Le novelle della nonna/Il morto risuscitato
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- Il morto risuscitato
- E stanotte incomincia l’anno nuovo! - disse Maso. - Ragazzi, bisogna metter giudizio, perché più si cammina nella vita, e maggiore è il dovere che abbiamo di spenderla utilmente. Se ce la siamo sciupata nell’ozio, in vecchiaia si provano dei rimorsi, e allora si farebbe come quell’uomo, che, si racconta, sciupava il pane, e fu condannato a raccattar le briciole in Purgatorio, facendosi lume col dito mignolo acceso. Ma il male è che neppure con quella fiammella si può correr dietro al tempo perduto, e quand’è ito, non c’è rimedio. Sapete chi non ha rimorsi per aver sciupato il tempo? - Chi? - domandarono i bimbi Marcucci alzando la testa da quel gruppo allegro, che essi, insieme con i compagni del vicinato, formavano in un cantuccio della cucina. - Non lo indovinate? - domandò Maso, - la vostra nonna! Stasera, che ella compie sessant’anni, tutti spesi per il bene della famiglia, s’ha da farle un po’ di festa. Io farò il suo elogio. - Zitto, che lo voglio far io, - disse Cecco. - Tu sei più vecchio e non ti puoi rammentare come me ne rammento io, tutto quello che essa ha fatto per noi quando si era piccini. - Come! - ribatté Maso, - me ne ricordo benissimo; e io che sono il maggiore ho visto quello che tu non hai potuto vedere, perché eri ancora nella mente di Dio. A quest’argomento Cecco non seppe che rispondere, e lasciò la parola al fratello maggiore, a colui che faceva da capo di casa, ed esercitava una grande autorità sugli altri, come usava nelle famiglie antiche. - Sentite dunque. La nostra vecchietta, che Dio ce la conservi per cent’anni ancora, era la più bella ragazza del contado quando nostro padre se la condusse sposa in questa casa. - Che te ne rammenti, tu, se ero bella o brutta? - disse ridendo la Regina rivolta al figlio. - Altro se me ne rammento! Non dico di quando veniste sposa, s’intende, ma so che quando ero piccino e mi menavate, la domenica, alla messa al ponte a Poppi, tutti i contadini che eran sul sagrato della chiesa si scansavano, e sorridendovi vi dicevano: «Felice giorno, Regina bella!». - Pareva che allora tu non capissi nulla! - osservò la Regina sorridendo. - Il fatto sta che rivedo quegli aggruppamenti di persone, che vi facevano largo, e rivedo voi col vestito di seta turchina, che v’aveva fatto la marchesa Corsi quando andaste per balia, col vezzo di corallo al collo, e i pendenti di perle agli orecchi, e vi rivedo bella com’erano le mie sorelle quando andarono a marito. E vi rivedo anche sempre affaccendata, con noi piccini intorno alla sottana, ora a pulir la casa, ora a fare il pane, ora a lavare il bucato nel vivaio, ora a tessere, ora a cucire. Io non rammento mai di avervi sorpresa con le mani in mano, e non ci avete mai fatto mancar nulla, perché col ricavo della tessitura e dei polli, ci avete sempre vestiti e calzati, mentre nostro padre ci dava da mangiare. Se volessi dire tutta la riconoscenza che vi porto, durerei a parlare fino domani; ma i ragazzi aspettan la novella e non voglio che la desiderino troppo. - Evviva la mamma operosa! - urlò Cecco. - Evviva! - ripeterono tutti, grandi e piccini. Regina s’era messa le mani agli orecchi e piangeva di gioia sentendosi così amata dalla sua cara famiglia, e siccome le grida non finivano, Maso, con voce di comando, gridò: - Zitti, la mamma comincia la novella. Si fece un gran silenzio nella cucina; quelli che stavano lontani si avvicinarono al focolare, e la vecchia prese a dire:
- Molti, ma molti anni fa, alla Corte di Poppi c’era un emigrato di Ravenna, che aveva nome ser Grifo. Quest’uomo, di nobile famiglia, era stato cacciato dalla sua città per una contesa avuta con un signore, molto potente in allora, e dopo essere andato ramingo per un certo tempo, fu ricoverato dai conti Guidi, che lo conoscevano da molti anni. Ser Grifo non era un uomo amante di guerre, né di giostre. Era lungo, secco, giallo, preferiva i libri alla spada. Si dice che da quei libri avesse appreso la scienza e l’arte di scrivere in versi. Il Conte lo stimava poco, poiché egli non si compiaceva che in guerreggiamenti, giostre, e cacce; ma la contessa Margherita, che menava vita ritirata nel suo grandissimo palazzo, si dilettava molto udendo narrare la storia dei Reali di Francia e specialmente quella di Berta dal gran piè, da questo poeta, che metteva spesso in versi le laudi della sua bellezza e cortesia. Per questo ella lo proteggeva, e tutte le volte che il Conte e gli amici di lui lo sbeffeggiavano, Margherita, con gentil modo, prendeva a difenderlo. Soffriva assai ser Grifo sentendosi dar la baia dalla nobile compagnia; ma quando udiva la dolce voce della castellana alzarsi per difenderlo, al dolore subentrava la gioia, e questa gioia egli la esprimeva in dolcissimi versi. Una sera il Conte era a cena, dopo aver bevuto più del consueto, e gli stavano accanto i suoi parenti di Romena e di Porciano. La Contessa non era uscita dalla camera, perché da più giorni era assai ammalata. Uno dei convitati domandò al Conte come mai quella sera ser Grifo non assistesse alla cena. - Il pover’uomo, - rispose il Conte, - non ha cavato la testa di sotto le coltri da ieri sera in poi. - Come mai? - chiesero gli altri. - Dovete sapere, - disse il castellano, - che egli ha un cuore da femminuccia, e tutto lo impaurisce. Iersera dopo cena ci separammo; io mi ritirai nelle stanze attigue a questa sala; egli salì alla camera dietro alla cappella, dove dorme. Recava in mano una lanterna, ma pare che il vento gliela spengesse. Il fatto sta, che appena fu giunto in cima alla scala ebbe le traveggole, poiché narra che la cariatide di pietra, la quale rappresenta il conte Guido, di Simon da Battifolle, nostro glorioso antenato, si staccò dalla parete e stese le braccia per afferrarlo. - Ser Grifo è allucinato! - esclamò il conte di Porciano. - Ser Grifo è pazzo! - disse il conte di Romena. - Cugino, perché non gli facciamo una burla? - Egli la meriterebbe davvero, - rispose il conte di Poppi. - Ma se si ostina a stare a letto è difficile. - Perché? - domandò il conte Oberto di Romena. - Anzi, io saprei il modo di fargliela bellissima anche questa notte istessa. Nella sala d’armi si conserva l’armatura del conte Guido, quale fu scolpita nella pietra. Che uno di noi la indossi e vada in camera di quel pusillanime, e con modo aspro finga di volerlo cacciare dal letto e dal palazzo, come indegno di abitarvi per la sua viltà. Vedrete che quel messere avrà una paura da dannato, e per più giorni non saprà trovare una rima. - La burla mi pare atroce, - disse il conte Bandino di Porciano. - Ser Grifo è capace di morir di paura. - Non credere, - rispose il conte di Poppi. - Quel viso di pergamena ha la pelle dura, e nonostante che esali tutto il giorno l’anima in quei versacci, pure essa è fortemente attaccata al corpo e non se ne dipartirà per così poco. Vesti tu, Oberto, che sei il più alto di tutti, l’armatura, e noi assisteremo alla scena dalla cappella, fra l’ombra del nostro glorioso antenato e il misero poeta di Ravenna. Le ombre si dice che appariscano alla mezzanotte, e a quell’ora in punto, quando l’ultimo tocco sarà scoccato dalla torre, ti presenterai in camera sua. Il conte di Poppi alzò dalla tavola un doppiere di ferro nel quale erano infilzati diversi ceri, e precedé i cugini nella sala d’armi. Il conte Oberto rivestì l’armatura, che pareva fatta per lui, e quindi si avviò su per la scala. Il suo piede calzato di ferro faceva un rumore sinistro battendo sulla pietra degli scalini, e chi lo avesse incontrato in quel momento, avrebbe supposto davvero che la statua del conte Guido si fosse staccata dalla parete a cui era, ed è ancora, addossata, per passeggiare di nottetempo nel palagio che fu suo. I tre parenti si fermarono nella cappellina, che era vagamente adorna d’immagini di santi, e rimasero cheti attendendo la mezzanotte. Quando fu suonata, Oberto prese in mano il doppiere, scosse l’armatura per far rumore e quindi aprì l’uscio della camera dove stava ser Grifo. Il conte Bandino e il signor di Poppi s’erano nascosti nella cappella aspettando ansiosi come sarebbe andata a finire quella scena. Un urlo disperato uscì dal petto del misero poeta. Il conte Oberto si avanzava nella stanza battendo i piedi sul pavimento, e quando fu accanto al letto posò la mano coperta di ferro sul collo di ser Grifo; poi, contraffacendo la voce, disse lentamente: - Anima vile, che cosa fai in queste mura, dove non abitarono altro che prodi? - Anima santa, lasciami in pace; io sono un povero esule a cui la pietà del tuo discendente mi accorda un letto e un posto alla sua tavola. - Io non ti voglio nel mio palazzo, strimpellatore di liuto e improvvisatore di cattivi versi con i quali tu offendi la nobile dama Margherita, che credi di esaltare. - Dove debbo andarmene? Abbi pietà di un povero poeta! - Tu non m’ispiri pietà alcuna. Domani mettiti il liuto a tracolla e va altrove a cercar fortuna. Ti giuro che se domani tu non sei molte miglia lontano dai domini dei Guidi, io torno e ti precipito nel trabocchetto, che ben sai dove sia, e quanti felloni pari tuoi abbia inghiottiti! - Pietà! - supplicava ser Grifo con un fil di voce. Il conte Oberto, camuffato della armatura del suo antenato, fece un gesto di sdegno e disse: - Ho parlato. A buon intenditor poche parole! E facendo lo stesso rumore di ferro, uscì dalla stanza col doppiere in mano e richiuse l’uscio. Il conte Bandino e il conte di Poppi avevan udito tutto ed esclamarono: - Tu hai fatto benissimo la parte dell’ombra! - Lo credo, e se domani quel viso di zucca non è lontano molte miglia, vuol dire che si prepara a partire per un viaggio più lungo, per non tornar più. - Misericordia, lo scherzo è forse andato tropp’oltre! - disse il conte di Poppi, che era di animo meno crudele degli altri. - E se male incoglie a questo poeta, madonna Margherita se ne affliggerà, poiché ella ha compassione di lui. - Ringrazia Iddio e san Fedele che in un modo o in un altro te ne ho liberato, - rispose il conte Oberto. I tre signori scesero, e, dopo aver deposta l’armatura nella sala d’armi, ciascuno andò a coricarsi nella propria camera. La mattina dopo il conte di Poppi dormì lungamente, e quando il suo servo entrò in camera per aiutarlo a vestirsi, gli narrò che il cappellano, il quale dormiva in una stanza poco distante da quella di ser Grifo, udendolo gridare nella notte era accorso, e lo aveva trovato in terra, con gli occhi fuori della testa, pronunziando parole sconnesse e facendo atto di volere fuggire. Il prete, credendolo insatanassato, aveva preso nella cappella la croce e l’acqua santa e con questa l’aveva asperso, pronunciando le preci contro lo spirito maligno; ma tutto era stato inutile. Ser Grifo urlava più che mai e si trascinava bocconi sul pavimento come una bestia. Fino a giorno il cappellano era rimasto presso il poeta senza riuscire a calmarlo, e allora aveva chiamato in aiuto il cerusico, che, visitato il malato, aveva scrollato la testa, assicurando che non aveva febbre né alcun male palese e si trattava di qualche cattiva influenza. Il conte di Poppi, udendo questa narrazione rimase perplesso e domandò al servo: - E ora come sta ser Grifo? - Al solito; ma il cerusico lo ha lasciato perché le donne della nostra padrona lo hanno chiamato per visitarla. - E tu mi serbavi per ultimo questa notizia, villano che non sei altro! Che m’importa di ser Grifo quando madonna Margherita è ammalata! E terminando di vestirsi in un battibaleno, il conte di Poppi andò a visitare l’inferma. I due cugini, che non erano angustiati come il loro parente, vollero veder con i propri occhi in che stato fosse ser Grifo. Essi salirono nella camera di lui e seppero mostrarsi afflitti del male che lo aveva còlto. Il poveretto smaniava come una bestia e non li riconobbe. Egli batteva la testa contro le pareti, e due uomini robusti non riuscivano a impedirgli di farsi danno. - Voglio andarmene! - urlava. - Se il conte Guido mi trova qui alla mezzanotte, mi precipita nel trabocchetto. Lasciatemi! Ma i due servi, credendolo impazzato, invece di cedere alle sue preghiere, lo reggevano nel letto, e pregarono i signori di scendere e mandar loro altri due compagni, per tentare se fra tutti potevano legarlo. - L’abbiamo conciato bene! - disse Bandino mentre scendevano la bellissima scala. - Io credo che quel poetastro sia bell’e spacciato. - Meglio per lui, - rispose Oberto. - La tomba credo sia preferibile a una vita come la sua. Anche a Dante pareva che il pane altrui sapesse di sale, e quello era un poeta; figurati come deve parer amaro a questo inettissimo verseggiatore! I due signori non pensavano più a ser Grifo dopo quella breve visita. La malattia della contessa Margherita e le smanie del loro cugino li occupavano ben altrimenti; e il palazzo era tutto sottosopra per il pericolo che correva la castellana, la quale era stata colta da una febbre calda, e il suo bel volto, di consueto bianco e vermiglio, era acceso come un tizzo, mentre la sua bocca sorridente non pareva dir altro, che: - Signore mio, aiutatemi! Il marito, cui rivolgeva continuamente questa supplica, non sapeva che cosa farle, e il cerusico meno di lui. Intanto la febbre bruciava la contessa ogni giorno più. In questo frattempo ser Grifo era stato avvolto in un lenzuolo, messo in una cassa e portato, senza che nessuno lo piangesse, nel sotterraneo dove solevano seppellire i signori, perché sapevano che era di sangue nobile. Il povero poeta aveva passata tutta una giornata a gridare ed a sbatacchiarsi volendo fuggire. Sull’imbrunire le smanie erano cresciute, e quando aveva sentito scoccare il primo colpo della mezzanotte, s’era chetato a un tratto, chiudendo gli occhi. - È morto, - avevan detto quelli che gli erano intorno; e chiamato in fretta il prete lo avevan fatto benedire. Il giorno dopo, senza avvertire neppure il signore, lo avevano messo nel sotterraneo. Intanto al palazzo giungevano tutti i parenti della contessa Margherita. Chi da Stia, chi da Pratovecchio, chi da una parte e chi dall’altra, e tutti portavano seco i loro cerusichi, perché i messi che avevan recato loro la notizia della malattia, avevano aggiunto che messer Biagio, il cerusico di casa, non ne capiva nulla. Ognuno di questi cerusichi suggeriva un rimedio, ma la febbre non cedeva, e la notte del terzo giorno la contessa spirò. Il marito pareva più nel mondo di là che di qua, tanto era il dolore di vedersi separato da una così bella, virtuosa e cara compagna, e dimenticò tutto, meno che di renderle tutti gli onori che spettano a gentildonna. Egli ordinò che la bellissima salma fosse rivestita del ricco abito d’argento e di seta celeste che indossava il dì delle nozze: che i biondi e lunghi capelli fossero racchiusi in una reticella d’oro e perle orientali; che ai piedi le fossero messe scarpe di raso ricamate; che al collo, ai polsi, alla vita e sulla fronte le brillassero le gemme di cui soleva adornarsi nei dì dei torneamenti e delle feste solenni. Quando il bel corpo fu adorno in questo modo, egli stesso pose fra le mani di Margherita un bellissimo crocifisso di smalto e la fece portare dai paggi nella sala di arme dov’era inalzato un catafalco di drappo nero e d’oro circondato di faci ardenti. Gli armigeri, vestiti di maglia, stavano a guardia del catafalco; i monaci salmodiavano e l’immensa sala era piena di dame, di cavalieri, di famigli e di terrazzani. Il Conte seguiva la salma della sua sposa, tutto vestito a lutto e con un volto così stravolto da far pietà. Appena giunse in sala egli si gettò in ginocchio e vi rimase sino a sera. Tutto il contado correva a vedere la bellissima signora; e la gente che usciva di sala aveva pietà della giovane, morta nel fior degli anni, ma più ancora ne provava per quel fiero signore singhiozzante accanto al cadavere della sua Margherita. Infatti il Conte pareva ridotto un mucchio d’ossi, senza energia, senza volontà. Per due giorni la castellana rimase esposta nella grande sala, e il Conte pregò sempre accanto a lei; pregò e pianse. In quei due giorni il signor di Poppi, col pensiero sempre rivolto alla sua carissima, non si accòrse che ser Grifo mancava, ma quando giunse l’ora di chiudere Margherita in una cassa per trasportarla nell’avello di famiglia, il Conte disse: - Chiamatemi ser Grifo; da lui voglio sia vergata una pergamena da porsi in una custodia d’oro, affinché i lontani nepoti sappiano che questo è il cadavere della più bella, più cortese e più virtuosa fra le donne. - Signore, ser Grifo non può venire, - rispose uno dei servi. - È vero! - avevo dimenticato che fosse ammalato! - esclamò il Conte. - E come sta al presente? - Non possiamo sapere come stia, perché ci ha lasciati, - replicò il servo. - E quando è partito? - Son quattro dì, signore, che lo racchiudemmo nella cassa la quale ponemmo poi nell’avello dei conti Guidi in San Fedele. - Morto! - esclamò il Conte. - Sì, morto; ma non sappiamo se arrabbiato o insatanassato. Egli non ha ricevuto neppure i sacramenti, ed è spirato a mezzanotte precisa. Il Conte ebbe un brivido, ma non aggiunse parola. Ora la notizia di quella morte lo colpiva doppiamente, facendogli nascere nell’anima il rimorso che il povero ser Grifo fosse morto in seguito a quell’atroce burla; e poi, quell’uomo secco, giallo e di animo semplice al pari di un bambino di nascita, non era forse una delle persone che Margherita apprezzava, e non aveva forse più volte raccomandato di trattarlo umanamente per riguardo alla sventura che lo aveva colpito al pari di tanti e tanti nobili, che gli odi di parte condannavano ad andare raminghi per il mondo? Il conte di Poppi cacciò questi pensieri per dedicar soltanto la mente alla sua dilettissima, e non potendo valersi più dell’opera di ser Grifo, chiamò un suo cancelliere dal quale fece scrivere la pergamena. Poi, dopo avervi apposto il suo sigillo, la racchiuse con le sue mani in una custodia finamente lavorata da un abilissimo orafo fiorentino. Terminati tutti questi preparativi, si formò il corteo, che dal palazzo doveva recare la salma della Contessa all’abbazia di San Fedele, traversando il paese. La cassa della bellissima donna, che pareva dolcemente addormentata, era stata lasciata dischiusa, e il volto era coperto soltanto da un sottil velo, come le signore solean portare in testa. Precedevano il corteo i monaci dell’abbazia, vestiti di bianco secondo la legge di san Romualdo, loro fondatore; venivano dopo i preti, gli araldi, gli uomini d’arme, e, attorno alla salma, i paggi e il lungo stuolo dei parenti, e per ultimo i terrazzani, che piangevano ripensando alla bontà e cortesia dell’estinta. Il corteo era lunghissimo e lo accompagnava il suono delle campane di tutte le chiese della rocca e dei castelli vicini. Quando giunse in chiesa, la cassa fu deposta nel centro della navata e i frati salmodiarono per un bel pezzo, mentre il conte di Poppi, seduto solo sotto il baldacchino di drappo, guardava ora il volto della sua donna illuminato dalle faci, ora il posto vuoto accanto a sé dov’era solito vederla. Terminata la cerimonia, la cassa venne assicurata a una fune, fu tolta la grande lapide marmorea che ne chiudeva la bocca, e dopo che il Conte ebbe lungamente baciato la sua donna, la bella salma fu calata giù, nello scuro avello, che accoglieva le ossa di tanti e tanti della famiglia Guidi. Appena un rumore sordo annunziò che la cassa aveva toccato il suolo, un becchino scese per una scaletta di pietra a fine di sciogliere le funi e collocare il coperchio alla cassa, ma non era giunto ancora in fondo che gettava un grido d’angoscia. Credendo che gli fosse venuto male o che si fosse ferito nel trascinare la cassa, un secondo becchino scese in fretta, ma anche questi si mise a gridare come se lo ammazzassero, e cadde producendo un tonfo sordo. Intanto in chiesa tutti s’erano fatti gialli dalla paura, e chi scappava di qua chi di là, senza poter uscire, perché la porta dell’abbazia era chiusa. Il conte di Poppi, turbato anch’egli dal suo doloroso raccoglimento, si alzò e rivolse il passo alla bocca dell’avello. In un momento gli furono accanto Oberto e Bandino, anzi, il primo prese una delle faci che erano infilate agli angoli del catafalco e precedé gli altri nel sotterraneo. Ma appena ebbe scesi gli scalini, gettò egli pure un grido e fece per voltarsi a risalire, ma s’imbatté nei cugini che gl’impedivano il passo. - Ma Oberto! - esclamò il signore di Poppi, - pensa chi sei e dove siamo. - Lasciami risalire! - supplicava l’altro atterrito e sgomentato. Ma il vedovo Conte, per rispetto al cadavere calato allora nell’avello, costrinse il suo parente a scendere insieme con lui. Peraltro anche il conte di Poppi rimase inchiodato in fondo alla scala, perché quel che vide era cosa da mettere spavento a chiunque. Ser Grifo, pallido come un morto, con gli occhi infossati nell’occhiaie, l’alta e magra persona avvolta in un lenzuolo bianco, stava curvo sulla cassa che accoglieva il cadavere della bella contessa Margherita e piangeva fissandola. In terra giacevano tramortiti i due becchini. - È resuscitato! È resuscitato! - diceva Oberto. Il conte di Poppi considerò il poeta per un momento e disse: - Anima buona, ritorna nel regno dei morti, ti farò dire delle messe per la tua salvezza. Il poeta piangeva sempre, con gli occhi rivolti sulla morta. - Anima buona, ritorna nel regno della morte, e lascia a me la cura di piangere sulla salma della mia diletta. - Parli a me, Conte? - domandò ser Grifo. Nell’udire quella voce, Oberto, cui il cugino non contendeva più il passo, risalì in chiesa preceduto da Bandino. Ser Grifo allora narrò al Conte che, destatosi dopo un lunghissimo assopimento, s’era trovato in quell’avello oscuro, dove, a tastoni, aveva fatto sforzi inauditi per sollevare la lapide che lo chiudeva, e quando ormai era ridotto a rassegnarsi a morir d’inedia, aveva veduto aprire il sotterraneo e calarvi la cassa. Il poeta, piangendo, aggiunse: - Ma allorché ho veduto per chi si dischiudeva quest’avello, ti giuro, nobile Conte, che avrei preferito rimanesse sempre chiuso e morirvi fra gli strazi della fame. Appena il Conte ebbe sciolta la fune che legava la bara della Contessa, la baciò sulle guance, e, scuotendo fortemente i due becchini, li fece alzare e risalì la scala dell’avello. Il conte Oberto e il conte Bandino avevano già narrato che ser Grifo era risuscitato, e la gente che empiva la chiesa stava in grande trepidazione attendendo il ritorno del poeta, del Conte e dei becchini. Primo a presentarsi fu il signor di Poppi, che fu accolto da un mormorìo di soddisfazione; ma quando comparve ser Grifo, con quel viso di cadavere e avvolto nel lenzuolo bianco, la gente incominciò a urlare e molte donne caddero prive di sentimento. Il Conte, per calmare lo spavento dei suoi terrazzani, pose una mano sulla spalla dell’infelice, che si reggeva a stento, e insieme con lui traversò la chiesa. Giunti che furono al palazzo, lo fece ristorare con buone bevande e con cibi, e da quel giorno lo tenne sempre al suo fianco, ascoltandolo con le lacrime agli occhi quando esaltava in versi le virtù e la bellezza della sua dilettissima. Ogni giorno il Conte e il poeta scendevano nell’avello dell’abbazia di San Fedele, mentre i frati a coro pregavano per l’anima della defunta; e ogni giorno bagnavano di nuove lacrime quella salma bellissima che la morte non era riuscita ad offendere. Il signor di Poppi, dopo la sua vedovanza, aveva cessato di compiacersi della compagnia dei suoi cugini e spendeva la vita nel sollevare i bisognosi, nelle preci e nei ricordi di un breve e lieto passato, che rimpiangeva incessantemente. Ogni volta che usciva, lo accompagnava ser Grifo, che la gente del contado non chiamava più col suo nome. Da tutti egli era designato con quello del «Morto risuscitato!». Egli sopravvisse al Conte, e quando morì davvero, non si trovò chi lo volesse sotterrare. Perciò lo lasciarono nella camera attigua alla cappella, sul letto stesso dov’era morto, e allorché la carne fu consunta e non vi rimasero che le ossa, vi fu un prete che le raccolse in una piccola urna e le depose in terra santa. Peraltro v’è chi dice che nel palazzo di Poppi si aggiri ancora nelle notti burrascose un’ombra avvolta in un lenzuolo bianco, che da tutti è chiamata il «Morto risuscitato». Io però non l’ho mai veduta e non ho mai conosciuto nessuno che mi potesse dire di averla mirata con i suoi occhi.
Gli sguardi di tutti i bambini si diressero involontariamente dal lato in cui sorge il grande palazzo, ma l’oscurità impediva che attraverso le finestre se ne scorgesse l’alta torre. - La novella è terminata, - disse Cecco, - e spero che vi sarà piaciuta tanto da invogliarvi di udirne un’altra la vigilia della Befana. - Davvero! - risposero in coro i bambini. - Quella sera, - disse la Regina, - vi racconterò appunto la storia della calza della Befana. Sono molti anni che non l’ho più narrata, e in questi giorni ci penserò per non dimenticarmi neppure una parola. - E quando torneremo a casa troveremo le calze che avremo appese al camino, tutte piene, - disse uno dei bambini invitati. - Di che? Di cenere e carbone, oppure di zuccherini? - domandò Cecco. - Quando ero piccino sapevo sempre quel che mi avrebbe portato la Befana. - Come si fa a indovinarlo? - domandò l’Annina allo zio. - Non è difficile. La sera, prima di addormentarsi, si ripensa a quel che abbiamo fatto nell’anno, e se non ci rammentiamo impertinenze grosse, cattiverie con i fratelli, rispostacce alla mamma, possiamo star sicuri che la calza sarà piena di bei regali; se invece la memoria ci dice che fummo oziosi, cattivi, impertinenti, quella benedetta calza non conterrà altro che fuliggine, cenere e carbone. Fate questo discorsetto con voi stessi, e vedrete che l’arte dell’indovino la imparerete subito. Era tardi, e i bimbi si separarono, dopo aver ringraziato la Regina. Cecco ricondusse la mamma in camera, e quando furono soli le buttò le braccia al collo e ambedue si baciarono forte forte. - Così potessi baciarti sempre, figlio mio! - disse la buona vecchia. - Ma almeno Iddio mi ha concesso la grazia che tu ritornassi prima che io lasci il mondo per sempre, e lo ringrazierò di questo favore finché le mie labbra potranno parlare. Cecco era commosso e per distrarla le disse: - Ora pensate a rammentarvi bene la novella della calza della Befana, perché voglio che vi facciate onore, avete capito? E con un nuovo bacio si separò dalla madre.