Il palazzo
Questo testo è completo. |
L’artista architetto curvo e intento disegnava nella sua camera. Una bella camera spaziosa, illuminata largamente dall’ampio finestrone; tutta la luce del cielo sul tavolo da lavoro, nessun edifizio davanti, causa di ombre o di riflessi, bassi i tetti delle case in faccia, i campanili, le torri, le cupole tutti lontani. Il rumor delle botteghe, lo strepito delle carrozze, le grida dei venditori, il chiacchierio dei passeggieri, giungevano affievoliti a quell’altezza. Solo, dalla gabbia appesa alla finestra uscivano alti e continui fischi, trilli, modulazioni; una pallottolina vi si agitava svolazzando, presentando ora il dorso bruno, ora il petto bianco, ora la testolina rosso sangue, ora le ali screziate di nero e di giallo: era il cardellino sapiente che sapeva far il morto, tirare a sé la secchiolina piena d’acqua o di miglio, metter fuoco col becco al cannoncino, l’unica creatura che avesse il potere di far perdere tempo all’instancabile lavoratore.
Risuonò un passo grave, due colpi misurati all’uscio. - Avanti…
L’uscio s’aprì. La porta apparve angusta per la maestosa figura che si presentava. Un bel gentiluomo, colla faccia sormontata, circondata da una criniera enorme, alta, folta, inanellata, col corpo robusto chiuso in un abito di velluto scuro cadente sopra una sottoveste di raso verde a grandi ricami, tutto luccicante di bottoni d’oro sul petto e di fibbie scintillanti alle gambe, entrò sollevando il cappello piumato, ed, inchinando appena il capo: - Conte Lancia di Faliceto.
L’architetto fece una gran riverenza, offrì il suo seggiolone al conte, si mostrò tutto ossequioso, disposto ad udirlo. Il signore in piedi tolta la destra inguantata dalla tracolla della spada, tracciò nell’aria due linee perpendicolari ve ne sovrappose una orizzontale, e disse: - Un grande, bel palazzo.
- Pronto, - rispose l’artista – dispostissimo a servire vossignoria illustrissima, confidando nella gran bontà. E il terreno?...
Il gentiluomo fe’ un cenno affermativo e s’avviò lentamente alla porta, l’artista spiccato il cappello, tolta la mazza s’affrettò a raggiungerlo mentre scendeva lento e grave le scale. “Conte Lancia” pensava l’architetto, camminandogli a fianco nella strada, “Conte Lancia! sapevo che c’era costui, n’avevo sentito a parlare. Lo chiamano il taciturno, move il capo dall’alto al basso per affermare, lateralmente per negare, crolla le spalle, si frega le mani e basta così: ci pensi cui tocca. Lo dicono un gran cavaliere, un signorone, ma un carattere originale. Come faremo ad intenderci, stabilir le cose, tirar su tutto, sempre alla muta? Vedremo, qualche santo m’aiuterà”.
Il conte andava avanti colla testa alta, impettito, camminando a passi uguali, misurati come se posasse i piedi sovra una traccia fissata. A due riprese arrestò il compagno additandogli con un cenno ammirativo un palazzo dei Castellamonte ed uno del Guarini.
- Bello, sicuro, - rispondeva l’architetto – godo, mi rallegro con vossignoria illustrissima, che ha gusto d’arte, che se n’intende, conosce e apprezza le cose buone.
In via… il gentiluomo si piantò fermo dinanzi ad un gruppo di casette luride e basse, trinciò orizzontalmente l’aria colla mano distesa per significare atterramento e distruzione, e poi tolta all’architetto la mazza, segnò nel vuoto linee alte, e svelte, linee larghe e grandiose; indicò posatamente, guardando tratto tratto negli occhi l’artista, tetto, cornice, colonne, finestre, balconi, atrio e portone d’entrata, e giunto al terreno, rese la mazza, fece un cenno signorile di saluto, e si allontanò come un automa.
Pochi giorni dopo l’architetto presentò al conte un primo disegno; colui lo guardò con molta attenzione, scosse il capo e glielo restituì congedandolo.
Vedendo che non ne avrebbe cavato altro, l’artista, ricordando i palazzi che il conte aveva ammirati, andò a studiarli attentamente, e pur ponendo a dura prova il suo amor proprio, mise insieme un nuovo progetto che avea con quelli un piccolo e velato germe di somiglianza. Quando il conte lo vide, lo sciorinò in aria, si fece serio, strinse le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento di disapprovazione, e poi andato ad un tavolo, cacciò le mani in un mucchio di carte, le rimescolò, ne trasse un foglio, lo rotolò col disegno, e consegnò tutto insieme all’artista, accompagnandolo alla porta. L’architetto tornò a casa sfiduciato ed imbroncito, buttò i disegni sul tavolo, uscì in giro per la città, poi seccato dal vedersi intorno chiese, case e palagi, passò la porta di Po, mandando al diavolo l’architettura, scappò di là dal fiume, e stette a fantasticare tra gli alberi fino a notte chiusa.
“Vorrei sapere cosa vuole quel matto! Cos’ha in testa;… ci vuol altro che righe in aria: li metta in carta i suoi ghiribizzi, le sue fabbriche volanti. Bisognerebbe che vedessero quelli che non sanno, che provassero che cos’è avere un’idea in capo, afferrarla, svolgerla, veder com’è fatta fuori, come fatta dentro, sotto e sopra, tenerla lì, schiacciarla sul foglio, farla stare: tira di qua, tira di là. Allunga, stringi, accomoda, suda, soffri, bestemmia!... Infine la c’è, la par che ci sia, si porta a vedere a lor signori… niente, non è questo, roba da nulla, un’inezia, porcheria. E non basta a prima volta, anche mi tocca una seconda… e poi e poi sarà finita? Potrei scusarmi, rinunciare al progetto, ma non si dirà poi che non ho saputo cavarmela? Ecco, e so ben io chi riderà, che sguazzerà, chi mi getterà bucce, torsoli, sassi e mattoni; c’è chi non attende altro. Un’occasione così di farmi un po’ d’onore, non ne ritorna più una simile. Oh! povero me! che storia, che noia, che arte d’inferno!”
Quando fu a casa, andò al tavolo, svolse il suo disegno, sospirò, lo buttò a parte, e gettato l’occhio sul foglio segnato dal conte, levò le mani in atto di meraviglia scontenta: “Oh giusto! Come diavolo gli è nata l’idea, dov’è andato a pescarla, anima benedetta? Bel gusto lavorare per anni come un bue, bel mestiere il nostro, lo fa chi vuole e ci riesce. – Di cosa s’impacciano adesso i signori? Facciano la guerra, questa è l’arte loro!”.
Ci pensò la sera mentre si rivoltolava per poter dormire, vide in un segno brutto ed arruffato un gran palazzo che gli cresceva sul petto, buttò via le coperte prima di giorno e si rimise al lavoro eseguendo il disegno secondo lo schizzo non suo, soddisfatto e punto ad un tempo di vederlo riuscire assai migliore dei due primi.
Legato l’asino dove voleva il padrone, come disse rotolando il suo lavoro, si avviò ansioso dove dimorava il conte.
Stavolta lo lasciò trionfante. Il taciturno aveva spianate tutte le rughe della sua fronte, contratte le labbra ad un sorriso, e brontolando sordamente nella gola come un gatto accarezzato, aveva spinta la familiarità, la degnazione, l’entusiasmo, fino a posargli la destra sulla spalla, dandogli una graziosa tentennata.
“Ne sono sicuro,” pensava tornando l’artista “sarà il più bel palazzo di Torino. Sarà un bell’onore; ma l’idea?... Santo Dio, il caso ne ha fatta una delle sue”.
Sparvero le casette, i lavori furono cominciati e proseguiti con alacrità. Il conte veniva ogni giorno ad assistere, sollecitava, incalzava. A misura che si alzavano i ponti, egli vi saliva, percorreva il castello di legname facendo traballare assi, palchi, abetelle colla gigantesca persona, fendendo l’aria coi cenni, esprimendo tutte le sue volontà col corrugar delle ciglia e col lampeggiar degli occhi, distribuendo colpi di canna sulle spalle dei muratori, dei manovali, dei garzoncelli.
Il palazzo s’innalzava, e non avendo intorno case di uguale altezza, campeggiava presentando da varie parti favorevolissimi punti di vista. La facciata adornava splendidamente la piazzetta su cui sorgeva e la via che si apriva dinanzi, La cornice, le finestre, il portone inquadrato da cariatidi collo stemma dell’alto, ed il balcone a colonnette sovrapposto, erano di bellissima proporzione, condotti con architettura tranquilla, con decorazione vera, sobria insieme e ricca, d’un barocchismo moderato ed elegante negli ornati. Nell’interno l’atrio a colonne era ampio ed imponente, reso grandioso e svelto dal partito decorativo. La dimensione dell’area racchiusa nel cortile stava in proporzione coll’altezza del palazzo. Insomma dall’insieme dell’atrio e del giardino, dalle fabbriche dipendenti poste in fondo, il palazzo riceveva un’impronta di magnificenza, di cui forze non si trovava altro esempio nella città.
Intanto si scolpivano i mobili, si tessevano le stoffe, Vittorio Michele Demignot faceva fabbricare due grandi arazzi: il Ratto delle Sabine ed il Giudizio di Paride. Andrea Boucheron, mastro fonditore e modellatore nell’Arsenale, si occupava dei bronzi. Due grandi tele di Jean Miel, l’artista d’Anversa: la Caccia del cervo e del cinghiale, erano quasi finite e pronte per la sala da pranzo.
Il conte Carlo Emanuele di Faliceto guardava ogni cosa sbarrando gli occhi e movendo il capo dall’alto al basso come un magot chinese. Aveva tutte le rughe spianate, la bocca sorridente, l’aspetto ilare e davanti a certe cose, veramente raggiante. Solo sullo scalone tuttora in costruzione, si oscurava in viso, allungava il labbro inferiore, e si grattava profondamente dentro la parrucca. L’architetto lo pregava di manifestar l’opinione sua, il conte si stringeva nelle spalle: non sapeva neppure lui, non gli andava, ecco tutto.
Questo neo nel bellissimo viso dell’opera, guastava il sonno all’artista; egli si rodeva, passava le ore a cercare il difetto. A casa, seduto a tavolino, si pigliava la fronte tra le mani, sforzandosi di cavar dalla testa un concetto, una combinazione di modanature che camminasse col resto, e ci pensava di giorno, e vi sognava la notte, e si tormentava indarno a ribruscolar nella mente tutte le sagome, tutte le linee piane o curve che conosceva: “Ma santo cielo! ha ragione il conte, non è bello il mio scalone. Pare una gabbia; certo, i gradini giranti in curva sono incomodi e malsicuri, gli ornati riusciranno affastellati, le cornici contorte, le mensole oziose, pesanti i cartocci ed i mascheroni, le colonnette del parapetto tozze e massicce… Pare che ci sia un pianeta per me in questo palazzo, non l’ho saputo incominciare, adesso non lo so finire! ci ho studiato anche troppo! ci ho penato abbastanza!”. Il pover uomo andava e veniva colla fronte bassa, annuvolata, le braccia incrociate, tormentato da un solo pensiero. Non potea darsi pace: perdersi così dopo aver condotta quasi tutta l’opera con tanta maestria!
Un giorno prese un’energica ed immediata risoluzione, sospese i lavori, si chiuse in casa, si rimise a disegnare. Lavorò senza posa per parecchi giorni, levandosi soltanto dal tavolino per prendere un boccone e rifare con un po’ di riposo le forze esauste; ammucchiò pensieri, schizzi, progetti, ne fece una scelta, gettando quelli che non gli parevano riusciti, cercò le parti migliori, le unì, le armonizzò fra loro, le condensò in un solo disegno, e dopo aver passata un’ultima intera notte al lavoro, col cuore sconvolto e col cervello in fiamme, uscì correndo verso il palazzo.
Erano le prime ore del mattino, ma nelle vie già animate si vedeva un rimescolio, un accorrere di cittadini e di soldati, un affacciarsi alle finestre, un uscir frettoloso nelle strade, si udiva uno squillar di trombe interrotto e ripreso, un rullo rapido e sonoro di tamburi in lontananza. In piazza Castello la gente si addensava a guardar l’ordinarsi d’una compagnia di corazze, passavano moschettieri, lanzi, capitani a cavallo, gentiluomini di artiglieria, ed i borghesi li seguitavano bisbigliando, gesticolando animati. Ma l’architetto ansante allungava il passo, colla parrucca scarmigliata e di traverso, la barba lunga di più giorni, il farsetto sbottonato, tutta la persona negletta e trasandata, egli aveva il suo scalone negli occhi e non vedeva altro.
Entrò nel portone, passò l’atrio senza guardarsi d’attorno e svoltò a sinistra… Misericordia! assi, palchi, calce, mattoni, lastre, arnesi, tutto il materiale di lavoro era scomparso, il pavimento era asciutto e pulito, e una lunga scala a piuoli semplice nuova e liscia si ergeva da terra al piano della galleria. Il disgraziato artista si appoggiò al miro soffocato, pallido come un cencio.
In alto sul pianerottolo comparve il conte, aveva indosso una casacca militare e la corazza, calzava grossi stivali, un servo gli veniva dietro col cappello, la spada e le pistole.
Girò la persona e scese lento, dignitoso, facendosi piegar sotto gli staggi; a terra si rivolse, salutò con un sorriso l’architetto stralunato, gl’indicò d’un bel gesto pacato ed ampio il mutamento avvenuto, gli mostrò nel cortile cavalli, armi, equipaggi di campagna, portò la destra supina alle labbra, e gettandovi sopra un soffio, aggiunse, stringendosi nelle spalle: - La guerra!
La bellissima contessa Cristina venne ad abitare il palagio durante la campagna, andava e veniva agile e svelta lungo i piuoli; i gentiluomini che l’accompagnavano scendevano prima, salivano dopo e si facevano sotto con gran cortesia per mantenerle la scala. Questa restò per anni, durò più del conte, della contessa, dell’architetto, i cui disegni stupendi andarono perduti. Prese una bella patina lucida e scura.
E le guerre succedettero alle guerre. Via le terre, le gioie, le argenterie, quanto v’era di valsente in casa, l’esempio veniva dall’alto, i signori sapevano seguirlo: armi invece, equipaggi e cavalli pel paese, per la casa di Savoia, per l’onore. Un principe corse il Piemonte non più suo, senz’altro avere che la sua spada e le sue pistole, senz’altra corte che pochi cavalli; lasciò passando il collare dell’ordine spezzato nelle mani dei contadini accasciati sulle rovine delle capanne fumanti. Poi piovvero le bombe, le granate, le palle francesi sulla città. – Un peso enorme sfondò il tetto del palazzo Lancia, fracassò la volta, ci scoppiò dentro squarciando le mura e sconvolgendo il terreno, carbonizzò gli staggi sottili.
Il conte Vittorio riparò il palazzo dopo l’assedio, e fece costrurre una scala. È stretta e meschina nel palazzo stupendo; ansa di creta sopra un vaso di marmo.