Il metodo dell'economia pura nell'etica/IV

Capitolo IV

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III


3. - Così questa Etica applicata, come la Scienza pura dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi dottrina metafisica, ma non pretende di sostituirla. Ignora i problemi metafisici; ma nel senso che non ne richiede e non ne assume una certa soluzione piuttosto che un’altra; non nel senso che ne neghi l’esistenza o ne escluda la trattazione. Rimane di fronte ad essa impregiudicata, e da essa distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ultimo dell’esigenza stessa morale; così come rimane impregiudicato il problema pratico, o propriamente psicologico e pedagogico, intorno al valore e all’efficacia delle credenze religiose o metafisiche come condizioni e fattori soggettivi della moralità.

Ma, ciò nonostante, o forse appunto perciò, è verisimile che sia giudicata, specialmente alla stregua delle tendenze più apertamente dominanti nel pensiero contemporaneo, doppiamente monca; monca considerata come dottrina; monca considerata rispetto alla efficacia pratica.

a) Certamente può parere strana se non ingenua l’idea di segnare una divisione di competenza tra l’indagine scientifica e l’indagine propriamente filosofica e metafisica, mentre pare di assistere a una specie di «atto di contrizione metafisica» delle stesse scienze speciali già formate; le quali, dopo essersi staccate e aver proclamato la loro indipendenza dalla filosofia, sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rintracciare in lei le origini della loro vita e la ragione del loro valore. Tuttavia una considerazione un po’ più attenta può mostrare che il contrasto è soltanto apparente e che la tendenza delle scienze speciali all’interpretazione e alla integrazione filosofica dei loro presupposti e dei loro risultati non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di una distinzione anche nel campo della morale. Perché essa presuppone appunto che le scienze abbiano i loro postulati, i loro metodi, i loro risultati, e che i sistemi speciali di dottrine così edificati sussistano ed abbiano una validità propria, sia pure limitata e provvisoria, all’infuori dell’interpretazione e della valutazione che ne debba o ne possa fare la metafisica. In questa specie di Conferenza permanente dell’Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è la mutua collaborazione delle diverse discipline alla critica e alla integrazione del sapere e del valere umano, sono gli stati che hanno territorio e giurisdizione propria che possono far sentire la loro voce. I delegati della Corea sono esclusi.

Intendo quello che si può dire: — La morale è essa stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali è subordinata la valutazione di tutte le altre discipline, dei loro principi e delle loro conclusioni. — Fosse pure, o, piuttosto, dovesse pure essere così. Quali sono queste esigenze della morale? Come si determinano? Qual è, fra i molti sistemi diversi opposti e anche contraddittori, quello autorizzato a rappresentare la morale, e a far valere le sue esigenze come esigenze della morale? E se si può distinguere una esigenza immediata e caratteristica, dato che si trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulteriori, argomentate o poste da questo o da quel sistema per interpretarla o giustificarla, allora è nello stesso tempo data la distinzione tra esigenza propriamente morale ed esigenze imposte o proposte da questa o quella interpretazione o integrazione metafisica della esigenza morale; e si delinea insieme una separazione legittima tra l’indagine che cerca di risalire dall’esigenza morale ai postulati metafisici, e l’indagine che ricava dall’esigenza morale le applicazioni che logicamente ne discendono.

— Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza, valutazione morale e credenza metafisica formano un tutto unico; e separando l’esigenza etica dalla fede metafisica colla quale è fusa e della quale si alimenta, si spezza l’unità della coscienza, si oscura o si cancella il significato e il valore interiore della moralità, e si presenta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo stampo esterno e quasi l’impronta fossile dell’atto morale. —

Sarà verissimo; ma nessuna costruzione dottrinale può sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e ragionata diventa perciò stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo è la parola, stampo è la stessa rappresentazione artistica se non è vivificata e risvegliata da chi la deve intendere e gustare; e sono diventate ormai stereotipe, per colmo di evidenza probativa, perfino le frasi e le immagini usate a mostrare la «ricchezza e la varietà inesauribile» della coscienza e delle sue creazioni.

E quanto al separare nella teoria ciò che nella realtà è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Perché ogni ricerca è prima di tutto distinzione, separazione, astrazione; il fatto stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, il Chevreul), è un’astrazione. Ciò che importa veramente è di non dimenticare che l’astrazione non è tutta la realtà.

Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la vita etica nella coscienza personale risulta o può risultare, quello che è suscettivo della più universale applicazione, e costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si pretende di esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto di distinguere le norme di condotta a giustificare le quali basta un certo postulato, dalle norme e dalle forme di vita morale che si fondano sopra altre esigenze, ossia richiedono altri postulati.

E chi crede che la chiarezza dei concetti e il rigore del procedimento si debbano portare, fin dove è possibile, anche nella speculazione etica, ammetterà che può essere utile allo scopo, se non anche necessario, il seguire questa via1.

— Rimangono altri problemi. — E chi lo nega? Ma prima condizione per cercar di risolverli con frutto è di non confonderli tra di loro.

b) E nasce da una confusione di problemi diversi l’obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto di efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedagogica, di una dottrina morale che faccia astrazione da ogni valutazione metafisica, e presenti un sistema di norme che ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel caso nostro, condizionato al valore che può avere nella coscienza il motivo impersonale della giustizia.

Poiché è uggioso a sé e agli altri ripetere cose già dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove, mi restringo qui a riaffermare la legittimità, anzi la necessità logica e la convenienza morale, di tener separata nettamente ogni ricerca che si volge a determinare quali siano le norme di condotta richieste da un certo fine, dalla ricerca delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o può dipendere l'osservanza delle norme2. La legittimità delle deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti rispetto al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o dalla assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l’osservanza, e dalla natura di questi motivi. Come il contenuto e la giustificazione delle prescrizioni d’un medico non dipendono dalla disobbedienza o dall’obbedienza dell’ammalato né dalle ragioni di questa obbedienza.

La reale presenza ed efficacia di motivi sufficienti a determinare l’osservanza è in ogni caso supposta, non posta da qualunque costruzione precettiva; e il supporre operativo il motivo della giustizia non esclude, ma piuttosto include, una ulteriore valutazione del motivo stesso, ogniqualvolta nella realtà esso derivi in tutto o in parte la sua forza da questa sopravvalutazione.

Ma anche in questo caso non bisogna dimenticare che una tale efficacia sarebbe sempre essa stessa postulata come un dato di fatto, non comunicata o largita da una fondazione qualsivoglia. Perché anche una fondazione religiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le suppone già viventi e operanti. Il suo valore come motivazione morale dipende dal valore reale che esse hanno nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa appello a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale nell’ipotesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei dati assunti da lei. E se questa fede mancasse, una fondazione metafisica o religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non diversa né maggiore di qualsivoglia costruzione arbitraria.

Senonché si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che si deve appunto volere quella fede dalla quale si può aspettarsi l’incremento del motivo morale, e che, poiché si tratta di «optare», conviene dal punto di vista pratico optare per una fede moralizzatrice. E compito del moralista sarà perciò di affermare e suggerire quella fede come presidio e conforto, utile se non necessario, della moralità, e presentare la dottrina morale connessa e incorporata con quella fede.

Su un discorso di questo genere ci sarebbero da dire molte cose; notiamone poche.

E prima di tutto convien pur ripetere che un tal compito, dato che spetti al moralista, gli spetta in quanto è o pretende di essere educatore o apostolo, non in quanto si propone di cercare quali conseguenze implichi l’accettazione di un certo postulato e si contenti di affermare che chi accetta il postulato deve accettare le norme che ne discendono. I due uffici non si identificano; chi ha stoffa di ricercatore può non avere stoffa di apostolo o di avvocato; e potrebbe in ogni caso invocare anche qui il principio della divisione del lavoro.

Ma dal punto di vista stesso pedagogico la tesi è tutt’altro che incontestabile. Suggerire e infondere una fede! È presto detto. Ma in che modo o per qual via? Partendo dall’esigenza pratica per arrivare alla credenza, cioè presentando la fede appunto come sostegno e guarentigia della moralità?

Lasciamo pure di indagare se con ciò non si nega in effetto, nell’atto stesso che si afferma, il valore assoluto dei postulati religiosi o metafisici, dal momento che essi sono affermati o posti come condizioni o fattori nella produzione di certi effetti, cioè sono valutati utilitariamente; e se non si offende il sentimento religioso, considerandolo unicamente come un motivo sussidiario invocato a supplire alla fiacchezza del motivo morale. Un pragmatista conseguente potrebbe non avere di questi scrupoli.

Ma lo scopo stesso a cui mira il pragmatista vien meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò che si vuol produrre; ossia si pone a sostegno del motivo morale un sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un risultato non dissimile da quello che hanno di solito le discussioni; dove le ragioni usate a sostenere un’opinione persuadono soltanto chi è già persuaso; cioè hanno in effetto tanto maggior peso quanto più è superfluo servirsene.

Se si tiene invece una via diversa, e si intende di edificare la credenza su una educazione propriamente dogmatico-religiosa, dov’è più la opzione, la affermazione libera e spontanea della coscienza?

E come può il moralista educatore presentare o imporre come unica e definitiva una fede, o una credenza religiosa o filosofica che egli sappia essere personale e «volontaria»?

La verità è che, mentre nel valore morale (posto che sia riconosciuto) del postulato che si assume a fondamento della costruzione scientifica, è necessariamente implicito il valore morale delle norme che ne esprimono l’applicazione, non è necessariamente implicita l’accettazione di certi piuttosto che di cert’altri postulati metafisici. Mentre, accettato un postulato di cui sia possibile l’applicazione alla condotta umana, la coerenza logica basta a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la coerenza logica non basta a porre come necessariamente richiesta da quel postulato una determinata fede religiosa o filosofica ad esclusione di qualsiasi altra. La salita al cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della logica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto che possono trovarsi concordi nell’accettare e nell’osservare la medesima esigenza morale uomini di opinioni religiose e filosofiche diverse; come, inversamente, può la stessa fede religiosa e filosofica presentarsi, nella realtà storica e psicologica, connessa con norme morali discordanti).

E la «libertà di coscienza» sarebbe una frase vuota di senso o piena di immoralità se il voler la giustizia e l’esser giusti richiedesse o l’esclusione di ogni fede o l’accettazione della medesima fede.


Note

  1. Le espressioni di più d’un antintellettualista indurrebbero quasi ad ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale, a voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è riconoscere che ogni valutazione è in ultimo data alla intelligenza e non dalla intelligenza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far volere un fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione a un altro fine; altro è credere ed affermare che l’intelligenza o la ragione sia «in contrasto» colla moralità. Come potrebbe essere? Non certamente in quanto si rivolge a determinare i mezzi necessari e convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma ancella della volontà in generale, e se la volontà è «buona», della volontà morale. Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la valutazione del fine (cioè dell’oggetto o contenuto materiale del motivo morale) mostrandone la connessione, prima ignorata o trascurata, con qualche cosa d’altro, che sia oggetto di una valutazione diversa; diciamo, per comodità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la valutazione di questo qualcosa d’altro non può venire dall’intelligenza (la quale, come si sa, chiarisce rapporti, non dà valori), manifestamente non si possono dare che due casi: O ha origine nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto che mettere in chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia in realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non tocca in nulla il valore e l’efficacia del motivo morale. Ammettere il contrario sarebbe come dire che cessa di amare la giustizia chi cessa di difendere una causa che credeva giusta, dopo che l’ha riconosciuta ingiusta. O ha origine in un motivo non morale (poniamo in un interesse egoistico); e anche qui l’intelligenza non farebbe che rivelare una condizione di fatto: la presenza e l’efficacia di motivi non morali nella valutazione dei fini e della condotta. La conoscenza dunque, anche in questo caso, non altera il valore del motivo morale; può eventualmente mostrare che il valore e l’efficacia sua non è esclusiva, o incontrastata, come si supponeva. Ma correggere un errore di giudizio non è cambiare uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt’al più, togliere un’illusione. Ma è nell’illudersi d’esser morali che consiste la moralità?
  2. Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto per abuso di linguaggio, attribuire ad una pretesa «efficacia pratica» delle norme; mentre le norme — per sé — hanno, a promuovere l’azione corrispondente, una efficacia maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a muovere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che nasce da un difetto d’analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza giustificativa e esigenza esecutiva, tra l’obbligo e la giustificazione dell’obbligo, e la pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in sé forza obbligativa. Cfr. Prolegomeni, ecc. (l’esigenza esecutiva); e La dottrina delle due etiche, ecc., Cap. III. (La pregiudiziale dell’im- perativo categorico).