Il giornalino di Gian Burrasca/15 ottobre
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Siamo al famoso martedì, causa di tutte le agitazioni di questi giorni...
Caterina mi ha messo il vestito nuovo e quella bella cravatta rossa tutta di seta che mi ha regalato l’altro giorno Carlo Nelli, quello della fotografia dov’era scritto: vecchio gommeux, che non so cosa voglia dire.
Le mie sorelle mi hanno fatto una predica lunga come una quaresima, con le solite raccomandazioni d’esser buono, di non far niente di male, di comportarmi educatamente con le persone che verranno in casa, e altre simili uggiosità che tutti i ragazzi sanno a memoria a forza di sentirsele ripetere a tutte l’ore e che si stanno a sentire proprio per dar prova della nostra condiscendenza verso i nostri maggiori, pensando, invece, a tutt’altre cose.
Naturalmente io ho risposto sempre di sì, e allora ho avuto il permesso d’uscir di camera e girare per tutte le stanze del pian terreno.
Che bellezza! Tutto è pronto per la festa che comincerà fra poco. La casa è tutta illuminata e mille fiammelle di luce elettrica risplendono qua e là, riflettendosi negli specchi, mentre ogni sorta di fiori sparsi per tutto fan bella mostra dei lor vivaci colori ed espandono per le sale i loro grati e delicati profumi.
Ma il più grato profumo è quello della crema alla cioccolata e alla vainiglia nelle grandi scodelle d’argento, e della gelatina gialla e rossa che trema nei vassoi, e di quei monti di pasticcini e di biscotti d’ogni qualità che si inalzano in salotto da pranzo, sulla tavola ricoperta da una bella tovaglia tutta ricamata.
Dovunque è un allegro scintillio di cristalli e d’argento...
Le mie sorelle sono bellissime, tutte vestite di bianco, scollate, con le gote rosse e gli occhi raggianti di felicità. Esse girano per tutto per vedere se ogni cosa è in ordine e accorrono a ricevere gli invitati.
Io sono venuto su a pigliare questi appunti sulla festa, ora che ho la mente serena... Perché dopo, giornalino mio, non posso garantire se sarò in grado di confidarti ancora le mie impressioni.
Ho fretta d’andare a letto, ma prima voglio raccontar qui come sono andate le cose.
Quando son ritornato al pian terreno, erano già venute le signorine di nostra conoscenza come sarebbero le Mannelli, le Fabiani, Bice Rossi, le Carlini e tante altre, tra le quali, quella seccherellona della Merope Santini, che si dà il belletto in modo indecente e alla quale la mia sorella Virginia ha appioppato il nome d'uscio ritinto.
Le ragazze erano molte, ma di uomini non c’erano che il dottor Collalto, il fidanzato di Luisa, e il sonatore di pianoforte che stava a sedere con le braccia incrociate, aspettando il segnale per eseguire il primo ballabile.
L’orologio segnava le nove; e il sonatore ha incominciato a sonare una polca, ma le signorine seguitavano a girar per la sala, chiacchierando tra di loro.
Poi il sonatore ha sonato una mazurca, e due o tre ragazze si son decise a ballar tra loro, ma non si divertivano. E intanto l’orologio segnava già le nove e mezzo.
Le mie povere sorelle non levavano gli occhi dalle lancette che per rivolgerli all’uscio d’ingresso; e avevano un’aria così desolata che facevano proprio compassione.
Anche la mamma era molto preoccupata, tant’è vero che mi son potuto ingoiare quattro gelati uno dietro l’altro, senza che neppur se n’accorgesse.
Come mi rimordeva la coscienza!
Finalmente, quando mancavano pochi minuti alle dieci, si è sentito una scampanellata.
Questa sonata di campanello ha rallegrato le invitate più di tutte le sonate fatte fino allora sul pianoforte. Tutte le signorine hanno dato un gran respirone di sollievo, voltandosi verso la porta d’ingresso in attesa dei ballerini da tanto tempo aspettati. Le mie sorelle si son precipitate per far gli onori di casa...
Ed ecco che, invece degli invitati, entra Caterina con una gran lettera e la porge all’Ada. Luisa e Virginia le si fanno attorno esclamando: - Qualcuno che si scusa di non poter venire!
Altro che scusa! Quella non era una lettera, né un biglietto: era una fotografia che esse conoscevano benissimo e che era stata per tanto tempo chiusa nella scrivania di Luisa.
Le mie sorelle son diventate di mille colori, e passata la prima impressione son cominciate fra loro le interrogazioni:
- Ma come mai? Ma come può essere? Ma com’è stato?
Di li a poco ecco un’altra scampanellata... Le invitate si voltano daccapo verso l’ingresso, aspettando sempre un ballerino, e come prima si presenta invece Caterina con un’altra lettera che le mie sorelle aprono trepidanti: è un’altra delle fotografie da me recapitate l’altro giorno ai rispettivi originali.
E dopo cinque minuti, un’altra scampanellata e un’altra fotografia.
Le mie povere sorelle erano diventate di mille colori; ero così mortificato nel pensare che io ero l’unica causa di questi loro dispiaceri, che mi misi a mangiar panini gravidi per distrarmi, ma non mi fu possibile, perché il rimorso era troppo grande, e avrei pagato chi sa che per trovarmi non so dove, pur di non vedere le mie povere sorelle in quello stato.
Finalmente son venuti Ugo Fabiani ed Eugenio Tinti, che sono stati festeggiati più d’Orazio Coclite dopo la sua vittoria contro i Curiazi. Ma io ho capito perché il Fabiani e il Tinti non avevano fatto come gli altri invitati! Mi son ricordato che sul ritratto del Fabiani era scritto: Che caro giovane!; e su quello del Tinti: Bello, bellissimo, troppo bello per questa terra!
Ma anche essendo in tre ballerini, compreso il Collalto che balla come un orso, come potevano fare a contentare una ventina di signorine?
A un certo punto hanno fatto un carré di lancieri, ma una ragazza ha dovuto far da uomo, e così è finito che hanno imbrogliato ogni cosa, senza che l’imbroglio facesse rider nessuno.
Le più maliziose bensì, come la Bice, ridevano tra loro nel vedere che la festa non era riuscita, e che le mie povere sorelle avevano quasi le lacrime agli occhi.
Una cosa molto riuscita, invece, sono stati i rinfreschi; ma, come ho detto prima, io ero molto angustiato, sicché non ho potuto assaggiare che tre o quattro bibite, delle quali la migliore era quella di marena, benché anche quella di ribes fosse eccellente.
Mentre stavo passeggiando per la sala, ho sentito Luisa che ha detto piano al dottor Collalto:
- Dio mio! Se potessi saper chi è stato, come mi vorrei vendicare!... È stato uno scherzo indegno! Domani, certo, saremo sulle bocche di tutti, e non ci potrà più soffrire nessuno! Ah, se potessi avere almeno la soddisfazione di sapere chi è stato!...
In quel momento il Collalto si è fermato dinanzi a me e, guardandomi fisso, ha detto a mia sorella:
- Forse Giannino te lo potrebbe dire; non è vero, Giannino?
- Di che? - ho risposto io, facendo finta di nulla. Ma mi sentivo il viso infocato, e poi mi tremava la voce.
- Come di che! O chi ha preso dunque i ritratti dalla camera di Luisa?
- Ah! - ho risposto io, non sapendo più che cosa dire. - Forse sarà stato Morino...
- Come! - ha detto mia sorella fulminandomi con gli occhi. - Il gatto?
- Già. L’altra settimana gli detti due o tre fotografie perché si divertisse a masticarle e può essere che lui le abbia portate fuori e le abbia lasciate per la strada...
- Ah, dunque le hai prese tu! - ha esclamato Luisa, rossa come la brace, e con gli occhi che le uscivano dalla testa.
Pareva mi volesse mangiare. Ho avuto una paura terribile e perciò, dopo essermi empite le tasche di torrone, sono scappato su in camera.
Assolutamente non voglio essere alzato quando gl’invitati se ne anderanno via. Ora mi spoglio e vo a letto.