Il flauto nel bosco/Brindisi
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Brindisi.
Gl’invitati maschi erano due; un grande artista povero e uno di quelli che un tempo si chiamavano contadini poi pescicani e adesso semplicemente agrari.
Il primo ad arrivare fu quest’ultimo, pochi minuti prima dell’ora fissata per il pranzo; e non per osservanza al galateo ma perchè la puntualità era la sua natura. Era in giacca, con la camicia di colore e una doppia catena d’oro con due medaglie che sulle prime destavano un senso di diffidenza ma a guardarle bene ritorcevano verso chi le guardava senza fede questo senso di diffidenza: poichè erano due medaglie al valore di guerra.
Il suo viso fece scialbi quelli delle signore invitate, tanto era roseo e fresco, rallegrato da due occhi di gatto.
La padrona di casa si alzò per riceverlo e presentarlo alle sue amiche; egli non badò neppure a questo supremo segno di deferenza e dopo essersi guardato in giro domandò dov’erano i bambini.
— Sono già a letto.
— Come? E non vengono a tavola con noi? Che allegria c’è allora?
Le signore sorrisero, ingenue e perverse; egli le guardò dall’alto, grande e maestoso come un principe, e bastò questo sguardo glauco un po’ venato di rosso, per farle tornare serie e gentili.
— E che si aspetta? — domandò, alcuni minuti dopo, guardando il suo orologio.
La signora arrossì, un po’ per lui ma anche perchè veramente l’ora per il pranzo era passata: e si alzò e gli prese il braccio.
Attraversarono il salone, poi un altro salotto in fondo al quale la cornice dell’uscio spalancato inquadrava in una luce di santuario lo sfondo della sala da pranzo: la tavola era coperta di rose, moltiplicate fantasticamente dal riflesso dei cristalli e delle argenterie: tanto che l’uomo in giacca disse:
— Sembra un altarino.
E mentre le signore complimentavano la padrona di casa per tanta bellezza egli sedette, ancora prima di loro, si mise una rosa all’occhiello, la odorò, si cacciò il lembo della salvietta nel davanti del colletto e sorrise a qualche cosa di lontano che lui solo vedeva.
Anche gli altri, al principio del pranzo, pareva pensassero un po’ melanconici ai fatti loro: un senso di freddo e quasi di tristezza ondulava nell’aria.
Nel vedere che il posto a sinistra della signora restava vuoto, l’uomo domandò:
— Se il suo puttino maggiore non dorme ancora perchè non lo fa alzare e venire a tavola? Si starebbe più allegri.
Allora si parlò dell’artista invano atteso.
— Chi sa se si ricorda neppure, di venire: è così distratto.
— Verrà — disse un po’ rigida la signora. — Il guaio è che questa sera non corrono i tram e lui, che sta di porta, dovrà venire a piedi, poveraccio.
Il rombo di un’automobile le rispose; e subito dopo l’invitato apparve, pallido alto e sottile nel suo inappuntabile frak, con una sinistra orchidea all’occhiello.
Baciò un po’ ansando la mano alla signora, domandò scusa, e preso posto, mentre si volgeva verso il vassoio che la cameriera gli offriva, disse con calma:
— Ho fatto tardi perchè mi è occorsa un’avventura straordinaria.
E d’un subito tutti i volti, già rischiarati dall’arrivo di lui, s’illuminarono di curiosità, di gioia, quasi di passione.
— Sentiamo quest’avventura, — disse il contadino, senza lasciargli tempo di mangiare.
Ma l’artista non si sgomentò, e neppure la padrona di casa che lo guardava di sottecchi e lo vedeva con orgoglio e piacere adoperare le posate toccandole appena con la punta delle dita pallide e fini, e mangiare con la lenta voluttà del gatto affamato, silenziosamente, odorando a volta a volta senza parerlo il cibo e le rose e il calice a metà colmo di vino dorato. Il cibo spariva dal piatto di lui come si volatizzasse, e fra un boccone e l’altro egli parlava con voce calma, lenta e musicale, quasi che invece di mangiare egli sognasse.
Nulla d’altronde di più naturale e semplice di quella voce che pareva la voce stessa della verità: eppure l’avventura da lui raccontata faceva strabiliare gl’invitati e la stessa padrona di casa che conosceva l’artista come conosceva i suoi fantasiosi bambini.
— S’immagini, signora, che ho corso rischio di morte e, peggio ancora, di essere rapito o di rapire la mia prima fidanzata adesso moglie e madre. Ma questo è nulla: adesso racconterò con ordine.
«Esco dunque di casa alle sette e mezza: penso: prendo un’automobile qui sotto in piazza e in dieci minuti sono dalla mia bella e amabilissima signora. (Grazie, sussurrò lei, ironica e lusingata). Arrivo in piazza e vedo una sola automobile ferma come uno scoglio in mezzo al vento. Il conduttore dorme: io apro lo sportello e sto lì come se avessi spalancato la porta dei sogni. Una donna tutta mascherata di pelliccie è rannicchiata nell’angolo: al mio urto solleva il viso e in quel viso bianco, in quei grandi occhi scuri ravviso tutto il fantasma del mio passato. È la donna che ho sempre amato e odiato, e che non rivedo da cinque lunghi anni: è lei, Vita: io la chiamavo così perchè veramente per me rappresentava la vita. Cos’è infine quella che noi chiamiamo vita? Sarebbe il nulla, senza le creature che destano in noi la passione, l’esaltazione, il desiderio di divenire grandi e immortali per attrarre loro nella nostra orbita e possederle in questa e nella vita dell’infinito. Io ho amato questa che chiamo Vita con la prima percezione della mia vita stessa. Il più lontano dei miei ricordi risale a lei: forse io avevo un anno e lei anche: giocavamo su un tappeto ed io le strappai una collanina con un anello d’osso ch’ella teneva al collo: subito si gettò furibonda su di me e ci avvoltolammo avvinti, piangendo e ridendo, come sempre di poi nella vita. Poi non la rividi per molti anni. I suoi genitori erano morti e lei viveva coi nonni, ricchissimi, che solo a grandi intervalli venivano a rivedere una loro terra accanto alla nostra. Io ero un ragazzo studioso, equilibrato; non pensavo alle donne, ma a volte pensavo a Vita: la rividi, dunque, che aveva sette anni, poi dieci, poi quindici, infine diciotto: e qui comincia l’idillio tragico: un amore dapprima fantastico, con incontri notturni, gite misteriose nei boschi, cavalcate e viaggi in barca lungo il fiume e fino al mare. Lei era bellissima, appassionata, naturalmente più precoce ed esperta di me. Mi amava, ma spesso mi tormentava fino alla crudeltà. Scoperti, lei fu allontanata di nuovo, ma tanto fece che i nonni le permisero di corrispondere con me. Io continuai a studiare, a scavarmi dentro, per sollevarmi fino a lei: e quando mi feci un posto e un nome nel mondo e tutto era pronto per le nostre nozze, ebbene, lei fuggì con un altro. Uno che, naturalmente, le fece presto scontare il suo tradimento: poichè questa è la legge della vita. Infelicissima, lei mi richiama, fa di me quello che vuole, mi solleva fino a Dio, mi butta giù fino al vizio e al delitto, e in ultimo mi getta via come uno straccio nella strada. Io mi sollevo e cammino; se qualche cosa ho fatto l’ho fatto per sollevarmi dal dolore e dall’umiliazione. E non l’ho mai dimenticata, neppure nell’odio alla vita stessa. Ed ecco la rivedo questa sera, un’ora fa, come una fiera in gabbia. — Che fai qui? — le domando. Dopo la prima sorpresa lei si mette a ridere, felice dell’avventura e mi dice con semplicità che aspetta un uomo col quale deve partire; e paurosa che sopraggiunga il marito si protende ansiosa ad ascoltare. Un passo. Chi è? Il marito o l’amante? — Vieni su, vieni, — lei dice smarrita; — conducimi via.
— Alla stazione, — ordino al conduttore, che intanto s’è svegliato, e chiudo, e stringo a me la donna. — Chiunque egli sia, — le dico in delirio, — fuggiamo; vieni con me. È tempo, è tempo.
L’automobile si è appena mossa che l’uomo sopraggiunto ci insegue a colpi di rivoltella.
— È lui, è l’odio — ella geme stringendosi a me. — Sì, sì, fuggiamo assieme.
— Chi è? Tuo marito?
— No, è l’altro, che odio e mi odia. Ascolta, — dice poi, riprendendosi, — riconducimi a casa: c’è la nostra bambina che non sta bene. Domani ti scriverò, ti dirò tutto.
Ed io l’ho ricondotta alla sua casa: poi sono corso qui.
*
Egli era diventato pallidissimo, con gli occhi infossati, invecchiato da un’angoscia che solo quel suo viso di spettro poteva esprimere. Eppure continuava a mangiare tranquillo, col brillante al dito come una goccia di rugiada.
Tutti partecipavano a quella sua pena, all’ansia del suo domani: anche la signora che pure lo conosceva da molti anni e mai aveva avuto da lui le confidenze adesso distribuite a stranieri: qualche osservazione la fece però l’uomo dei campi.
— Tutto questo non accadrebbe se si facesse una vita più regolare, pratica, senza viaggi nelle nuvole. Divertito mi sono anch’io: ma che sia accaduto mai nulla di simile a me? Fino ai diciotto, che dico? fino ai ventotto anni anch’io non ho badato alle donne, veh, intendiamoci nel senso di sposare; ma non c’è sala da ballo, delle nostre parti, che non conosca la suola delle mie scarpe, nè mano di donna che non conosca la mia. Ma, dico, lavorare sempre e fare gli affari come vanno fatti: poi servire la patria: anch’io ho veduto il rosso del sangue; eccolo cambiato nell’argento di queste medaglie. E sistemata la patria abbiamo pensato a sistemarci noi. I poderi che avevamo in affitto son diventati nostri; abbiamo settecento biolche di terra coltivata, duecento mucche, cavalli, macchine, trecento polli, sette maiali.
Ai polli attende mia madre, in un salone riscaldato che, non faccio per dire, è bello quanto quello della nostra qui amabilissima signora. (Grazie, lei esclamò, ironica e lusingata). E mentre attende a loro, mia madre legge: tutto è buono per lei, romanzi, giornali, almanacchi. Anch’io, veh, amo leggere, ma la notte. Smorza, dice mia moglie, smorza. Ma lasciami leggere, dico io, volgiti verso il muro. Smorza, lei insiste, il pissnin si può svegliare. Perchè abbiamo un piccolino, di tre mesi, che già ride, bello e buono come un panino di burro. Io me lo prendo tutto nudo a letto, la mattina, e piango per la contentezza di toccarlo. L’ho chiamato Ivan perchè è un bel nome.
— Lo farete studiare? — domandò la signora, col suo accento ambiguo fra la beffa e la tenerezza.
— Grazie, — disse l’uomo, grato dell’attenzione di lei. — Non so, l’avvenire è in mani di Dio.
E quando furono alzati i calici la padrona di casa disse:
— All’avvenire di Ivan.
— Dei figli vostri, — rispose il contadino tendendo il calice verso quello di lei.
Si alzò il padrone di casa e destò un applauso:
— Alla grandezza della nostra patria.
Ma il vero brivido di esaltazione tornò a destarlo l’artista quando si alzò, lentamente, di nuovo ringiovanito in viso, col calice d’oro ove la spuma si scioglieva come un’ostia:
— Alla poesia della vita.