto ch’ei medesmo ammiri
Quell’audacia magnanima che, a vile
La morte avendo (checchè sia la morte)
875E le minacce sue, più nobil grado
Cercò di vita, e ’l bene e ’l mal del paro
Conoscer volle? Aver del ben contezza
Troppo conviensi; e il mal (seppure un vôto
Nome ei non è) perchè celar si debbe?
880Meglio l’evita chi ’l conosce. Iddio
Nuocervi ed esser giusto insiem non puote:
S’ei non è giusto, ei non è Dio; nè vuolsi
Più obbedire o temer. Così la stessa
Vostra tema di morte ardir v’insegna.
885Qual esser può d’un tal divieto il fine?
Non vuol ei col timor tenervi ognora
Suoi ciechi, umìli, adoratori abietti?
Dal giorno, egli il sa ben, dal giorno in cui
Gustiate queste frutta, al vostro sguardo
890Ch’or sì chiaro vi sembra, eppure è fosco,
Si squarcerà, si purgherà la nube;
Pari sarete a Numi, e al par vi fia
Del ben, del mal l’alta scïenza aperta.
S’io d’uom le interne facultadi ottenni,
895Ben è ragion che somiglianti a Dei
Voi divenghiate. La brutale essenza
Io cangiai nell’umana, e voi l’umana
Cangerete in divina. Ecco la morte
Forse che vi s’intima, il depor questa
900Vostra natura e rivestir quell’altra
Alma e celeste. Oh bel morire! oh folli
Minacce! oh lieto e desïabil danno!
E che son mai gli Dei talchè l’uom farsi
Non possa a loro egual, se eguale il pasca
905Divino cibo? Essi fur primi, e quindi,
Che tutte cose di lor man fur opra,
Presso a chi venne poscia, acquistan fede.
Dubbio ciò parmi assai; dal sen di questa
Vaga terra che il sol scalda e feconda,
910Tutto uscire io rimiro, e nulla mai
Da quei sterili Dei. S’eglino autori
Del Tutto son, chi la scïenza dunque
Del ben, del male in questa pianta ha chiusa
Sì che, malgrado lor, saggio ad un tratto
915Dell’alme frutta il gustator diviene?
E in che gli offende l’uom, s’egli all’acquisto
Aspira del saper? qual danno a Dio
Dal saper vostro? E come mai, se tutto
Suggetto è a lui, contro sua voglia ancora
920I doni suoi quest’arbore dispensa?
Forse ad un tal divieto invidia il mosse?
E nel seno d’un Nume invidia alberga?
Queste, sì queste ed altre assai ch’io taccio,
Ragioni appieno vi convincon quanto
925Uopo del frutto abbiate. Umana Dea,
La man vi stendi e senza tema il gusta.
Tacque, e di lei nel cor facil la via
Ritrovaron que’ detti. Il guardo affisa
Ella sul frutto, la cui vista sola
930Era sì tentatrice, e ’l suon di quelle
Persuadevoli voci, in cui le sembra
Scorger espressa la ragione e ’l vero,
Le si raggira entro l’orecchie ancora.
A mezzo omai del suo celeste corso
935S’avvicinava il sole, e già la fame
Che il saporoso odor de’ vaghi pomi
Irritava ancor più, s’era in lei desta,
E di côrne e gustarne al cupid’occhio
Fea possente lusinga. Alquanto in prima
940Però s’arresta incerta, e in sè rivolge
Questi pensieri: Alte, ammirande sono
Inver le tue virtudi, o d’ogni frutto
Frutto miglior, benchè per l’uom non sieno.
Gustato appena, tu snodasti al bruto
945La rozza lingua al favellare inetta,
E gl’insegnasti a celebrar tue lodi:
Nè le tue lodi quei medesmo tacque
Che a noi ti divietò, quand’egli il nome
D’arbore del Saper ti diè, del grande
950Saper che il bene e ’l mal libra e distingue.
E a noi poscia negotti! Ah! quel divieto
Le tue virtù più scopre, e quanto avrebbe
Uopo de’ doni tuoi la nostra sorte.
Com’esser può che d’un ignoto bene
955Ci procacciam l’acquisto? E un bene ignoto.
Mentr’anco il possediam, fors’è diverso
Da quello onde siam privi? Or s’egli dunque
Il saper c’interdice, un ben ci vieta,
Ci vieta l’esser saggi. Un tal comando
960Obbligarci non può. Ma se dipoi
Nelle catene sue Morte ci serra,
Dai sublimi pensier, da questa nostra
Libertade qual pro? Nel dì che al frutto
Il labbro accosterete (è tal la legge),
965Preda siete di morte. Or come il serpe
Morto non giace? Ei n’ha gustato e vive,
Vive e parla e ragiona e appien discerne
Ei ch’era privo di ragion. La morte
Per noi soli inventossi? e questo cibo
970Che di superna luce empie la mente,
A belve si riserba e a noi si niega?
Sì, par ch’ai bruti ei si riserbi: eppure
Quei che primo fra lor ne fe’ la prova,
Invidia non ne mostra, anzi con gioia
975Del ben che gli toccò c’invita a parte,
Consiglier non sospetto, all’uomo amico,
Non ingannevol, non maligno. Adunque
Che mai pavento? anzi, conosco io forse
Ciò ch’io debba temer, se cieca, ignara
980Vivo così del ben, del mal, di Dio,
Di morte e legge e pena? In questo divo
Frutto che il guardo appaga e ’l gusto alletta,
Qui il rimedio si sta: questo mi puote
Sparger l’alma di luce e saggia farmi.
985Che dunque mi ritien? perchè nol colgo,
E corpo e mente io non ne pasco insieme?
Mentre così dicea, l’audace mano
(Ahi terribil momento!) al frutto stese,
Lo spiccò, lo gustò. D’orror la terra
990Tutta fremè; dalle riposte sedi
Profondamente sospirò Natura
E per ogni opra sua segni di duolo
Diede e dell’alta universal ruina.
Ratto s’invola dentro al bosco intanto
995Il serpe reo, nè già vi bada tutta
Al novello sapor la donna intesa.
Piacer sì dolce in alcun frutto mai
Di trovar non le parve, o così fosse
Veracemente, o l’agitata idea
1000Dalla speranza del Sapere accesa
E già sognante i divi eccelsi onori,
Inganno le facesse. Avidamente
Senza ritegno alcuno ella il divora,
Nè sa che morte inghiotte. Alfin satolla,
1005Di vinoso licor quasi ebra e calda,
Così esulta in suo core: - Arbor sovrano
Che tanto ogni altra pianta in pregio avanzi,
O di felicità, d’almo sapere
Dispensator possente, e tu finora
1010Negletto rimanesti e senza onore?
E quasi di natura un germe vano
Le belle poma tue pendêro intatte?
Ah! più non fia così. Mia prima cura
Tu sarai quind’innanzi: io le dovute
1015Lodi al tornar d’ogni novella aurora
Qui tornerò a cantarti, e i rami carchi
Di sì ricco tesoro a tutti aperto
Disgraverò, finchè, di te nudrita,
In sapienza io cresca e ugual divenga
1020A’ Dei che tutto sanno, e invidian poscia
Altrui quel ben ch’essi largir non ponno,
Chè tanto qui, se dono lor tu fossi,
Cresciuto non saresti. A te dipoi,
O Sperïenza, incomparabil guida,
1025Quanto degg’io! Senza di te sugli occhi
Avrei tuttor dell’ignoranza il velo:
Tu mi sgombrasti del saper la via
E a que’ misteri ebbi per te l’accesso
In cui s’asconde: e forse anch’io del cielo
1030Or m’ascondo agli sguardi. Alte e rimote
Troppo son quelle sedi onde si possa
Ogni cosa quaggiù scorger distinta.
Forse altre cure han disviato ancora
Il vigil occhio di quel sommo nostro
1035Divietator che appien si fida in tanti
Esploratori suoi. Ma come in faccia
Comparirò d’Adam? Degg’io svelargli
Qual io divenni, ed invitarlo a parte
Di mia felicitade, o meglio fia
1040Ch’io per me sola il gran vantaggio serbi
Ch’or m’acquistai? Quel ch’al mio sesso or manca,
Gli aggiugnerò così, così d’Adamo
Accrescerò l’amor, miei pregi eguali
Saranno a’ suoi, forse maggiori ancora!
1045Chi sa? nè scopo de’ miei voti indegno
Questo sarìa. Libero forse è mai
Quei ch’è minor? Sì, questo il meglio fora;
Ma se di ciò che feci Iddio s’accorse,
E morte me ne segue? Adam congiunto
1050Ad un’altr’Eva allor, godrà felice
Con lei la vita; ed io?... Mortal pensiero!
Son risoluta: Adam con me divida
Le mie gioie, i miei mali; ei m’è sì caro
Che andrei con seco a mille morti, e, priva
1055Di lui, la vita a me vita non fora.
Così dicendo, all’ospital possanza,
Che albergar nella pianta ella si crede,
Ed informar del néttare divino,
Del succo irraggiator le belle poma,
1060Umil s’inchina e di là torce il passo.
Desïoso aspettando il suo ritorno
Adamo intanto, ad adornarle il crine
E coronare il suo rural lavoro
Avea di scelti fior tessuto un serto,
1065Qual delle messi alla regina usati
Son d’offerire i mietitor sovente.
Qual contento, qual gioia in mente ei volge
Al ritorno di lei! Come del lungo
Indugio ei spera compensar l’affanno!
1070Ma pure il cor con interrotto e spesso
Palpitar gli porgea presagio tristo
Di qualche danno. Ad incontrarla alfine,
Per quella via ch’ella partendo tenne,
Verso la pianta del Sapere il piede
1075Egli rivolge, e in lei che riede appunto,
Colà presso s’avviene. In mano un ramo
Ella tenea di quelle vaghe frutta
Che côlte pur allor, ridean di molle
Lanugine cosperse, e ambrosio odore
1080Spargeano intorno. Ella ver lui s’affretta,
E già troppo sollecita nel volto,
Prima ch’ella parlasse, avea la scusa,
Che in queste a voglia sua dolci parole
Prosegue poi: - Non dell’indugio mio
1085Stupisti, Adam? Di tua presenza priva,
Oh quanto fur penose e a scorrer lente
L’ore per me! Qual non sentito innanzi
Struggimento amoroso a provar ebbi!
Ma fu la prima volta e fia l’estrema;
1090No, non più mai questo crudele affanno
Che inesperta cercai, soffrir vogl’io,
Di star lungi da te. Ma qual ventura
O qual prodigio mi ritenne, ascolta.
Qual ci fu detto, periglioso cibo
1095Quest’arbore non dà, nè schiude il varco
A ignoto mal, ma stenebra le luci
Per divina virtude, e cangia in Nume
Chi le frutta ne gusta. Il saggio serpe,
O non soggetto alla severa legge
1100Che a noi lo vieta, o dispregiarla osando,
Ne fe’ la prova, e non già morte ei n’ebbe,
Siccome a noi si minacciò, ma voce
Umana e umani sensi e di ragione
Meraviglioso lume. Ei sì mi strinse
1105Co’ detti suoi che ne gustai pur io,
E alle promesse corrisponder tosto
Sentii gli effetti; lucido lo sguardo
Di fosco ch’era in pria, più grande il core,
Più sublime lo spirto e caldo e pieno
1110Già di virtù divina. Io l’alto acquisto
Per te bramai, senza di te lo sdegno:
Chè sol teco m’è dolce ogni mia gioia,
E con te non divisa, amara tosto
E grave mi divien. Tu pure il frutto
1115Prendi dunque e l’assaggia, onde per sempre,
Come un eguale amor ci unisce e lega,
Egual gaudio ci unisca e sorte eguale;
Nè il tuo rifiuto sia cagion fra noi
D’ordin vario di vita, e tardi io voglia
1120Lasciar per te la diva essenza allora
Che più non mel consenta immobil fato.
Festante, sollazzevole dicea
Eva così, ma le accendea le gote
Un colpevole insolito rossore.
1125Il fatale misfatto udito appena,
Stupido, immoto, pallido si feo
Adamo, e tutte un freddo gel gli corse
Le vene e l’ossa, e le giunture sciolse.
Di man gli cade l’apprestato serto,
1130E le già fresche, or appassite rose
Van sparte al suol; la voce e le parole
Gli toglie un alto orror; nel cor gemente
Così tacito poi seco favella:
- O del mondo ornamento, o dell’Eterno
1135Ultim’opra e migliore, in cui quant’altro
D’amabil, di gentil, d’almo e divino
Può scorger occhio o imaginar pensiero,
Tutto splendea, come perduta sei!
Come a un tratto perduta! ed ogni vanto
1140Dell’onor tuo, di tua beltà disparve!
Oh vittima di morte! Al sacro frutto
Come la mano rea stender potesti
E ’l gran divieto vïolare? Ahi quale
Nemica ti deluse ignota frode
1145E trascinotti al precipizio ov’io,
Io pur trabocco; chè con te già fermo
Son d’incontrar la morte! E come privo
Di te viver poss’io? come lasciare
Tua dolce compagnia? come dal petto
1150Svellermi il forte amor che a te m’annoda,
E per questi ermi boschi errar solingo
Un’altra volta? Ah! se un’altr’Eva ancora
D’un’altra costa mi formasse Iddio,
Ah! mai del cor la tua diletta imago
1155Non m’uscirebbe, mai. No, no, lo sento,
Infrangibil catena a te mi stringe
Della natura: di mia carne sei
Tu carne, ossa dell’ossa, e ’l tuo destino,
Felice o tristo, il mio destin fia sempre.
1160Disse, e qual è chi d’angoscioso e fero
Sbigottimento in sè ritorna, e, vinto
Il tumulto del cor, sommesso cede
A irreparabil sorte, ad Eva questi
Detti volge tranquillo: - Ah quale ardire,
1165Eva, fu il tuo! Qual perigliosa prova
Far su quel pomo al digiun sacro osasti,
Mentre lungi non sol la mano e il labro
Star ne dovea, ma il cupid’occhio ancora!
Ma chi può rivocar le andate cose
1170E ’l già fatto disfar? Non Dio medesmo,
Non il Destin. Nè tu morrai, lo spero,
Nè cotanto odïoso è forse il fallo,
Da che nudrissi di quel frutto il Serpe
E il dissagrò col suo profano dente
1175E comun cibo il rese. A lui mortale
Esso non fu, tu lo dicesti, ei vive
E più sublime ancor grado di vita
Ottenne, all’uom fatto simìl: del pari
Dunque fia pur che noi sorgiamo a quello
1180D’Angeli e Semidei. Credere inoltre
No, non poss’io che quel sì saggio e grande
Del Tutto creator, benchè sì gravi
Fusser le sue minacce, al nulla primo
Voglia noi ritornar, noi che sull’altre
1185Opre sue tutte ei sollevò cotanto,
Di tanti doni ornò. Per noi creato
Fu il resto e a noi soggetto, e nosco insieme
Cadrebbe pur nella ruina stessa.
Dunque crear, distruggere, deluso
1190Rimaner, perder l’opra Iddio potrebbe?
Chi può pensarlo? A trar dal nulla un nuovo
Mondo il solo voler, lo so, gli basta;
Ma non perciò men ripugnante ei fia
Sempre al disfarci, onde il nemico altero
1195Con scherno a dir non abbia: Ecco la sorte
Di lor, cui Dio più favoreggia! a lungo
Chi puot’essergli caro? Io fui la prima
Vittima sua, l’uomo è seconda, or quali
E quante poi fien l’altre? A tai dileggi
1200Dar argomento ei non vorrà. Ma sia
Quel ch’esser puote, al tuo destin congiunto
Il mio fia sempre, e la sentenza pari
Sovr’ambedue: se morte a te m’unisce,
Mi fia cara la morte; un laccio io sento,
1205Un saldissimo laccio in questo seno
Che all’altra mia metà un’avvince e tira.
È mio ciò che tu sei, sola una carne
Noi siamo, un esser solo, e s’io ti perdo,
Perdo me stesso. - Oh glorïosa prova
1210D’un amor senza pari! (allor risponde
Eva) sublime esempio che m’infiamma
Ad emularti! ma, inegual cotanto,
Come il poss’io? Fuor del tuo caro lato
È gloria mia l’esser uscita, e tutto
1215Una soave gioia il sen m’inonda,
Quando del nostro amor, d’un cor, d’un’alma
In ambi noi t’odo parlare; e certa
Prova men reca questo giorno. Innanzi
Che morte, od altro più di morte orrendo,
1220Il nostro dolce nodo a romper venga,
Tu fermo sei d’entrar con meco a parte
Della mia colpa, se gustar è colpa,
Questo bel frutto che un sì caro pegno
(Forz’è ch’ognor dal bene il ben germogli)
1225Della tua tenerezza oggi mi porge:
La cui sublime tempra appien, com’ora,
Senz’esso, intesa io non avrei giammai.
Ah! s’io credessi che seguire al mio
Ardir dovesse l’intimata morte,
1230Ogni peggior destin soffrire io sola
Certo vorrei, sola morir piuttosto
Che farmi a te consigliatrice mai
D’alcun tuo danno, ed assai meno or quando
L’incomparabil tuo verace amore
1235Conosco a certi e manifesti segni.
Ma ben diversi i fortunati effetti
In me ne provo, e, non che morte, io sento
Fatta maggior la vita, acuto il guardo,
Nuove speranze, nuove gioie, e sparso
1240Il labbro mio di sì divin sapore,
Che quanto di più dolce in pria gustai,
Insulso od aspro or sembrami. T’affida
Alla mia prova, Adam; gustane, e ’l vano
Della morte timor consegna ai venti.
1245Così dicendo, ella abbracciollo e pianse
D’una tenera gioia, a tant’altezza
Spinto veggendo in cor di lui l’amore
Che per lei scelga d’affrontar la morte
E lo sdegno del cielo. In premio quindi
1250(Premio ch’è ben dovuto a quella rea
Condiscendenza) dal divelto ramo
A lui con mano liberal presenta
Le frutta allettatrici. Egli sospeso
Punto non sta, ma, benchè scorga il meglio,
1255Da troppo amore e da que’ vezzi vinto
Le prende e le divora. Al nuovo eccesso
Che la gran colpa original compiea,
Dall’intime sue viscere la terra,
Come tra fiere ambasce, un’altra volta
1260Tutta tremò, mise natura un nuovo
Cupo lamento, rinfoscossi il cielo,
E al mormorar del tuono alcune stille
Gittò, quasi di pianto. Adam non prende
Di ciò pensiero, a satollarsi inteso;
1265Nè il primo fallo rinnovar paventa
Seco la donna e con l’esempio il molce.
Alfin, siccome dal fumoso esálo
Di fresco vin possente ambo compresi,
Nuotano nella gioia, e lor rassembra
1270Virtù divina entro sentir che il tergo
Lor cominci ad armar d’eterei vanni,
Onde fra poco aver la terra a scherno.
Ben altro in essi opra però da prima
Quel frutto ingannator, sfrenate, impure
1275Voglie destando: egli lascivo il guardo
Volge sopr’Eva, ed Eva al par lascivo
Lo rivolge su lui; fra lor divampa
Un cieco ardore, e con tai detti Adamo
Primo la invita: - Il fior, ben veggo, o cara,
1280Di squisitezza e d’eleganza intendi;
E le mie lodi in questo dì ben merti
Che vivanda apprestare eletta e rara
Hai saputo così. Quanto diletto,
Fuggendo i doni di sì nobil pianta,
1285Perduto abbiam finor! Quanto di vere
Saporose delizie ignari fummo!
Se i vietati piaceri han tal dolcezza,
Perchè vietato fu quest’arbor solo?
Ristorati così, dopo sì grato
1290Pasto, ad altri diletti amor ci chiama:
Vieni: dal dì ch’io ti mirai da prima
Di tanti pregi adorna e mia ti fei,
Non mai sì vivo ardor m’accese il petto,
Nè sì bella com’or, mercè di questo
1295Arbor possente, mi sembrasti mai.
Con questi detti ei mesce e sguardi e vezzi
Da lei compresi appien, da lei che vibra
Per le pupille tenere, languenti
Dolce contagio d’amorosa fiamma.
1300Per mano egli la prende, e sovra lieta
Sponda, a cui feano un verde tetto i folti
Rami intrecciati non restìa la guida.
D’asfodilli e giacinti e violette
Un letto morbidissimo la terra
1305Lor ivi offerse, ed alle accese brame
Pieno sfogo ivi dier, pegno e conforto
Del lor fallo comun, finchè le stanche
Lor membra il sonno ad irrigar discese.
Ma poichè spersa del fallace frutto
1310Fu quella forza vaporosa e dolce
Che, fervida scherzando al core intorno
Ed agli spirti, avea lor menti illuse;
E poichè si disciolse il grave sonno,
D’ebbrezza figlio, che turbato e scosso
1315Avean frequenti, minacciose larve,
Da quel riposo, anzi da quell’affanno
S’alzaron lassi, attoniti, l’un l’altro
Si riguardaro, e ben s’avvider tosto
Come schiusi avean gli occhi, e come cinte
1320Le menti di buior. L’alma innocenza
Che coperti li avea quasi di un velo,
E insino allor del mal la turpe faccia
Lor nascondea, fuggì: fuggì la bella
Mutua fidanza, la bontà, lo schietto
1325Candor primiero ed a colpevol’onta
Furon nudi lasciati. Invan coprirla
Essi vorrian, chè più palese ancora
La fan così. Qual dal lascivo grembo
Della druda infedel Sansone il forte
1330Raso s’alzò del suo vigor primiero,
Tal d’ogni onor di lor virtù spogliati
Si trovan essi. Uno appo l’altro assisi
Stetter gran tempo, sbigottiti, muti,
Cogli occhi al suolo affissi. Alfin, quantunque
1335Non men d’Eva confuso, Adam con pena
Questi flebili accenti al labro trasse:
- In qual punto fatale, oimè! l’orecchio
A quel bugiardo verme, Eva, porgesti,
Chiunque fosse che l’uman linguaggio
1340Contraffar gl’insegnò! Ben altra sorte
Veritier ci annunziò, ma, troppo falso,
Una sorte miglior: son gli occhi nostri
Or aperti pur troppo, appien pur troppo
Veggiamo il bene e ’l mal; perduto bene
1345Ed acquistato male. Oh! frutto reo
Del Saper, se Saper questo s’appella,
Che d’innocenza, di purezza e fede
Orbi ci lascia e d’ogni pregio antico;
E nel volto c’imprime i chiari segni
1350D’un turpe ardor, fonte di mali, e l’onta
Alfin che tutti gli accompagna e chiude
La trista schiera! Ah! come innanzi a Dio,
Come agli Angeli suoi, che pria sì spesso
Scender a noi con tanta gioia vidi,
1355Più mostrarmi io potrò? Queste or mortali
Pupille inferme a sostener capaci
Non saran più quello splendor superno.
Oh! potess’io trar qui selvaggia vita
In qualche burron cupo, ove del sole
1360E delle stelle a’ rai mi ricoprisse
Boscaglia impenetrabile con ombra
Ampio stesa di folta eterna notte!
Vostri rami addensate, o cedri, o pini,
Copritemi, ascondetemi sì ch’io
1365Il ciel non vegga più. Ma intanto in questo
Misero stato nostro almen si cerchi
Come celar l’uno dell’altro al guardo
Quel ch’ora in noi sembra arrecare oltraggio
Al decoro, al pudor. Di qualche pianta
1370Le molli ed ampie foglie insiem congiunte
Cingano i lombi nostri, onde l’infesta
Onta che a perseguirci ha testè preso,
Sovra noi non si posi e ci rimprocci
Nostra bruttura. - Ei sì consiglia, ed ambo
1375Nel più folto del bosco insieme entraro,
E tosto il fico elessero, non quello
Che da’ suoi dolci frutti ha nome e loda,
Ma quel ben noto anch’oggi agl’Indi adusti
Nel Malabar e nel Decan, che vaste
1380E lunghe stende le ramose braccia,
Da cui pendenti al suol nuovi rampolli
Metton nuove radici, ed ampia intorno
Cresce la prole alla materna pianta
In largo giro di colonne e d’archi
1385Frondosi, alteri, e d’echeggianti vie.
Ivi l’Indo pastor dal raggio ardente
Spesso ricovra, e per gli aperti spazj
Sta rimirando, alla fresc’ombra assiso,
Gli sparsi armenti pascolar sul piano.
1390Di quell’arbor le foglie eguali ad ampio
Scudo amazonio essi spiccaro, e come
Seppero il meglio, insiem le uniro e un cinto
Se ne formaro. Ahi vane cure! il turpe
Lor fallo e la temuta onta seguace
1395Non celan già! Quanto dal primo onore
D’ignuda purità, quanto è diverso
Quel tristo ammanto! In guisa tal fasciati
Di penne i fianchi e le altre membra ignudi
Trovò Colombo, non ha guari, erranti
1400Ir per foreste e per boscosi lidi
Gli abitator del discoperto mondo.
Così credero i nostri padri, almeno
In parte, aver la lor vergogna ascosa;
Nè men perciò tristi e dogliosi, in terra
1405A lagrimar s’assisero, nè solo
Larga versâr dagli occhi amara vena,
Ma di sconvolti impetuosi affetti
Nelle lor alme ad innalzarsi un nembo
Incominciò. Disdegno, odio, sospetto,
1410Diffidenza, discordia agita e scuote
Le misere lor menti, albergo in pria
Di calma e pace, or di tumulto e guerra.
Sulla ribelle volontà governo
Non ha più l’intelletto, ambi son fatti
1415De’ sensi schiavi, e di ragion l’impero
Usurpan cieche, disfrenate voglie.
Alfine Adam, da quel ch’egli era un tempo
Non meno che nel cor, tutto cangiato
Nel volto e nella voce, il suo ripiglia
1420Interrotto parlare: - Ah! se l’orecchio,
Eva, tu davi al mio pregar, se quando
Quest’infausto mattin quella sì strana
Voglia d’errar, come non so, ti prese,
Se tu con me fossi rimasta, ancora
1425Noi saremmo felici, e privi adesso
Eccoci d’ogni ben, d’onta coperti,
Nudi, meschini! Ah! più non sia chi cerchi
Dar di sua fè non bisognevol prova:
Chi darla avido anela e vuol perigli
1430Temerario incontrar, sull’orlo ei pende
Già della sua ruina. - E quai, soggiunge
Eva punta a quel biasmo, e quai dal labbro
T’usciro, Adamo, acerbi detti? A mia
Colpa o voglia d’errar, qual tu la chiami,
1435Imputi ciò che presso a te non meno
Avvenirmi potea? ciò che a te stesso
Forse poteva anco avvenir? Se stato
Tu fossi allor presente, alcuno inganno,
Io ne son certa, in quel parlar del serpe,
1440No, scorto non avresti: entr’esso e noi
Cagion di nimistà non era alcuna;
Odiarmi ei non potea: perchè di danni
Dunque temerlo apportator? Non mai
Dunque io dovea dal fianco tuo staccarmi,
1445E, al par di prima, inanimata costa
Sempre ivi affissa rimaner? Se mio
Capo e signor tu sei, se tanto rischio
Mi vedevi incontrar, perchè divieto
Al mio partir con assoluto impero
1450Non festi tu? Facil pur troppo allora
Molto non ripugnasti, anzi l’assenso
E ’l commiato mi desti. Ah! se costante
E fermo stavi in tuo rifiuto, ancora
Io sarei, tu saresti anco innocente.
1455- È questo dunque l’amor tuo? ripiglia
Irato allor la prima volta Adamo;
E di mia tenerezza il premio è questo?
Eri tu già perduta, ed io per anco
Viver potea, potea goder eterno,
1460Felice stato; eppur con teco, ingrata!
Perdermi scelsi! e rinfacciarmi or sento
La cagion del tuo fallo? Assai severo
Non ti sembrai nel mio divieto! E ch’altro
Far io potea? Del tuo periglio accorta
1465Non ti fec’io? non tel predissi? Forse
Non ripetei che insidïosi lacci
Un fier nemico ci tendea? Restava
Sol forza usar con te; ma qui la forza
Un libero voler stringer non debbe.
1470Vana fidanza di te stessa allora
Ti trasportò, chè non trovar periglio
Ti promettevi, o rivolgesti solo
La vittoria e ’l trionfo in tuo pensiero.
Io forse ancora errai, tant’alta e pura
1475Credendo tua virtù che nulla mai
Di malvagio assalirla osato avrebbe;
Quest’è l’error ch’io piango, e che m’ha spinto
A quel misfatto, onde tu stessa or sei
L’accusatrice! E tal la sorte ognora
1480Fia di ciascun che, in femminil virtude
Posta soverchia fè, di donna in mano
Abbandoni il governo: altera, audace
Non soffrirà ritegno, e, a sè lasciata,
Del mal che avviene incolperà primiera
1485La debolezza e l’indulgenza altrui.
In amare così querele alterne
Essi l’ore spendean, ma niun se stesso
Mai dannava però, nè alcun di quelle
Vane contese lor fine apparìa.