Il metodo dell'economia pura nell'etica/II

Capitolo II

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I III


Ora il concetto che ho sostenuto e sostengo intorno alla possibilità, al carattere e ai limiti della morale come scienza1 coincide, nei suoi lineamenti formali, con quello che risulta dall’ipotesi qui sopra abbozzata. Io penso che sia essenziale così all’esigenza pratica come all’esigenza teorica di una trattazione morale, il costituirsi di una scienza etica, nella forma e con un procedimento analoghi a quelli dell’economia pura2; e colla piena consapevolezza che la validità normativa e la applicabilità della disciplina precettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e dentro i limiti che si sono or ora accennati.

Ma una costruzione etica analoga a quella dell’economia pura presenta una difficoltà preliminare, che non si è superata, ma soltanto lasciata in disparte, supponendo, come si è fatto artificiosamente, riconosciuto valore morale al motivo economico.

La difficoltà riguarda la scelta e la determinazione del postulato; il quale deve soddisfare a due condizioni: l’una comune all’etica e all’economia, l’altra esclusiva dell’etica. La condizione comune è l’applicabilità universale del postulato come principio informatore di tutta la condotta; la condizione propria dell’etica è che il motivo, di cui si postula questa universale e incontrastata efficacia, abbia valore morale.

Ora, vi è un motivo, del quale si possa legittimamente presumere che sia riconosciuto universalmente il valore morale, e del quale sia insieme possibile l’applicazione universale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale e collettiva?

A questa domanda ho già cercato altrove di trovare una risposta; esaminando prima in che consista l’esigenza caratteristica di una norma morale; e poi se vi sia e quale possa essere il fine che abbia il carattere di universale e preminente desiderabilità richiesto a giustificare il valore normativo del motivo corrispondente. La conclusione di questa analisi era la seguente:

— La desiderabilità di un ordine di effetti, che si assuma come fine, non viene tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene, cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali esso apparisca la condizione necessaria. E perciò, mentre è vano andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve in una pura espressione verbale, il fine che può valere come supremo si deve cercare non nell’uno o nell’altro dei fini a cui si riconosca valore per sé, ma in un ordine di effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si possa riconoscere questo carattere appunto di condizione necessaria non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si attribuisce valore per sé. E quindi il fine che può avere universalmente una desiderabilità superiore a ogni altro, non può consistere se non in un ordine generale e, si potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perché sia possibile universalmente la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di una gerarchia, della quale segni il culmine, né nel senso di una grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della precedenza necessaria o della indispensabilità; per la quale venga a raccogliersi su di esso come in un unico foco la luce e il calore di desiderabilità che irraggia dai fini ai quali apre universalmente la via.

E perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano abbia, come ha in realtà, per condizione la convivenza e la cooperazione sociale, il fine che può avere questo valore di precedenza necessaria sugli altri deve essere di necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni di convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perché ad una forma di società possa essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un valore potenzialmente uguale; ossia che nessuno dei fini dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. O in altri termini che tutti i soci trovino nelle condizioni di esistenza della società la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la convivenza e cooperazione sociale è condizione.

Ora, se si riconosce come esigenza della giustizia questa esigenza, alla quale deve soddisfare una forma sociale perché abbia universalmente valore di fine prossimamente supremo, determinare questo fine equivale a determinare un tipo di società nel quale siano attuate le condizioni richieste dalla giustizia così intesa, ossia un tipo ideale — conforme a questa esigenza — di homo iustus e di societas iusta. E ciò equivale a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe effettuato nell’ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia individualmente, ossia in qualunque forma di azione o di influenza che si eserciti così dalla società come da ciascuno dei singoli, subordinassero universalmente e costantemente qualsiasi altro motivo o desiderio al desiderio della giustizia.

E se supponiamo che con un procedimento analogo a quello tenuto dall’economia pura3 il sistema di relazioni che si avvererebbe nell’ipotesi, fosse già determinato, noi avremmo una Scienza pura della giustizia, una Diceologia pura, alla quale sarebbero totalmente applicabili le considerazioni fatte sopra circa i caratteri e le limitazioni che presenta una costruzione siffatta.


Note

  1. Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ad altri scritti precedenti: Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica, e Su la possibilità e i limiti della morale come scienza. (È questo il titolo del volume unico in cui vennero ristampati, nel 1907, i tre scritti: La dottrina delle due etiche di H. Spencer ecc., Per una scienza normativa morale, Il fondamento intrinseco del diritto secondo il Vanni).
  2. Se qualche critico osservasse che è fuor di proposito voler trasportare nell’Etica un metodo e un procedimento che nell’economia stessa è «oramai superato», o almeno è ripudiato, dalla Scuola storica in nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle esigenze etiche, potrei accontentarmi di rispondere che dell’obiezione si dovrà tener conto quando i moralisti avranno fatto nel fondare una trattazione scientifica dell’Etica tanto cammino, quanto ne fece nel campo dell’economia la Scuola classica; e che a mettere in canzone le ipotesi e le «robinsonate» degli economisti si cominciò dopo che le ipotesi avevano già reso i più importanti servigi, e perché si era preteso di scambiare senz’altro le astrazioni con la realtà. Ma si può anche aggiungere che il metodo e il procedimento della Scuola deduttiva, accompagnati da una chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della vitalità delle loro conclusioni, sono più vivi che mai nei cultori né pochi né oscuri dell’economia pura; e che la Scuola storica se ha il merito di cercare e mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle categorie e delle pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i quadri posti dalla Scuola deduttiva (Cfr. GIDE, Principes d’Éc. Pol., Not. Gen., V) e ne presuppone le leggi determinandone le deviazioni e le limitazioni nelle diverse forme storiche. Le scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare e correggere i concetti e i precetti dell’economia classica non ne negano il valore scientifico nei limiti dell’ipotesi, ma ne negano il preteso valore morale; negano cioè il carattere di giustizia e di inviolabilità attribuito arbitrariamente alle leggi economiche. Ed è facile avvertire che gli economisti di queste scuole (con qualunque nome si chiamino) in realtà sono moralisti che cercano di volgere a uno scopo pratico (nella scelta del quale sono guidati da un criterio etico) delle conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche: e la forma-limite di questa tendenza è una intera ricostruzione su basi etiche dei rapporti economici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare l’esigenza etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma anche economica della società. Ma ciò che più importa di osservare a questo proposito è che una critica radicale — da un pulito di vista etico — della realtà dei rapporti economici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare all’economia pura non un eccesso, ma un difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si rivela in ciò: che mentre l’economia pura si propone di studiare l’azione isolata del motivo economico, e perciò suppone ridotta l’azione dello stato alla tutela dell’uguale libertà per tutti, assume nello stesso tempo — come condizioni di uguale libertà — certe condizioni (p. es. la proprietà fondiaria, il capitalismo e il salariato) che limitano o alterano l’universalità e l’efficacia del motivo. Cioè o considera, per questo rispetto arbitrariamente, come categorie necessarie delle categorie storiche, o considera, pure arbitrariamente, come conformi all’ipotesi delle condizioni disformi.
  3. L’economia dà al postulato edonistico un contenuto materiale determinato considerando come «soddisfazioni» le soddisfazioni di certi bisogni, e come «sacrifici» certe privazioni e certe pene: mentre al postulato della giustizia il contenuto materiale, al quale se ne deve fare l’applicazione, è dato da tutte le specie di attività o da tutte le categorie di fini (esclusi soltanto quelli la cui ricerca o proseguimento importano la negazione del principio regolatore supposto) che in una società data sono possibili.