Il giornalino di Gian Burrasca/22 novembre
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Riaprendo il giornalino, e rileggendo le ultime parole scritte ieri l’altro, mi si riempie l’anima di malinconia e dico fra me: «Tutto è inutile, e i grandi non si correggeranno mai...»
E intanto anche questa volta, addio bicicletta!
Mentre scrivo sono qui barricato in camera mia, e deciso a non cedere finché non avrò la sicurezza di non essere picchiato dal babbo.
Il fatto, come sempre, si riduce a una inezia e la causa di esso dovrebbe procurarmi un premio invece che un gastigo, avendo io fatto di tutto per obbedire la mamma che ieri, prima di andar via di casa con le mie sorelle e con la signora Merope per far delle visite, mi aveva detto: - Cerca di divertire Maria, mentre siamo fuori, e abbi giudizio.
Io, dunque, dopo aver fatto con lei da cucina e qualche altro giuoco, tanto per contentarla, essendomi seccato a queste stupidaggini da bambini, le ho detto:
- Guarda, è quasi buio e c’è un’ora prima di andare a desinare: vogliamo fare quel bel giuoco, come ti feci vedere ieri in quel bel libro di figure? Io sarò il signore e tu lo schiavo che io abbandono nel bosco...
- Sì! Sì! - ha risposto subito.
La mamma, con le mie sorelle e la signora Merope non erano ancora tornate; Caterina era a preparare da mangiare in cucina: e io ho condotto Maria in camera mia, le ho levato il vestitino bianco, e le ho messo il mio di panno turchino, perché sembrasse proprio un ragazzo. Poi ho preso la mia scatola di colori e le ho tinto la faccia da mulatto, ho preso un paio di forbici e siamo scesi giù nel giardino, dove ho ordinato allo schiavo che mi venisse dietro.
Eravamo giunti in un viale solitario, quando rivolgendomi a Maria, ho soggiunto:
- Senti: ora ti taglio i riccioli, come nel racconto, se no ti riconoscono.
- La mamma non vuole che tu mi tagli i capelli! - ha risposto lei mettendosi a piangere. Ma io non le ho dato retta: le ho tagliato tutti i riccioli perché altrimenti non era possibile fare quel gioco.
Poi l’ho messa a sedere su una pietra, vicino alla siepe, dicendole che doveva far finta d’essere smarrita. E mi sono avviato tranquillamente verso casa.
Intanto ella urlava, urlava proprio come se fosse stato uno schiavo vero, e io mi tappavo gli orecchi per non sentire perché volevo seguitare il gioco fino in fondo. Il cielo era stato tutto il giorno coperto di nuvole, e in quel momento cominciarono a venir giù certi goccioloni grossi grossi... Quando sono entrato in salotto tutti erano a tavola ad aspettarci. Sulla tovaglia c’era un bellissimo vassoio pieno di crema e di savoiardi che mi hanno fatto venir subito l’acquolina in bocca.
- Oh, eccoli finalmente! - ha esclamato la mamma vedendomi, con un respirone di sollievo. - Dov’è Maria? Dille che venga a pranzo.
- Abbiamo fatto il giuoco dello schiavo, - ho risposto. - Maria deve fingere di essersi smarrita.
- E dove si è smarrita? - ha domandato la mamma ridendo.
- Oh, qui vicino, nel viale dei Platani, - ho continuato, mettendomi a tavola a sedere.
Ma il babbo, la mamma, la signora Merope e l’avvocato Maralli sono scattati in piedi, come se la casa fosse stata colpita da un fulmine, mentre invece tonava appena appena.
- Dici sul serio? - mi ha domandato il babbo, stringendomi forte il braccio e imponendo agli altri di mettersi a sedere.
- Sì; abbiamo fatto quel giuoco del signore e dello schiavo. Per questo ho dovuto travestirla da mulatto; e io che facevo il padrone che l’abbandonava l’ho lasciata sola laggiù; poi viene la fata, che la conduce in un palazzo incantato, e lei diventa, non si sa come, la più potente regina della terra.
Nessuno ha più messo un boccone in bocca, dopo che ebbi detto questo, meno io. La signora Merope si torceva le mani dalla disperazione e diceva che la bambina sarebbe morta dallo spavento, che aveva paura dei tuoni, che le sarebbe venuta certamente una malattia, e altre esagerazioni simili.
A sentirla, pareva che dovessero succedere tutti i guai del mondo per un po’ di freddo e un po’ d’umidità.
- Brutto! Cattivo! Scellerato! - ha esclamato Virginia, strappandomi di mano i biscotti che stavo per mangiare. - Non la finisci mai con le birbonate? Che coraggio hai avuto di venire in casa e di lasciare quell’angiolo caro, laggiù, sola, al freddo e al buio? Ma che cosa ti viene fuori dalla tasca?
- Oh nulla, sono i capelli di Maria. Glieli ho dovuti tagliare perché non fosse riconosciuta. Non ho detto che l’ho travestita da mulatto, con i capelli corti e la faccia nera?
Qui la signora Merope si è fatta pallida pallida, ed ha chinato la testa.
La mamma ha cominciato a spruzzarle il viso con l’aceto, e piangeva e singhiozzava. Il babbo si è alzato per andare a prendere una lanterna. Che furia d’andare a cercare quella bambina! Nemmeno se fosse stata un oggetto di valore! Mi faceva stizza di veder la casa in iscompiglio per una cosa da nulla. Il fatto è che mi è toccato di smetter di mangiare per andare a far vedere in che posto avevo lasciato Maria.
Era una vergogna sentire quello che dicevano di me; pareva che non fossi lì presente! Dicevano che ero un disubbidiente, uno sbarazzino, uno scellerato, un ragazzo senza cuore, come se le avessi tagliato la testa, invece dei capelli!
Questo è il fatto nella sua semplicità. La signora Merope parte oggi per Bologna, perché non mi può più vedere, e perché ha piovuto mentre che la sua bambina era smarrita nel viale. E io che mi infradiciai tutto per andare a cercare Maria, non ebbi in ricompensa né baci, né abbracci, non ebbi una tazza di brodo bollente con l’uovo dentro, come lei, non ebbi un bicchierino di marsala con i biscottini, la crema e le frutte, né mi stesero sul sofà per farmi tante carezze. Neppur per sogno! Fui invece cacciato in camera come un cane, e il babbo disse che sarebbe venuto su per conciarmi per il dì delle feste. So purtroppo quel che vogliono dire queste minacce. Ma io feci le barricate, come nelle città in tempo di guerra, e non mi prenderanno che sulle rovine del lavamano e del tavolino da scrivere che ho messo contro l’uscio.
Zitto! Sento del rumore... che sia l’ora del combattimento? Ho le provvigioni in camera, l’uscio è chiuso a chiave, ci ho messo davanti il letto, sopra il letto c’è il tavolino da scrivere, sul tavolino lo specchio grande.
Ecco il babbo... picchia alla porta perché gli apra, ma non gli rispondo. Voglio star qui zitto zitto, come il gatto quando è in cantina. Oh, se per un miracolo un ragno filasse la tela, a un tratto, a traverso l’uscio! Il nemico crederebbe la camera vuota, e se n’andrebbe.
E se volesse aprir per forza? Sento un gran fracasso! Spingono la porta... Andrà a finire che lo specchio cadrà, e andrà in bricioli, e dopo la colpa sarà mia, tanto per mutare.. Sempre così: è il ragazzaccio cattivo, è il famoso Gian Burrasca che fa sempre tutti i malanni... Roba vecchia!