Il doppio assassinio di via della Morgue
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
IL DOPPIO ASSASSINIO
DI VIA DELLA MORGUE
Qual canzone cantavano le Sirene? Che nome aveva preso Achille quando si celava fra le fanciulle?... domande veramente imbarazzanti ma che non sono certo al di fuori d’ogni congettura. |
B. Browne.
Le facoltà dello spirito che si sogliono chiamare analitiche sono di lor proprio natura poco suscettibili di analisi. Noi non le comprendiamo che dai loro risultamenti. Fra l’altro, quel che ne sappiamo è che esse sono per chi le possiede una sorgente straordinaria dei più vivi godimenti. Allo stesso modo che l’uomo forte si rallegra della sua attitudine fisica e si compiace in quegli esercizi che mettono in azione i muscoli, l’analitico trova tutto il suo godimento in quella attività spirituale la cui funzione è quella di risolvere. Egli trova piacere anche nelle occasioni più comuni che mettono in movimento il suo spirito. Egli va pazzo per gli enigmi, i rebus, i geroglifici; in ogni soluzione mette una potenza di perspicacia che nell’opinione dei più arriva ad essere caratterizzata per sopranaturale. E i resultati, abilmente dedotti dalla stessa essenza e dalla stessa anima del suo metodo, hanno veramente tutta l’aria d’una intuizione.
Questa facoltà di risolvere trae forza, gran parte della sua forza, dallo studio delle matematiche e in modo particolare dall’altissimo ramo di questa scienza che — molto impropriamente e solo in ragione delle sue operazioni ascendenti — è stata chiamata analisi, come proprio se essa fosse l’analisi per eccellenza. Imperocchè, in fondo, non è vero che ogni calcolo sia un’analisi. Un giuocatore di scacchi, per esempio, fa molto bene l’uno senza l’altra. Deriva da ciò che il giuoco degli scacchi è molto meno apprezzato negli effetti che ha sullo spirito. Ma io non voglio già qui scrivere un trattato sull’analisi: voglio solamente mettere in testa ad un racconto abbastanza singolare alcune mie osservazioni gettate giù alla buona e che possono benissimo tener la parte di prefazione.
Colgo dunque quest’occasione per proclamare che l’alta potenza della riflessione è molto più attivamente e con profitto maggiore messa in atto nel modesto giuoco delle dame, che in quello laborioso e futile degli scacchi. In questo secondo giuoco essendo i pezzi dotati di movimenti diversi e bizzarri e rappresentando essi valori diversi e variati gli uni dagli altri, la complessività — con un errore comunissimo — è presa per profondità. L’attenzione vi è realmente presa potentemente: se essa per un momento si allenta o commette un errore, risulta certo una perdita o una disfatta. Siccome i movimenti possibili sono non solo varii ma ineguali nella loro potenzialità, i risultati di tali errori sono infiniti; e in nove casi su dieci non è il giuocatore più abile ma è il più attento che vince. Nel giuoco delle dame al contrario, dove il movimento nella sua specie è semplicissimo e non vi sono che poche variazioni, le probabilità di inavvertenze sono molto minori e l’attenzione del giuocatore non essendo interamente ed assolutamente presa, tutti i vantaggi da esso riportati non possono attribuirsi che ad una superiorità di perspicacia.
Lasciando da una parte queste astrazioni, supponiamo un giuoco di dame in cui la totalità dei pezzi sia stato ridotto a quattro sole dame e dove naturalmente non siano da aspettarsi storditezze per parte dei giuocatori. È evidente che qui le parti essendo assolutamente eguali la vittoria non può essere decisa che da una tattica abile, la quale non è che il risultato di un potente sforzo del cervello. L’analitico, privato delle risorse ordinarie, entra nell’animo del suo avversario, s’identifica con lui e sovente scopre con un sol colpo d’occhio l’unico mezzo — un mezzo che alcune volte è magari semplice fino all’assurdo — per attirarlo in un tranello o farlo piombare in un calcolo falso.
Per molto tempo si è citato il giuoco del whist per la sua azione sulla facoltà del calcolo; e c’è chi ha conosciuto uomini d’una profonda intelligenza che sembravano godervi d’un incomprensibile piacere, ritenendo gli scacchi come un giuoco frivolo. Non v’ha, infatti, un altro giuoco che, come questo, faccia lavorare la facoltà dell’analisi. Il miglior giuocatore di scacchi che annoveri la cristianità non può esser altro che il miglior giuocatore di scacchi; ma aver la forza al giuoco del whist significa aver la forza di riuscire in qualunque altra speculazione importante dove lo spirito si trovi a combattere contro lo spirito.
Quando io dico la forza intendo quella perfezione nel giuoco che comprende il saper profittare di tutti i casi in cui essi possono recare un reale profitto. E questi non solo sono diversi ma sono anche complessi e spesso si nascondono nelle profondità del pensiero, in punti assolutamente inaccessibili ad intelligenze ordinarie.
Osservare attentamente, significa ricordarsi distintamente e, sotto questo punto di vista, il giuocatore di scacchi capace d’un’attenzione molto intensa, sarà un forte giuocatore di whist, poichè le regole di Hoyle, basate esse stesse sul semplice meccanismo del giuoco, sono facilmente e generalmente intelligibili.
Perciò avere buona memoria e procedere secondo le regole del manuale per il volgo sono i punti che costituiscono il summum del buon giuocatore. Ma il talento dell’analitico si manifesta in casi che si trovano fuor dalle regole comuni; là dove egli fa una folla d’osservazioni e di deduzioni silenziosamente. Quelli che tengono il giuoco con lui ne fanno forse altrettante: ma la differenza d’estensione delle nozioni così acquistate non sta tanto nella validità della deduzione, quanto nella qualità dell’osservazione. L’importante, la cosa principale a sapersi è di conoscere ciò che bisogna osservare. Il nostro giuocatore non si confina nel suo giuoco, e, quantunque esso sia in quel momento il solo oggetto della sua attenzione, non per questo egli rigetta le deduzioni che nascono da cose estranee affatto al suo giuoco. Egli esamina la fisonomia del suo compagno, la paragona accuratamente con quella di ciascun altro dei suoi avversari: considera la maniera come ogni compagno distribuisce le sue carte; spesso conta, grazie agli sguardi che i giuocatori soddisfatti lasciano sfuggire, a uno a uno, tutti gli assi e tutti gli onori: egli nota ogni movimento della fisonomia, di mano in mano che il giuoco va avanti e raccoglie così un capitale di pensieri nelle varie espressioni che contano la certezza, la sorpresa, il trionfo o il cattivo umore. Al modo di raccoglier le carte egli, indovina se la stessa persona sia al caso di fare un’altra simile raccolta in quella partita. Egli riconosce se ciò che si vuol giuocar per astuzia abbia lo stesso valore quando si trova sulla tavola. Una parola accidentale, involontaria, una carta che cade o che per caso si rovescia, che viene raccolta con ansia o con noncuranza, il conto delle alzate e l’ordine col quale esse si succedono, l’imbarazzo, l’esitazione, la vivacità, la trepidazione — tutto è per lui sintomo, tutto è per lui diagnostico, tutto gli completa la sua percezione — in apparenza instintiva — del vero stato delle cose. Quando sono stati fatti i primi due o tre giri, egli è padrone del giuoco che si trova in ciascuna mano e può d’allora giuocar tutte le sue carte con perfetta cognizione di causa, come se tutti gli altri giuocatori avessero scoperte le loro.
La facoltà d’analisi non deve essere confusa col semplice talento: imperocchè mentre l’analitico è per necessità uomo d’ingegno, accade sovente che l’uomo d’ingegno è assolutamente incapace d’un analisi. La facoltà di combinazione o costruttività, per mezzo della quale quest’ingegno generalmente si manifesta e a cui i frenologi — che, secondo me, hanno torto — assegnano un organo a parte, supponendo che si tratti d’una facoltà primordiale, si è trovata in esseri la cui intelligenza era confinante con l’idiotismo: e ciò spesso in grado tale da attirare l’attenzione degli scrittori psicologi. Fra il talento e l’attitudine analitica vi è molto maggior differenza che non fra l’immaginativa e l’immaginazione, ma pure è una differenza d’un carattere assolutamente analogo. Insomma si trova che l’uomo d’ingegno è sempre ricco d’immaginativa ma che l’uomo solo d’immaginativa non è altro che un uomo analitico.
Il racconto che segue sarà per il lettore un luminoso comentario a quanto sono andato fino ad ora dicendo.
Durante la primavera e buona parte dell’estate dell’anno 18** io mi trovava a Parigi, dove feci la conoscenza d’un certo C. Augusto Dupin.
Questo giovine gentiluomo apparteneva ad una buonissima famiglia, anzi ad una famiglia illustre; ma per una serie di sciagurati avvenimenti si trovò ridotto ad una tale povertà che perdette tutta l’energia del suo carattere fino a cessar del tutto dal farsi vedere in società ed occuparsi di ristabilir la sua fortuna. Mercè la cortesia dei suoi creditori egli rimase possessore di un piccolo resto del suo patrimonio; e colla rendita di esso, mediante una rigorosa economia, trovò modo di provvedere alle necessità della vita senza tanto preoccuparsi del superfluo. Il solo suo lusso erano i libri che a Parigi è facile procurarsi.
Noi facemmo la nostra prima conoscenza in un’oscuro gabinetto di lettura della via Montmartre; e ciò avvenne perchè ambedue stavamo ricercando uno stesso libro rarissimo e importantissimo: questa coincidenza ci fece avvicinar l’uno all’altro. Poi ci vedemmo sempre più spesso. Fui profondamente commosso della breve storia della sua famiglia, che egli minutamente mi raccontò, con quel candore e quell’abbandono e quella nessuna preoccupazione dell’io — che è la caratteristica di ogni francese che parli dei propri affari.
Rimasi molto maravigliato della quantità prodigiosamente immensa delle sue letture, ma l’anima mia sopratutto fu conquistata dallo strano calore e dalla freschezza piena di vita della sua immaginazione. Cercando in Parigi alcuni oggetti che formavano lo scopo dei miei studi, m’accorsi che la compagnia d’un tal uomo sarebbe stata per me un inapprezzabile tesoro e da quel momento, con tutta franchezza, mi aprii a lui. Finimmo col decidere che durante tutto il tempo del mio soggiorno a Parigi avremmo vissuto insieme; e siccome i miei affari erano molto meno imbrogliati dei suoi, io mi incaricai di prendere in affitto e di mobigliare in una maniera adatta alla fantastica malinconia delle anime nostre una casetta vecchia e bizarra che la superstizione aveva fatto rimanere deserta, facendola cadere quasi in ruina. Non ci curammo d’indagare le ragioni di ciò e ci recammo ad abitar la casetta, la quale era situata in una parte remota e solitaria del sobborgo S. Germano.
Se l’andamento della nostra vita in quel luogo fosse stato conosciuto dalla gente, tutti ci avrebbero preso per due pazzi — forse per due pazzi d’un genere inoffensivo. — Non ricevevamo alcuno e la nostra reclusione era completa.
Il nostro ricovero era rimasto un segreto per tutti quanti i miei antichi compagni; Dupin poi già da molti e molti anni aveva cessato di frequentare la società e di girar per Parigi. Noi quindi non vivevamo che con noi.
Il mio amico aveva una bizzarria d’amore — non si potrebbe infatti chiamarla altrimenti, — ed era d’amar la notte per amor della notte; la notte era la sua passione; ed anch’io mi lasciai trascinare in questa bizzarria, come in tutte le altre sue strane originalità, col più completo abbandono. La nera divinità non poteva essere eternamente con noi; ma noi ce ne creavamo un’altra a nostro servizio. All’alba chiudevamo tutti quanti i pesanti sportelli della casa e accendevamo un paio di lampade acutamente profumate, le quali non mandavano che debolissimi e pallidissimi raggi. In mezzo a quel debole chiarore abbandonavamo l’anima ai sogni, leggevamo, scrivevamo, o chiacchieravamo fino a che l’orologio avvertiva che la vera oscurità era tornata. Allora a braccetto scendevamo per le vie, continuando la conversazione del giorno, gironzando a caso fino ad un’ora avanzatissima e cercando traverso alle luci disordinate e alle tenebre di quella popolosa città quegli innumerevoli eccitamenti dello spirito che non possono essere dati da uno studio tranquillo.
In tali circostanze — quantunque la ricca idealità di cui il mio amico era dotato avesse dovuto prepararmivi — io non poteva fare a meno d’osservare ed ammirare in Dupin la particolare attitudine ch’egli aveva all’analisi. Pareva che egli godesse un’acre delizia ad esercitarla, forse anche a mostrarla solamente, e senza ambagi confessava che ne ritraeva un piacere infinito. Con un sorrisetto aperto mi diceva che molti uomini avevano per lui una finestra aperta al posto del cuore, ed accompagnava ordinariamente il suo dire con una quantità di prove immediate e sorprendenti che egli traeva appunto da una profonda conoscenza della mia stessa persona.
In quei momenti le sue maniere erano fredde e distratte; i suoi occhi guardavano nel vuoto, e la sua ricca voce da tenore saliva ad un tono di testa. Osservandolo nei suoi movimenti, sovente pensavo alla vecchia filosofia dell’anima doppia e mi divertivo nell’idea di un doppio Dupin, un Dupin creatore, ed un Dupin analitico.
Da quanto ho detto, non pensi il lettore che io stia per scendere a svelare un gran mistero o a scrivere un romanzo.
Tuttociò che io avevo osservato in questo singolare francese era il semplice risultamento d’un´intelligenza sovraccitata, forse malata. Ma un esempio darà meglio l’idea di quel che erano le sue osservazioni in quest’epoca.
Una notte passavamo per una lunga e sudicia strada nelle vicinanze del palazzo reale. Ognuno di noi, almeno in apparenza, era assorto nei suoi pensieri e almeno da un quarto d’ora nessuno di noi aveva pronunciato una sillaba. Ad un tratto Dupin disse:
— Veramente è proprio un ragazzino e starebbe meglio al teatro delle Varietà.
— Senza dubbio — replicai senza pensare e tutto assorto, senza nulla osservare della singolar maniera con cui Dupin aveva rivestito di parole quello che in quel momento io stavo pensando.
Un minuto dopo, tornato in me, fui profondamente stupefatto.
— Dupin — gli dissi gravemente — ecco una cosa a cui la mia intelligenza non sa arrivare. Senza scrupolo vi confesso che ne sono stupefatto e che appena posso quasi credere a me stesso. Come mai può essere che abbiate indovinato che io stava pensando appunto a...?
E mi fermai per assicurarmi meglio ch’egli avesse realmente indovinato ciò che io aveva pensato in quel momento.
— A Chantilly? — egli disse — e perchè v’interrompete? Voi stavate pensando che la sua piccola persona non lo rende adatto alla tragedia.
Era precisamente la cosa che io stavo riflettendo. Chantilly era un ex-ciabattino della via San Dionigi il quale, appassionato pel teatro, aveva voluto recitar la parte di Serse nella tragedia di Crebillon; le sue pretese erano ridicole e tutti ne avevano fatto le grasse risate.
— Per amor di Dio ditemi il metodo, se un metodo esiste... per mezzo del quale voi, in questo caso, avete potuto penetrar nell’anima mia.
Infatti io ero ancora molto più stupefatto di quanto non avessi voluto confessare.
E il mio amico replicò:
— È il fruttivendolo che vi ha fatto concludere come il ciabattino non avesse la persona adatta a recitar la parte di Serse o qualunque altra di un tal genere.
— Il fruttivendolo! voi mi stupite!... io non conosco fruttivendoli di nessuna specie.
— E l’uomo che un quarto d’ora fa, quando noi siamo entrati in questa via, ha urtato contro di voi?...
Allora infatti mi ricordai che sul punto di passar dalla via C*** all’arteria principale in cui noi ci trovavamo in quel momento, un fruttivendolo con un gran canestro carico di pomi sul capo, mi aveva urtato e mi aveva quasi gettato a terra. Ma che rapporto c’era fra lui e Chantilly? Mi era impossibile farmene una ragione. Eppure nel mio amico Dupin non vi era neppure un atomo di ciarlataneria.
— Vi spiegherò la cosa — egli disse — e perchè possiate comprendere tutto chiaramente, riprendiamo prima di tutto all’indietro la serie delle vostre riflessioni, dal momento in cui vi parlo fino all’incontro fatto col fruttivendolo. Gli anelli principali di questa catena di pensieri sono i seguenti: Chantilly, Orione, il dottor Nichols, Epicuro, la Stereotomia, i pavimenti, il fruttivendolo.
Vi sono poche persone che, in un momento qualsiasi della loro vita, non si sian divertite a risalire il corso delle loro idee ed a ricercare per qual via il loro spirito fosse arrivato a certe date conclusioni. Spesso un tal lavoro è pieno d’interesse e chi ne fa la prova per la prima volta rimane stupito dall’incoerenza e dalla distanza, la quale in apparenza è immensa, fra il punto di partenza e quello d’arrivo. Si giudichi quindi del mio stupore quando, dalle parole dette da Dupin, io fui costretto di conoscere ch’egli aveva detto la pura verità.
Egli continuò:
— Proprio prima d’abbandonare la via C***, se la memoria non m’inganna, discorrevamo di cavalli... È stato questo l’ultimo tema della nostra conversazione. Entrati poi in questa strada, un fruttivendolo con un ampio canestro sul capo è passato precipitosamente dinnanzi a voi e vi ha fatto andare sopra a un ammucchiamento di sassi, in un punto dove si sta riparando il selciato della strada. Voi avete messo il piede sopra uno di quei selci, vi siete scivolato sopra e vi siete fatto leggermente male alla caviglia: siete parso un po’ seccato, imbronciato e avete anche borbottato non so quali parole; poi vi siete rivoltato per guardare il mucchio di pietre e silenziosamente, dopo, avete ripreso la vostra strada. Io non stavo assolutamente attento a ciò che voi facevate: ma per me, lo sapete, l’osservazione è diventata da molto tempo una specie di necessità. I vostri occhi sono rimasti fissi a guardare il suolo, esaminando con una specie d’irritazione tutti i buchi e le fosse del pavimento ed io naturalmente ho compreso che voi pensavate sempre ai selci... fino a che siamo arrivati al piccolo, passaggio Lamartine, dove con un sistema nuovo di blocchi solidamente uniti insieme si sta facendo un esperimento di pavimentazione in legno. A questo punto la vostra fisonomia si è rischiarata, ed io ho visto muoversi le vostre labbra ed ho indovinato in modo da non poterne affatto dubitare, che andavate mormorando la parola stereotomia, parola che molto pretenziosamente si è voluto applicare a questo genere di pavimentazione. Io poi sapevo che voi non avreste potuto dire una tal parola senza pensar subito agli atomi e da questi risalire alle teorie d’Epicuro: e poichè, nella conversazione che noi avemmo su ciò, appunto non molto tempo fa, io vi avevo fatto osservare che le teorie dell’illustre greco, senza che nessuno vi avesse badato, erano state confermate dalle ultime teorie sulle nebulose e dalle recenti scoperte cosmogoniche, io sentii che voi non poteste fare a meno d’alzare i vostri occhi verso la grande nebulosa d’Orione; lo avevo preveduto. Ed infatti è avvenuto precisamente così ed io fui sicuro d’aver seguito passo a passo tutto quanto il procedere dei vostri pensieri. Ora in quel feroce articolo su Chantilly, comparso ieri in appendice al Museo, il satirico scrittore, facendo una sguaiata allusione al cambiamento di nome del ciabattino quando ha calzato il coturno, citava un verso latino di cui spesso abbiamo insieme parlato. Quel verso appunto:
- Perdidit antiquum litera prima sonum.
Io vi aveva detto che questo verso si riferiva precisamente ad Orione, che prima dicevasi Urione: e in merito ad una certa acrezza che aveva sprizzato in quella discussione, io ero sicuro che voi non l’avevate dimenticato. Era dunque chiaro che non avreste potuto fare a meno d’associare le due idee di Orione e di Chantilly. Io ho visto quest’associazione d’idee dallo stile del sorriso che increspava le vostre labbra. Voi pensavate all’immolazione del povero ciabattino: fino ad allora avevate camminato alquanto curvo, ma in quel punto vi siete raddrizzato in tutta la vostra persona. Ed io ero ben sicuro che voi pensavate alla piccola statura di Chantilly. In quel momento ho interrotto le vostre riflessioni, per confermarvi appunto che Chantilly non era che un povero aborto e che il suo posto più adatto sarebbe stato al teatro delle Varietà.
Poco tempo dopo questa nostra conversazione, stavamo insieme leggendo l’edizione della sera della Gazzetta dei tribunali, quando la nostra attenzione fu attirata dai paragrafi seguenti:
DOPPIO SINGOLARISSIMO ASSASSINIO.
«Verso le tre di questa mattina gli abitanti del quartiere S. Rocco furono svegliati da una serie di grida spaventevoli che parevan venire dal quarto piano d’una casa di via della Morgue, che si sapeva interamente occupata dalla signora L’Espanaye e da sua figlia Camilla. Dopo infruttuosi sforzi per farsi aprir con le buone, sforzi che causarono qualche ritardo, fu forzato il portone ed otto o dieci dei vicini entrarono assieme con due gendarmi.
«Intanto le grida avevano cessato; ma, al momento in cui tutti insieme arrivavano al primo piano, s’intesero due voci robuste — forse anche di più — che sembra vano disputar violentemente e venire dalla parte superiore della casa. Quando tutti arrivarono al secondo pianerottolo, anche questi rumori eran cessati e tutto era tornato perfettamente tranquillo. I vicini si sparsero per le camere. Giunti in una vasta stanza situata sul di dietro, al quarto piano, e di cui si dovette forzar la porta poichè era chiusa a chiave internamente, tutti si trovarono dinnanzi ad uno spettacolo che li colpì di stupore non meno che di terrore.
«La camera era nel più strano disordine, i mobili spezzati e sparsi da tutte le parti. Non vi era che un solo letto, da cui erano stati tolti i materassi e gettati in mezzo al pavimento.
«Sopra una sedia fu trovato un rasoio intinto di sangue: sul camino tre lunghe ciocche di capelli grigi che sembravano essere state strappate violentemente con le loro radici. Sul pavimento giacevano quattro monete d’oro, un orecchino con un topazio, tre cucchiai d’argento, tre cucchiaini di metallo e due sacchetti che potevan contenere circa quattromila franchi in oro. In un angolo i cassetti d’un comò erano spalancati e, quantunque vi si trovassero molti oggetti intatti, erano evidentemente stati saccheggiati. Sotto il letto fu trovato un cofanetto di ferro aperto e con la chiave nella serratura.
«Esso non conteneva che poche vecchie lettere ed altre carte senza nessuna importanza.
«Nessuna traccia della signora L’Espanaye: si osservò però una straordinaria quantità di fuligine sparsa sul focolare; allora si cercò nel camino e — orribile a dirsi — se ne trasse il corpo della fanciulla che era stato introdotto a forza nella canna colla testa in basso e spinto per la stretta apertura fino ad una altezza abbastanza considerevole. Il corpo era ancora caldo. Esaminandolo si scoprirono numerose escoriazioni causate senza dubbio dalla violenza colla quale quel corpo era stato ficcato là dentro e dagli sforzi che s’eran dovuti fare per trarlo fuori. La faccia era profondamente graffiata e la gola portava nere lividure e lunghe traccie di unghie come se la morte fosse avvenuta per strangolamento.
«Dopo aver minuziosamente esaminato tutta la casa, senza scoprir nulla di nuovo i vicini entrarono in un cortiletto situato dietro la casa. Là giaceva il cadavere della vecchia signora, con la gola tanto perfettamente tagliata, che quando si provò a sollevarne il corpo la testa si staccò completamente dal busto. Tutta la persona era stata terribilmente mutilata e a un punto tale che conservava appena un’apparenza umana.
«Tutto questo affare resta un orribile mistero e fino al momento in cui scriviamo non è stato scoperto il più piccolo filo conduttore».
Il numero seguente della Gazzetta dei Tribunali recava questi altri particolari:
IL DRAMMA DI VIA DELLA MORGUE.
«Molte persone sono state interrogate relativamente a questo avvenimento altrettanto terribile che straordinario, ma nulla è risultato che potesse rischiarare il mistero; diamo qui appresso le deposizioni che si sono ottenute.
«Paolina Dubourg, lavandaia, depone che ha conosciuto le due vittime per tre anni, durante il qual tempo ha sempre lavato per loro. La vecchia signora e sua figlia sembravano andare di buonissimo accordo ed erano fra loro affezionatissime. Erano buona gente. Essa però non può dir nulla relativamente al loro genere di vita e ai loro mezzi. Crede che la signora L’Espanaye per vivere dicesse la buona ventura: si diceva però che avesse del danaro in serbo. Quand’essa veniva a riportare o a prendere la biancheria, in casa non ha incontrato mai nessuno: ed è sicura che le due donne non avevano nessun domestico. Le è parso di vedere che, di tutta la casa, non vi fossero mobili altro che al quarto piano.
«Pietro Moreau tabaccaio depone di essere stato l’abituale fornitore della signora L’Espanaye a cui vendeva piccole quantità di tabacco, alcuna volta in polvere. Egli è nato nel quartiere e vi ha sempre dimorato. Le due donne occupavano da oltre sei anni quella casa dove furono ritrovate cadaveri. Prima vi aveva abitato un gioielliere che subaffittava gli appartamenti superiori a parecchie persone. La casa era di proprietà della signora L’Espanaye: ed essa si era mostrata molto malcontenta del suo inquilino che le screditava l’ambiente; perciò era venuta ad abitarvi essa stessa, rifiutando d’affittarne anche una parte. La signora era buonissima: il teste nell’intervallo di questi sei anni ne ha veduto la figlia solo cinque o sei volte. Ambedue conducevano una vita ritiratissima ed erano in voce d’aver denaro. Egli ha inteso dire dai vicini che la vecchia diceva la buona ventura, ma non lo crede. Egli non ha veduto varcar la soglia di quella porta che una o due volte da un fattorino e otto o dieci da un medico.
«Parecchi altri del vicinato depongono nello stesso senso. Non si cita nessuno che abbia frequentato la casa. Non si sa se la madre e la figlia avessero altri parenti. Gli sportelli delle finestre dalla parte di strada raramente si aprivano: quelli sul di dietro erano sempre chiusi, meno alle finestre del camerone al quarto piano. La casa era abbastanza buona e non troppo vecchia.
«Isidoro Muset, gendarme, depone di essere stato chiamato verso le tre del mattino e d’aver trovato dinnanzi al portone venti o trenta persone che cercavano di penetrar nella casa. Egli ha forzato la porta con una baionetta e l’ha aperta facilmente, poichè era a due partite e non vi erano chiavistelli nè in alto nè in basso. Dice che le grida hanno continuato fino al momento in cui la porta è stata aperta, poi hanno cessato ad un tratto. Si sarebbero dette grida di una o più persone in preda ai più atroci dolori; grida altissime, prolungatissime, non brevi, nè strozzate. Il teste ha corso per le scale. Giunto al primo pianerottolo ha inteso due voci che disputavano in tono altissimo e molto acre; una era una voce rude, l’altra era molto più acuta e di un timbro singolarissimo. Della prima che era quella d’un francese egli ha compreso qualche parola come: sagramento e diavolo. Egli è certo che questa non era voce di donna. La voce acuta era quella d’uno straniero; ma egli non sa precisamente dire se fosse d’uomo o di donna: non ha potuto capir nulla di quel che diceva, ma presume che si trattasse d’uno spagnuolo. Questo teste racconta poi del modo come fu trovata la camera e i cadaveri, alla stessa maniera che noi ieri abbiamo esposto.
«Enrico Duval, un vicino di professione orefice, depone di aver fatto parte del numero di coloro che per i primi sono entrati nella casa. Conferma generalmente la testimonianza di Muset: appena entrati nella casa essi avevan richiusa la porta per impedir l’entrata alla gente che, malgrado l’ora mattutina, cominciava ad affollarsi di fuori. Secondo il teste la voce acuta era quella d’un italiano: in ogni modo non era certo francese poteva esser forse voce di donna, ma egli non lo sa di sicuro. Il teste non ha famigliarità colla lingua italiana, nè ha potuto distinguer le parole ma dal tono è convinto che la voce fosse d’un italiano. Egli ha conosciuto la signora L’Espanaye e sua figlia. Ha parlato spesso con loro, ed è sicuro che la voce acuta non appartenesse a nessuna delle vittime.
«Odenheimer, trattore, si è offerto spontaneamente a testimoniare. Nativo di Amsterdam non parla francese e lo si è interrogato per mezzo di un interprete. Egli, al momento delle grida, passava dinnanzi alla casa e dice che quelle han durato circa dieci minuti: eran grida prolungate, altissime, spaventose, grida strazianti.
«Anche Odenheimer è entrato nella casa. Egli conferma la testimonianza precedente, ma se ne allontana in un solo punto. Egli è sicuro che la voce acuta fosse voce maschile e d’un francese. Egli non ha potuto distinguere le parole. Eran voci alte, rapide, ineguali nel tono e che esprimevano tanto la paura quanto la collera. Lo stesso tono era più aspro che acuto. Egli non può precisamente dire che fosse una voce acuta, e intese che l’altra a più riprese ripeteva: Sagramento, diavolo e una volta: Dio mio!
«Il banchiere Giulio Mignaud della Casa Mignaud e figli in via Deloraine. Egli è il più grande dei Mignaud. Sa che la signora L’Espanaye possedeva qualche cosa ed egli stesso ott’anni fa, in primavera, le aveva aperto un conto corrente col suo banco, dove ella spesso depose piccole somme di danaro. Egli non le ha versato nulla fino a tre giorni prima della morte, poichè in quel giorno andò essa in persona a ritirare quattromila franchi. Quella somma le era stata pagata in oro ed un commesso del banco era stato incaricato di portargliela in casa.
«Adolfo Lebon è il commesso del banco Mignaud e figli che accompagnò la signora L’Espanaye fino a casa coi quattromila franchi divisi in due sacchetti. La signorina L’Espanaye venne ad aprir la porta, e gli tolse dalle mani uno dei sacchi, mentre la vecchia signora prendeva l’altro. Egli le salutò e se ne andò. Non vide nessuno nella via, poichè quella strada è fuor di mano e molto solitaria.
«Il sarto Guglielmo Bird, inglese di nascita, da due anni vive a Parigi. Fu dei primi a salir le scale ed intese le voci che disputavano. La voce rude era quella di un francese: intese qualche parola ma non se ne ricorda solo rammenta distintamente le parole sagramento e Dio mio! In quel momento il rumore era come quello di parecchie persone che si battono, come il frastuono d’una lotta e d’oggetti che vengono rotti. La voce acuta era fortissima, più anche di quella rude. Egli è sicuro che quella voce non fosse la voce d’un inglese, gli parve più la voce d’un tedesco e forse era voce di donna. Il teste però confessa di non sapere il tedesco.
«Quattro dei sumentovati testimoni interrogati di nuovo han deposto che la porta della camera nella quale fu trovato il corpo della fanciulla era chiusa dalla parte interna e che quando esse arrivarono tutto vi era completamente tranquillo. Non si udivano più gemiti nè rumori di nessuna specie. Forzata la porta non videro nessuno.
«Le finestre tanto sul didietro che in facciata erano chiuse e solidamente fermate nella parte interna. Una porta di comunicazione era chiusa ma non a chiave. La porta che dalla camera anteriore mette al corridoio era chiusa a chiave dal di dentro. Una stanzetta in facciata al quarto piano, all’ingresso del corridoio, era aperta e la porta socchiusa: quella stanzetta era ingombra di letti dismessi, di valigie e di altri oggetti che furono tutti spostati e visitati.
«Si fecero anche entrare degli spazzacamini nelle varie canne. Sopra i quattro piani della casa vi sono le soffitte. Una botola che dà sul tetto era solidamente chiusa con chiodi; pareva anzi che da parecchi anni non fosse stata aperta. I vari testi non s’accordano sulla durata del tempo trascorso fra il risuonar delle grida e il momento in cui fu sfondata la porta della camera. Alcuni dicono che si trattasse appena di due o tre minuti, altri d’almeno cinque minuti. La porta non fu aperta che con gran difficoltà.
«Alfonso Garcio, intraprenditore di pompe funebri, spagnuolo d’origine, abita in via della Morgue. Anch’egli è entrato nella casa ma non ne ha salito le scale. È delicatissimo di nervi e teme le conseguenze d’una violenta agitazione nervosa. Ha inteso però le voci che di sputavano la grossa — di cui non ha potuto distinguere le parole — era d’un francese: quella acuta era senza dubbio d’un inglese. Il teste non conosce l’inglese ma giudica dall’intonazione.
«Il confettiere Alberto Montani fu tra i primi a salir le scale. Egli depone di aver inteso le voci e che quella rauca di cui comprese qualche parola era la voce d’un francese. Quegli che parlava sembrava far dei rimproveri. Ma il teste non potè comprender ciò che dicesse la voce acuta che risuonava rapida e a scatti. Egli ha creduto che fosse la voce d’un russo, ma confessa di non aver mai parlato con un russo. Egli è nato in Italia. Nel resto conferma le testimonianze precedenti.
«Alcuni testi nuovamente interrogati assicurano che i caminetti in tutte le camere del quarto piano sono troppo stretti per dar passaggio ad un uomo.
«Perciò quando hanno parlato di spazzacamini essi hanno voluto intendere quelle speciali spazzole cilindriche di cui gli spazzacamini si servono per il loro mestiere; e quelle spazzole sono state fatte passare dall’alto al basso in tutte le canne della casa. Nella parte retroposta non vi ha alcun passaggio che abbia potuto favorir la fuga d’un assassino mentre i testimoni salivano le scale. Il corpo della signorina L’Espanaye era fermato tanto solidamente nel camino che, per ritirarlo, bisognò che quattro o cinque testimoni riunissero tutte le loro forze.
«Il dottor Paolo Dumas depone d’esser stato chiamato all’alba per esaminare i cadaveri. Essi giacevano ambedue sulle tavole del letto, nella camera dov’era stata trovata la signorina L’Espanaye. Il corpo di questa era assai contuso ed escoriato il che è sufficientemente spiegato dalla posizione come fu trovata nella canna del camino. La gola era scorticata in modo singolare. Proprio sopra al mento si vedevano parecchie scalfitture profonde con macchie livide prodotte evidentemente dalla pressione delle dita. La faccia era spaventosamente pallida e i globi degli occhi uscivano dalla testa. La lingua era tagliata a metà: sulla bocca dello stomaco appariva una larga contusione prodotta certo dalla pressione d’un ginocchio. Il dottor Dumas è d’opinione che la fanciulla sia stata strangolata da una o più persone sconosciute.
«Il corpo della madre era mutilato orribilmente. Le ossa della gamba e del braccio sinistro erano fracassate; e spezzate tanto la tibia sinistra, quanto le coste dello stesso lato. Tutto il corpo era spaventosamente contuso e scolorato. Era impossibile dire da che provenissero quei colpi: quei risultati avrebbero potuto esser prodotti da una pesante clava di legno o da una larga tenaglia di ferro, insomma da un’arma grossa e contundente maneggiata da un uomo eccessivamente robusto. Nessuna donna con un’arma qualsiasi avrebbe potuto menar colpi di tal genere. Quando il teste vide il cadavere, il capo della defunta era interamente staccato dal corpo e, come il resto, spezzato in una maniera speciale. La gola evidentemente era stata tagliata con un istrumento affilatissimo, molto probabilmente con un rasoio.
«Alessandro Etienne, chirurgo, è stato chiamato insieme al dottor Dumas per visitare i cadaveri e conferma la testimonianza e l’opinione di quest’ultimo.
«Nonostante che siano state interrogate parecchie altre persone, non si è potuto ottenere nessun altro indizio di qualche valore. A Parigi non è stato mai commesso un assassinio così intralciato e così misterioso, se pure si tratta d’un assassinio.
«La polizia è assolutamente fuor di pista, perchè non è abituata ad affari di questa specie. Ed è veramente impossibile di ritrovare il bandolo della matassa».
L’edizione della sera constatava che nel quartiere San Rocco regnava una continua agitazione; si diceva che si era nuovamente visitata la casa; che i testimoni erano stati ancora una volta interrogati; ma tutto senza risultato.
Una nota però avvertiva che Adolfo Lebon, il commesso del banco Mignaud, nonostante che nulla apparisse di sufficiente a renderlo responsabile del delitto, era stato arrestato e tradotto in carcere.
Pareva che Dupin s’interessasse in modo singolare all’andamento di questa faccenda, a giudicare almeno dai suoi modi, poichè del resto non faceva alcun commento. Fu solo quando apprese dal giornale come Lebon fosse stato imprigionato che si rivolse a chiedermi la mia opinione su quel doppio assassinio.
Io non potei far altro che confessargli che consideravo la cosa alla maniera di tutti gli altri, vale a dire come un insolubile mistero. Non vedevo infatti nessuna traccia adatta a far trovare il colpevole.
— Noi non dobbiamo giudicare dei mezzi possibili — disse Dupin — da questa istruttoria primitiva. La polizia parigina, tanto nominata per la sua penetrazione, è solamente astuta e niente più, non ha altro metodo che quello del momento: spiega una quantità di misure, ma spesso accade che queste sono così intempestive e tanto male appropriate allo scopo che mi fanno pensare a Jourdain quando chiedeva «la sua veste da camera per sentir meglio la musica». I risultati ottenuti alcune volte sono sorprendenti, ma quasi sempre sono solo dovuti alla diligenza ed all’attività. Dove queste facoltà non bastano i piani non riescono. Vidocq, per esempio, era un uomo paziente, buono ad indovinare, ma la sua mente, non essendo educata abbastanza, per lo stesso ardore delle sue investigazioni, si perdeva lungo la via. Guardando l’oggetto troppo da vicino smorzava la forza della sua vista. Vedeva forse uno o due punti in una maniera veramente singolare, ma per la sua stessa maniera di procedere non vedeva l’affare nel suo insieme. Ciò può anche chiamarsi la maniera d’essere troppo profondi: la verità non sta sempre dentro ai pozzi e per ciò che riguarda le nozioni che c’interessano più da vicino, io credo anzi ch’essa sia sempre alla superficie. Noi la cerchiamo nella profondità della valle e non la scopriamo che sulla sommità della montagna.
«Nella contemplazione dei corpi celesti si scorgono mirabili esempi di questa specie d’errori. Guardate in modo rapido obliquamente una stella, voltando verso di lei la parte laterale della retina — più sensibile della parte centrale alla luce debole — vedrete distintamente la stella, scorgendone la forza del suo chiarore, il quale diminuisce di mano in mano che voi vi voltate a guardarla direttamente. In questo caso l’occhio è colpito da un maggior numero di raggi; ma nel primo v’ha una ricevibilità più completa ed una suscettibilità molto più viva. Una profondità infinita indebolisce il pensiero e lo rende perplesso; e con un’attenzione troppo sostenuta, troppo concentrata e troppo diretta, si potrebbe far scomparire dal firmamento lo stesso astro di Venere.
«Per ciò che riguarda questo assassinio, bisogna che anche noi facciamo un esame, prima di formarci un’opinione. Un’inchiesta ci divertirà — io veramente trovai bizzarra una tale espressione applicata al fatto che ci occupava, ma non dissi una sola parola; — inoltre Lebon mi ha reso un servizio per il quale non voglio mostrarmi ingrato. Andremo sul posto, ed esamineremo tutto coi nostri occhi. Conosco il prefetto di polizia, e facilmente otterremo la necessaria autorizzazione».
Avuta l’autorizzazione ci recammo direttamente in via della Morgue, la quale non è altro che uno dei miserabili passaggi che congiungono la via Richelieu con la via san Rocco. Era nel pomeriggio e non arrivammo che molto tardi, poichè il quartiere in questione era situato molto lontano dal punto abitato da noi. Ben presto trovammo la casa, poichè vi era una grande folla di gente che con una sciocca curiosità ne stava guardando gli sportelli chiusi. Era una casa come son tutte le case di Parigi, con un grande portone e in uno dei lati una nicchia vetrata con uno sportellino mobile, dove abitualmente è la stanza del portinaio. Prima di entrare percorremmo tutta la via; piegammo in una traversa e riuscimmo così nella parte posteriore della casa. Intanto Dupin andava osservando i dintorni con un’attenzione tanto minuziosa che io non riuscivo a spiegarmi.
Tornando sui nostri passi verso la facciata della casa, suonammo, mostrammo il nostro permesso e allora gli agenti ci fecero entrare. Salimmo fino alla camera dove era stato trovato il corpo della signorina L’Espanaye e dove ancora giacevano i due cadaveri. Come in simili casi si usa, il disordine della camera era stato rispettato: nulla vi era di differente di quanto era stato rilevato dalla Gazzetta dei Tribunali. Dupin andava minuziosamente osservando tutto, senza eccettuare i corpi delle vittime. Passammo poi nelle altre camere e scendemmo nel cortile sempre accompagnati da un gendarme. L’esame fu lungo ed era già notte quando abbandonammo la casa.
Nel ritorno, il mio compagno si fermò per qualche minuto negli uffici di un giornale quotidiano.
Ho già detto che il mio amico aveva una quantità di bizzarrie e che io ve lo coltivavo. Si mise dunque in capo di non parlar più di quell’assassinio fino al mezzodì del giorno seguente. E fu appunto a quell’ora che bruscamente mi domandò se sul teatro del delitto avessi osservato nulla di particolare.
Nella maniera di pronunciar la parola particolare egli prese un accento tale che, senza sapere il perchè, ne provai come un brivido.
— No, — risposi — niente di particolare, nient’altro almeno all’infuori di ciò che tutti e due abbiamo letto sul giornale.
— La Gazzetta — egli riprese — temo che non abbia compreso l’insolito orrore di questa faccenda. Ma lasciamo da una parte le sciocche opinioni di quel foglio. Mi pare che questo mistero sia considerato come insolubile per la ragione stessa che avrebbe dovuto invece farlo ritenere di facile soluzione: voglio cioè parlare del carattere di eccessività sotto il quale apparisce. La gente di polizia è stata confusa dall’apparente assenza di un motivo che giustificasse non già l’assassinio in se stesso, ma l’atrocità dell’assassinio.
«Essi sono stati imbarazzati anche dall’impossibilità apparente di poter mettere d’accordo le voci che disputavano col fatto di non aver trovato dentro casa — non ostante che non vi fosse via d’uscita, mentre gli accorsi salivano per le scale — altra persona oltre alla povera fanciulla assassinata. Lo strano disordine della camera, quel corpo ficcato colla testa in basso nella canna del camino, la spaventosa mutilazione del corpo della vecchia signora e altre considerazioni che tralascio hanno bastato a paralizzar l’azione degli agenti di polizia e a mettere completamente fuor di strada la loro tanto vantata perspicacia. Essi hanno commesso il gravissimo e comunissimo sbaglio di confondere lo straordinario coll’astruso. Ma se la cosa è possibile, è appunto seguendo queste deviazioni dal naturale corso ordinario delle cose che la ragione potrà trovar la sua strada e procederà verso la verità. Nelle indagini di questo genere non bisogna cercar tanto come siano andate le cose, quanto invece bisogna studiare in che esse differiscano da tuttociò che abitualmente suole avvenire. In una parola la facilità con cui arriverò — o sono già arrivato — a spiegare il mistero è in ragione diretta della sua insolubilità come apparisce agli occhi della polizia.
Io guardai l’amico con un muto stupore: ed egli, gettando uno sguardo sulla porta della nostra camera, continuò:
— Ora io aspetto un uomo che, quantunque forse non sia l’autore di questa carneficina, deve pure trovarsi almeno in parte coinvolto nella perpetrazione di questo delitto. Forse egli è innocente della parte atroce del misfatto. Io spero anzi di non ingannarmi su questa ipotesi imperocchè è appunto su tale ipotesi che io fondo la speranza di sciogliere l’intero enigma. Io aspetto qui un tal uomo, in questa camera, da un momento all’altro. Può ben darsi ch’egli non venga. Se viene, bisognerà che non ci sfugga. Ecco qui un paio di pistole e noi sappiamo bene tutti e due a che cosa servono, quando l’occasione lo vuole.
Senza troppo saper quel che faceva, potendo appena credere alle mie orecchie, presi le pistole mentre Dupin continuava a discorrere come parlasse a sè stesso. Io ho già detto come eran distratti i suoi modi quando egli si trovava in certi momenti. Il suo discorso era rivolto a me, ma la sua voce aveva quell’intonazione che abitualmente si prende discorrendo con alcuno che si trovi ad una grande distanza. I suoi occhi con una espressione vaga non guardavano che la parete.
— Le voci che disputavano — egli disse — e che hanno inteso tutti coloro che salivano le scale, è più che evidente che non fossero emesse da quelle disgraziate donne. Ciò ci salva dallo studiare il problema che sorgerebbe dal fatto che la vecchia avesse assassinato sua figlia e poi si fosse suicidata. Non parlo dunque di questa probabilità che per solo amore di metodo; imperocchè la signora L’Espanaye non avrebbe mai avuto la forza d’introdurre il corpo di sua figlia nella canna del camino, al modo come il cadavere è stato scoperto e poi le stesse ferite trovate su di lei escludono interamente l’idea del suicidio. L’assassinio dunque è stato commesso da altri e le voci che tutti hanno inteso disputare erano appunto le voci di questi altri.
«Permettetemi ora di richiamar la vostra attenzione non già sulle deposizioni relative a queste voci, ma sulle particolarità delle deposizioni stesse. Vi avete voi osservato nulla? Io ho osservato che mentre tutti i testimoni s’accordavano a ritener la voce grossa come quella di un francese, sulla voce acuta, o come uno solo dei testi ha detto, sulla voce aspra, vi è stato un gran disaccordo».
E Dupin seguitò:
— Ciò costituisce l’evidenza, ma non già la particolarità dell’evidenza. Nonostante che vi fosse qualche cosa da osservare, voi non avete rilevato nulla di speciale. Ricordiamo bene che tutti i testi ad unanimità son d’accordo sulla voce grossa. Ma vi è una particolarità in ciò che essi hanno detto relativamente alla voce acuta. E questa particolarità non consiste già nel loro disaccordo ma nel fatto, che quando un italiano, un inglese, uno spagnuolo, un olandese, cercando di descriverla ne parlano come della voce d’uno straniero, ognuno sicuro che non sia la voce d’un suo compatriota. Ognuno la paragona non già alla voce d’un individuo, la cui lingua gli sia famigliare, ma proprio anzi al contrario. Il francese crede si tratti di uno spagnuolo e anzi avrebbe potuto distinguer qualche parola se avesse conosciuto lo spagnuolo. L’olandese afferma che era la voce d’un francese, ma è assodato che il teste, non conoscendo il francese, è stato interrogato per mezzo d’un interprete. L’inglese suppone che la voce sia d’un tedesco, ma egli non comprende una parola di tedesco. Lo spagnuolo giudicando solo dal tono è positivamente sicuro che si tratti di un inglese, mentre egli da sua parte non conosce una parola d’inglese. L’italiano, che in vita sua non ha mai parlato con un russo, crede appunto che la voce sia stata quella d’un russo. Un altro francese invece, contrariamente a quello che ha detto il primo, è sicuro che la voce fosse d’un italiano; ma non conoscendo questa lingua egli, come lo spagnuolo, trae la sua certezza dal tono della voce. Ma tal voce doveva dunque essere assolutamente insolita e molto strana per dare origine a testimonianze di quel genere, poichè gli abitanti di cinque grandi parti d’Europa non vi avevano potuto riconoscere nemmeno un accento che fosse loro famigliare! Potreste dirmi che quella voce era d’un asiatico o d’un africano. Prima di tutto, gli africani e gli asiatici non abbondano certo a Parigi, ma senza negare la possibilità del caso, io richiamerò semplicemente la vostra attenzione sopra tre punti.
«Un teste dice che la voce era più aspra che acuta. Due altri dicono che era breve ed a scatti. Questi testimoni non solo non hanno compreso una parola, ma non hanno inteso alcun suono che rassomigliasse a una parola.»
E Dupin continuò:
— Non so che impressione ho potuto fare sul vostro cervello; ma io non esito d’affermare che da questa stessa parte delle deposizioni — la parte cioè relativa alle due voci, la grossa e l’acuta — si possono trarre legittime deduzioni sufficientissime per loro stesse a far sorgere un sospetto atto ad indicare la via per tutte le altre investigazioni necessarie a svelare il mistero.
«Ho detto: deduzioni legittime, ma quest’espressione non rende completamente la mia idea: io voglio intendere che queste deduzioni sono le sole convenienti e che questo sospetto ne deriva inevitabilmente come il solo possibile risultato. Tuttavia non vi dirò subito la natura di questo sospetto. Desidero solo di mostrarvi ch’esso era più che sufficiente ad imprimere un carattere deciso ed una tendenza positiva all’inchiesta che io volevo far nella camera.
«E ritorniamoci col pensiero. Quale avrà da essere la nostra prima ricerca? I mezzi che gli assassini hanno impiegato per fuggire. Cominciamo dall’affermare che nè voi, nè io — non è vero? — crediamo agli avvenimenti soprannaturali.
«Le signore L’Espanaye non sono state certo assassinate dagli spiriti. Gli autori dell’assassinio erano esseri materiali e materialmente han dovuto fuggire.
«Ma come? Fortunatamente su questo punto non v’ha che un solo ragionamento ed è questo che ci condurrà ad una conclusione positiva. Prendiamo ad esaminare uno ad uno i possibili mezzi d’evasione. È chiaro che, quando gli accorsi hanno cominciato a salire le scale, gli assassini stavano nella camera dove si è trovata la signorina L’Espanaye o per lo meno nella camera vicina. L’uscita dunque non deve cercarsi che in queste due camere. La polizia ha tolto i pavimenti, ha sfondato i solari, ha aperto le pareti, ma nessun uscita segreta è potuta apparire alla sua perspicacia, io però non mi son fidato degli occhi della polizia ed ho cercato co’ miei: realmente non ho trovato nessun’uscita segreta. Le due porte che dalle camere conducono nel corridoio erano chiuse solidamente e le chiavi erano dalla parte interna. Guardiamo le canne dei camini. Queste abbastanza larghe abitualmente fino ad un’altezza di otto o dieci piedi sopra al focolaio, superiormente non sono larghe tanto da lasciar passare un gatto.
«Stabilita dunque assolutamente l’impossibilità della fuga, almeno per le vie ora nominate, non ci resta da pensar che alle finestre. Nessuno però avrebbe potuto fuggire da quelle che si aprono sulla facciata senza essere veduto dalla gente accorsa. È stato necessario dunque che gli assassini fuggissero da quelle delle camere retroposte.
«Arrivati ora come siamo per mezzo d’irrefragabili deduzioni a questa conclusione, non abbiamo il diritto di disprezzarla in ragione della sua apparente impossibilità. Non ci resta perciò che dimostrare che questa apparente impossibilità, di fatto, non esiste.
«Nella camera in parola si trovano due finestre. Una è rimasta intieramente visibile: la parte inferiore dell’altra è nascosta dalla spalliera del letto che è pesantissimo e che vi si trova addossato. Si è constatato che la prima finestra era solidamente chiusa dalla parte interna e che ha resistito ai più violenti sforzi di coloro che han tentato d’aprirla. Si è veduto a sinistra del suo telaio un grosso buco e vi si è trovato un gran chiodo conficcato dentro fino quasi alla testa. Esaminando l’altra finestra vi si è trovato un altro chiodo simigliante e vigorosi sforzi messi in atto per aprirne il telaro sono rimasti infruttuosi. La polizia allora si è pienamente convinta che nessuno aveva potuto fuggir da quella parte. Si ritenne quindi superfluo di togliere i chiodi e d’aprire le finestre.
«Ma per la ragione appunto che prima vi ho detto il mio esame fu un poco più minuzioso. Io sapevo che ci trovavamo nel caso in cui bisognava dimostrare che l’impossibilità non era che apparente.
«Continuai a ragionare così a posteriori. Gli assassini eran fuggiti da una di quelle finestre. Ammesso ciò, essi non potevano certo aver richiuso i telari dalla parte interna come erano stati trovati; questa considerazione con la sua evidenza ha deviato le ricerche della polizia. Quei telari erano certamente ben chiusi; bisogna dunque ch’essi possano chiudersi da se stessi. Non v’ha modo di sfuggire a questa conclusione. Io sono andato dritto alla finestra libera; con qualche difficoltà ne ho ritirato il chiodo ed ho provato ad aprirne il telaro. Come mi aspettava, esso ha resistito ad ogni mio sforzo. Ora dunque ero sicuro che vi dovesse essere una molla nascosta; e questo fatto, che veniva a corroborar la mia idea, mi convinse almeno della giustezza delle mie premesse, per quanto sempre m’apparissero misteriose le circostanze relative ai chiodi. Un esame minuzioso ben presto mi fece scoprire la molla segreta. La toccai e, soddisfatto della mia scoperta, mi astenni d’aprire il telaio.
«Rimisi allora il chiodo al suo posto e l’esaminai con molta attenzione. Un uomo uscendo dalla finestra avrebbe potuto richiuderla e la molla avrebbe naturalmente scattato, ma il chiodo non sarebbe stato al suo posto. Questa netta e precisa conclusione allargava il campo delle mie investigazioni. Bisognava che gli assassini fossero fuggiti dall’altra finestra. E supponendo che anche questa molla fosse simile all’altra, come era probabilmente, bisognava certo che una differenza vi fosse nei chiodi o almeno nella maniera come questi erano fissati. Salii sulle tavole del letto e, per di sopra la spalliera, esaminai minuziosamente l’altra finestra: passai la mano dietro la spalliera... e trovai subito la molla che misi in movimento con grande facilità; come avevo indovinato, era identica alla prima. Allora esaminai il chiodo: anche questo era grosso come l’altro e nella stessa maniera confinato nel legno fino alla testa. Voi forse crederete che mi trovassi imbarazzato, ma se pensate ciò è segno che vi siete ingannato sulla natura delle mie induzioni. Io non avevo commesso un solo sbaglio; non avevo per un solo istante perduto la mia pista; non v’era alcuna spezzatura fra gli anelli della mia catena. Io avevo seguito il segreto fino al suo ultimo punto e questo era il chiodo. Come ho detto esso era somigliante, sotto tutti i punti di vista, a quello dell’altra finestra; ma questo fatto per quanto sembrasse concludente diventava assolutamente nullo di fronte alla considerazione dominante che a quel chiodo finiva il filo conduttore. Pensai che in quel chiodo vi dovesse essere qualche cosa di difettoso. Lo toccai e la sua testa con un quarto di pollice circa del suo perno mi rimase fra le dita. Il resto del perno era rimasto spezzato nel buco. Quella rottura era antichissima, imperocchè i margini erano incrostati di ruggine ed essa era stata causata da un colpo di martello che aveva fatto entrare in parte la testa del chiodo nel legno del telaio. Rimisi accuratamente il pezzo rotto al suo posto e il chiodo figurò nuovamente come fosse intatto. Spinsi la molla, alzai lievemente di qualche pollice il telaio e la testa del chiodo venne appresso ad esso senza uscir dal suo buco. Richiusi la finestra ed il chiodo prese nuovamente l’apparenza d’essere perfettamente sano.
«Fino a questo punto l’enigma era risoluto. L’assassino era fuggito dalla finestra che s’apriva dietro al letto. Che poi essa dopo la fuga si fosse richiusa da se o che fosse stata chiusa da una mano umana il fatto è che essa non restava ferma che per mezzo della molla e la polizia invece aveva attribuito ciò all’azione del chiodo; era stato appunto per questo se ogni ulteriore indagine si era giudicata superflua.
«Ora il problema era sul modo che gli assassini avevan tenuto per discendere. Ma su questo punto io già avevo preso le mie convinzioni quando girammo intorno al casamento. A circa cinque piedi e mezzo dalla finestra in parola passa una corda da parafulmine. Sarebbe stato certo impossibile a chiunque di raggiunger da quel punto la finestra ed a molto più forte ragione entrar nella camera. Ma io ho osservato che le persiane del quarto piano erano di quel genere speciale che i falegnami parigini chiamano ferrades, una specie di sportelli, pochissimo usati al giorno d’oggi, ma che facilmente si trovano nelle vecchie case di Lione e di Bordeaux. Esse son fatte come una porta ordinaria — a una sola partita, non già a doppio battente — e la cui parte inferiore è forata a griglia in modo da dare alle mani una presa eccellente.
«Nel caso nostro queste persiane sono larghe più di tre piedi e mezzo. Quando noi le abbiamo vedute dal di dietro della casa, tutte e due le partite erano aperte a metà, vale a dire facevano un angolo retto col muro. Probabilmente, come ho fatto io, anche la polizia ha esaminato la parte retroposta della casa, ma guardando quelle ferrades nel senso della loro larghezza come senza dubbio ho dovuto vederle — non ha punto badato a questo, o almeno non vi ha dato la necessaria importanza. Insomma gli agenti quando han veduto che da quella parte nessuno aveva pututo fuggire hanno esaminato le cose in una maniera molto sommaria.
«Tuttavia per me era evidente che, se la persiana della finestra aperta dietro la spalliera del letto fosse stata interamente addossata al muro, si sarebbe trovata a soli due piedi dalla corda del parafulmine. Era chiaro dunque che con lo sforzo d’un’energia e d’un coraggio insolito, mediante quella corda si sarebbe potuto entrar dentro quella finestra. Supponendo la persiana interamente aperta, a quella distanza di due piedi e mezzo, il ladro avrebbe potuto trovare nella parte forata a griglia una solida presa.
«Allora egli avrebbe potuto, abbandonando la corda, assicurando bene i piedi contro il muro e slanciandosi con forza, cader nella camera; e supponendo che la finestra in quel momento fosse aperta, tirare a sè con violenza lo sportello, in modo da farlo chiudere.
«Vi prego d’osservare che io parlo d’un’energia non certo ordinaria, necessaria per riuscire in una impresa tanto difficile quanto pericolosa.
«Il mio scopo è di provarvi prima di tutto che la cosa si è potuta fare; in secondo luogo ma principalmente di richiamar la vostra attenzione sopra la straordinarissima e quasi sopranaturale specie di agilità che è stata necessaria a compierla. Servendovi della lingua giudiziaria, voi direte senza dubbio che per dar la mia prova a fortiori dovrei far piuttosto la valutazione dell’energia che è stata necessaria in questo caso. Forse questo può farsi nella pratica dei tribunali ma per me non entra nell’uso della ragione. Il mio scopo finale è la verità quello attuale è di spingervi a ravvicinare una tale insolita energia al suono straordinario di quella voce uscita a scatti, acuta o aspra che sia, e sulla cui nazionalità nemmeno due testimoni han potuto accordarsi. E in cui nessuno è riuscito ad afferrar un’articolazione qualunque o un cenno di sillabazione».
A tali parole un vago concetto del pensiero di Dupin mi attraverso lo spirito. Mi pareva di esser sul punto di comprendere senza però comprendere; come coloro che son sul punto di ricordarsi senza però che arrivino a potersi ricordare.
Il mio amico continuò così nella sua argomentazione:
— Avete veduto come io abbia trasportato il problema che riguarda il modo d’uscita dell’assassino a quello della sua entrata. Poichè io mi son proposto di dimostrare che sì l’una che l’altra sono avvenute alla stessa maniera e per la stessa via. E torniamo nell’interno della camera per esaminare tutte le particolarità. Dicono che i tiretti del cassettone sono stati saccheggiati, nonostante che si siano trovati intatti parecchi oggetti d’abbigliamento. Questa conclusione è assurda. È una semplice congettura, anzi niente di più d’una congettura passabilmente sciocca. Come mai possiamo sapere se gli oggetti trovati in questi tiratori non rappresentassero tutto l’intero contenuto di essi? La signora L’Espanaye e sua figlia menavano una vita ritiratissima, non vedevano mai alcuno, uscivano di rado, e non avevano occasioni varie di cambiar vestiario. Gli oggetti che si sono ritrovati erano certo di quella buona qualità che quelle povere signore verosimilmente dovevano possedere. Perciò se un ladro ne avesse preso alcuno, perchè non avrebbe preso i migliori, o meglio, perchè non avrebbe preso tutto? In una parola, perchè per portar via un pacco di biancheria avrebbe abbandonato quei quattromila franchi in oro? L’oro infatti è stato abbandonato. Nei sacchetti sul pavimento si è trovata quasi intera la somma designata dal banchiere Mignaud. Io tengo ad allontanare dal vostro pensiero l’idea sbagliata d’un interesse, idea sorta nel cervello dell’agente di polizia per la deposizione di alcuno che ha parlato di danaro trovato sulla porta stessa della casa.
«Altre coincidenze che non sia questa di un assassinio commesso tre giorni dopo che un individuo ha ritirato del danaro, si presentano ad ogni ora della nostra vita senza attirare neanche momentaneamente la nostra attenzione.
«In generale le coincidenze sono come grosse pietre messe attraverso alla strada di quei poveri pensatori male abituati che non sanno la prima parola della teoria delle probabilità, teoria a cui pure l’umana scienza è debitrice delle sue più gloriose conquiste e delle sue più belle scoperte. Nel caso nostro se l’oro fosse scomparso, il fatto che esso era stato consegnato solo tre giorni prima avrebbe dato origine a qualche cosa molto più importante d’una semplice coincidenza. Questo fatto avrebbe corroborato l’idea dell’interesse. Ma nelle circostanze reali, in cui la faccenda si è svolta, supponendo che l’oro sia stato il movente del delitto, bisognerebbe anche supporre il delinquente assai imbecille e assai indeciso per poter insieme dimenticare il danaro ed il movente del suo delitto.
«Fissate dunque bene nella vostra mente i punti sui quali io ho richiamato la vostra attenzione: quella voce particolare, l’agilità senza pari, la palese assenza d’ogni interesse in un assassinio così atroce come quello davanti al quale noi ora ci troviamo. Ora esaminiamo il delitto per sè stesso. Abbiamo una donna strangolata dalla forza delle mani e introdotta nella canna d’un camino con la testa in giù. Un assassino volgare non usa mai di tali mezzi per uccidere: e ancor meno cerca di nascondere il cadavere della sua vittima. Nel fatto di spingere quel corpo dentro al camino voi dovete ammettere che c’è qualche cosa d’eccessivo e di bizzarro, qualche cosa d’assolutamente inconciliabile con tutto ciò che è comune alle azioni umane, anche supponendo che gli autori del delitto fossero i più pervertiti degli uomini. Pensate anche alla forza prodigiosa che deve essere occorsa, per spingere quel corpo in una simile apertura e spingerlo anche con tanta violenza da far sì che, per ritrarnelo, gli sforzi di parecchie persone riuniti insieme sono stati appena sufficienti.
«Ora portiamo la nostra attenzione sopra qualche altro indizio di questa forza straordinaria. Sul focolare si sono trovate alcune ciocche di capelli, ciocche molto fitte di capelli grigi, le quali sono state strappate con tutte le loro radici. E voi sapete quale forza occorra per strappare di testa solo venti o trenta capelli riuniti însieme. Avete veduto voi stesso, come ho visto io, le ciocche in parola. Alle loro radici grumose — orribile a dirsi! — erano attaccati brandelli di cuoio capelluto — prova irrefragabile della forza prodigiosa che ha dovuto spiegare chi ha staccato cinquecento o mille capelli con un sol colpo.
«Poi non soltanto il collo della vecchia era tagliato, ma tutta la testa era staccata dal corpo: e ciò è stato fatto con un semplice rasoio. Osservate, vi prego, questa ferocia veramente bestiale. Non parlo poi dei lividori trovati sul corpo della vittima: il dottor Dumas e il suo onorevole collega Etienne hanno affermato che essi erano stati cagionati da un’arma contundente: e in ciò questi signori sono stati assolutamente nel vero. L’istrumento contundente non è stato altro che il pavimento del cortile sul quale la vittima è piombata dalla finestra che s’apre dietro la spalliera del letto, una tale idea, per quanto semplice apparisca, è sfuggita alla polizia per la stessa ragione che le ha impedito di osservare la larghezza delle persiane: imperocchè, a cagion dei chiodi, la sua percezione non le ha nemmeno suggerito l’idea che quelle finestre avessero potuto essere aperte.
«Se ora — in via sussidiaria — avete riflettuto abbastanza al bizzarro disordine della camera, mi pare che abbiamo avanzato abbastanza per mettere insieme le idee di una agilità meravigliosa, d’una ferocia bestiale, d’una carneficina senza motivo, d’un grottesco nell’orribile addirittura fuori della natura umana e d’una voce, il cui accento è sconosciuto a una quantità di persone di nazionalità diversa, una voce priva al tutto d’una distinta ed intelliggibile sillabazione.
«Ed ora che cosa ricavate da ciò? Che impressione fa ciò sulla vostra immaginazione?»
Intesi un fremito corrermi per le ossa, quando Dupin mi rivolse questa domanda.
«È un pazzo — risposi — che avrà commesso il delitto... un pazzo furioso sfuggito da qualche vicina casa di salute.
— Non c’è male — rispose Dupin — la vostra idea è abbastanza apprezzabile. Ma la voce dei pazzi, anche nei momenti del parossismo più acuto, non può essere mai del genere di quella che hanno intesa coloro che salivano la scala. I pazzi appartengono a una nazione qualsiasi e il loro linguaggio, per quanto possa essere incoerente, è però sempre formato di parole. Inoltre, i capelli d’un pazzo non rassomigliano punto a quelli che ora io tengo in mano e che ho strappato dalle dita irrigidite e contratte della signora L’Espanaye. Ditemi ora voi che cosa ne pensate!...
— Dupin!... — esclamai completamente commosso — questi capelli sono davvero straordinari... e non sono davvero, capelli umani!
— Io non ho mai detto che fossero tali — rispose Dupin — ma prima di deciderci su questa faccenda, desidero che voi diate un’occhiata a questo disegnino che ho abbozzato su questo pezzo di carta. È un fac-simile che rappresenta quanto alcune deposizioni hanno definito lividori nerastri e profonde traccie d’unghia trovati sul collo della signorina L’Espanaye e che i dottori Dumas e Etienne hanno chiamato una serie di macchie livide evidentemente cagionate dalla pressione delle dita.
«Vedete — egli continuò spiegando la carta sopra il tavolino — come questo disegno sia l’idea d’un pugno solido e fermo. Le dita non hanno punto scivolato: ed ognuna di esse ha mantenuto il suo posto, forse fino al momento della morte della vittima, nella terribile presa dove s’era quasi, si può dire incastrata. Ora provate a mettere le vostre dita, nello stesso tempo, ciascuna al posto che qua si vede disegnato.»
Provai ma inutilmente.
E Dupin continuò:
— È possibile che quest’esperienza che noi facciamo possa non essere decisiva. La carta forma una superficie piana mentre la gola umana ha la forma cilindrica. Ecco un pezzo di legno della grossezza approssimativa d’un collo... mettetevi intorno il disegno da me fatto e ricominciate la prova...
Obbedii, ma le difficoltà erano aumentate invece di diminuire.
― Questo — dissi — non è il segno d’una mano d’uomo.
― E allora — continuò Dupin — leggete questo passo di Cuvier.
Era la storia minuziosa, anatomica e descrittiva del grande Ourang-outang, la feroce scimmia delle isole dell’India orientale. Tutti conoscono la statura gigantesca, la forza e la prodigiosa agilità, la ferocia selvaggia e le facoltà imitative possedute da questo mammifero. Ad un tratto compresi tutto l’orrore di quell’assassinio.
— La descrizione delle dita — io dissi appena finito di leggere — s’accorda perfettamente col vostro disegno. Vedo bene che nessun altro animale — all’infuori d’un Ourang-outang di questa specie — avrebbe potuto imprimer dei segni come quelli che voi avete tracciato. Questa ciocca di peli fulvi è pure uguale a quelli che ha l’animale descritto da Cuvier. Ma non so rendermi conto dei vari dettagli di questo terribile delitto. E poi... non è vero che si sono udite due voci?... e che una di esse apparteneva senza dubbio ad un francese?...
— È vero: e vi ricordate di un’espressione che tutti quasi hanno inteso pronunciare da questa seconda voce: l’espressione Dio mio! Queste parole, nella circostanza di cui trattiamo, da uno dei testimoni — il confettiere Montani — sono state caratterizzate come esprimenti un rimprovero, una rimostranza. Ed è su queste due parole che io ho fondato la mia speranza di sciogliere tutto quanto il problema. Un francese ha conosciuto il delitto. È possibile, anzi è più che probabile, che egli sia innocente di qualsiasi compartecipazione a questa sanguinosa faccenda. L’Ourang-outang ha potuto fuggirgli. Ed è possibile che il padrone ne abbia seguito le traccie fino a quella camera ma che nelle terribili circostanze che sono venute appresso, egli non sia riuscito a impadronirsi dell’animale. Forse esso è ancora libero; ma io non seguirò ora queste congetture — non ho il diritto di chiamar con altro nome idee simiglianti — poichè le ombre di riflessione, che servono loro di base, sono appena sufficienti per farle rilevare dalla mia ragione e non pretenderei certo che dovessero essere maggiormente apprezzabili per un altro. Chiamiamole dunque pure congetture e come tali riteniamole per il nostro ragionamento. Se dunque, come io suppongo, il francese in parola è innocente di questa barbarie, egli verrà da noi in conseguenza di quest’annunzio che, ieri sera, quando tornavamo in casa, io volli lasciare negli uffici del giornale Il mondo, foglio consacrato agli interessi dei marinai e da loro molto ricercato.
Egli mi stese un foglio ed io lessi:
AVVISO
«La mattina del... corrente, si è trovato nel bosco di Boulogne (la data era quella del giorno del delitto) a un’ora molto mattutina, un enorme Ourang-outang della specie di Borneo. Il proprietario — che sappiamo essere un marinaio appartenente all’equipaggio d’una nave maltese — può ritrovar l’animale, dopo averne dati chiari connotati, rimborsando le spese sostenute a chi lo ha trovato ed è riuscito ad impadronirsene.
Indirizzarsi per schiarimenti via *** n. ** Sobborgo San Germano, piano 3.º».
Ed io chiesi a Dupin:
— Come avete fatto a sapere che il proprietario della bestia sia un marinaio appartenente all’equipaggio di una nave maltese?...
— Non lo so — egli rispose — ma ne sono sicuro. Ecco qua un piccolo pezzo di nastro che dal grasso e dalla forma penso, che, senza dubbio, abbia servito ad annodare una di quelle lunghe ciocche di cui i marinai son così fieri e pretensiosi. E il nodo di questo nastro è fatto come nessuno sa fare, ad eccezione dei marinai, nodo poi che è speciale ai maltesi. Io ho raccolto questo nastro a piedi della corda del parafulmine. È impossibile che esso abbia appartenuto ad una delle vittime. In ogni modo, anche che io mi sia ingannato deducendo da questo nastro che il francese di cui andiamo cercando le traccie, sia un marinaio d’una nave maltese, col mio annunzio non avrò certo recato danno ad alcuno. Se ho sbagliato, egli penserà che io sia stato fuorviato da qualche circostanza che non gl’importerà affatto d’indagare. Se ho colto nel segno, sarà per noi tanto di guadagnato. Il francese che ha saputo del delitto, nonostante la sua innocenza, esiterà certamente a rispondere al mio avviso, per venire a reclamare il suo Ourang-outang. Egli ragionerà così: — Io sono innocente, sono povero e il mio Ourang-outang è una bestia d’un gran valore; in un caso come il mio è una vera fortuna; perchè dovrei perderlo per una sciocca paura di pericolo? Eccolo che ritorna in mano mia. La bestia è stata trovata al bosco di Boulogne, molto lontano dal luogo del delitto. Si potrà mai sospettare che una tal bestia abbia eseguito il colpo? La polizia è fuorviata, poichè non ha saputo trovare il più lieve filo conduttore. Quand’anche si fosse sulle traccie dell’animale, sarebbe impossibile provare, che io abbia avuto conoscenza del delitto o di farmene colpa anche in caso che esso fosse a mia conoscenza. Infine, e prima di tutto anzi, io sono conosciuto. Chi ha scritto l’annunzio mi designa come il proprietario della bestia. Ma io non so fino a qual punto arrivi la sua certezza. Se io poi evito di reclamare la proprietà d’una bestia di così gran valore — che si sa appartenermi — io posso attirare su di essa un sospetto molto dannoso. E da mia parte sarebbe malfatto richiamar l’attenzione su di me o sul mio animale. Rişponderò decisamente all’avviso del giornale, riprenderò il mio Ourang-outang e lo chiuderò solidamente, fino a che sarà scomparso anche il più piccolo ricordo di questa brutta faccenda — .
In quel momento sentimmo un passo che saliva le scale.
— State pronto — mi disse Dupin — prendete le pistole; non ve ne servite e non le fate vedere se non dietro un mio segno.
Il portone era stato lasciato aperto è il visitatore era potuto entrar senza suonare: aveva anzi salito anche parecchi gradini, ma ora pareva che esitasse: lo sentimmo ridiscendere. Dupin allora si diresse verso la porta e l’uomo allora riprese a salire. Questa volta seguitò a venir su, deliberatamente e battè alla porta della nostra camera.
— Entrate — disse Dupin, con voce cordialmente allegra.
L’uomo che si presentò era senza dubbio un marinaio, grande, robusto e muscoloso, con una espressione d’audacia indiavolata che non era affatto spiacevole. La sua fisonomia molto abbronzata era nascosta per metà dai favoriti e dai mustacchi. Teneva un grosso bastone di quercia, ma non pareva che possedesse altre armi. Ci salutò bruscamente augurandoci la buona sera con un accento francese che, quantunque sentisse lievemente di svizzero, ricordava sufficientemente un origine parigina.
— Sedetevi, amico mio — disse Dupin — voi venite certo per il vostro Ourang-outang. Vi giuro che ve lo invidio; è d’una bellezza superba e penso che debba essere di gran prezzo. Che età ha?
Il marinaio respirò a lungo, coll’aria d’un’uomo che si trova sollevato da un peso intollerabile e rispose con voce sicura:
— Non saprei dirvi troppo, non credo però che possa avere più di quattro o cinque anni. Sta forse qui con voi?
— Oh! no: qui non avevamo un luogo adatto per poterlo rinchiudere, esso sta in una scuderia qui vicino in via del Borgo. Lo potreste avere domani mattina: purchè naturalmente siate in grado di provarne il vostro diritto di proprietà.
— Si signore, sicuramente.
— Mi dispiacerà molto di separarmene! — disse Dupin.
— Non intendo — aggiunse l’uomo — che voi abbiate avuto tanti disturbi per nulla. Pagherò volentieri una ricompensa, naturalmente una ricompensa ragionevole a colui che ha trovato l’animale.
— Benissimo — rispose il mio amico, — tuttociò è veramente giusto. Sentiamo dunque che cosa dareste... Ah! ve lo dirò io. Ecco quale sarà la mia ricompensa: voi mi racconterete tuttociò che sapete relativamente al doppio assassinio avvenuto nella via della Morgue.
Dupin pronunciò queste ultime parole con voce bassissima e molto tranquilla. Con una grande calma si diresse verso la porta, la chiuse e se ne mise in tasca la chiave. Trasse allora di tasca una delle pistole e senza mostrar nessuna commozione la posò sulla tavola.
La faccia del marinaio divenne rossa come quella d’un agonizzante per soffocazione. Si alzò in piedi ed afferrò il suo bastone; ma un secondo dopo, tremando violentemente e pallido come la morte, si lasciò ricader sulla sedia.
Non riusciva ad articolare una sola parola. Io lo compiangevo dal più profondo del cuore.
— Amico mio — disse Dupin con una voce piena di bontà — voi vi allarmate senza motivo, ve lo assicuro. Noi non vogliamo farvi alcun male e sul mio onore di galantuomo e di francese vi giuro che noi non macchiniamo nulla contro di voi. Io so perfettamente che voi siete innocente delle orribili cose avvenute in via della Morgue: ciò però non vuol dire che voi non vi siate in certo modo coinvolto. Il poco che ho detto deve provarvi che su questo affare ho avuto mezzi d’informazione che voi non avreste mai potuto supporre. La cosa per noi è chiara, voi non avete fatto nulla, che pure avreste potuto fare — nulla certamente che vi abbia reso colpevole. Impunemente avreste potuto rubare; ma voi non avete neanche rubato, voi non avete nulla a nascondere poichè non ne avete nessuna ragione. D’altra parte tutti i principî dell’onore vi fanno un obbligo di confessar tutto ciò che sapete. In questo momento si trova chiuso in prigione un innocente accusato del delitto di cui voi potete indicare l’autore.
Mentre Dupin parlava il marinaio aveva riacquistato in gran parte la sua presenza di spirito, ma tutto il suo primitivo ardire era scomparso.
Dopo una piccola pausa egli esclamò:
— Che Dio mi aiuti! vi dirò tutto quello che so, ma non spero che voi ne crederete anche la metà. Se sperassi ciò, sarei veramente uno sciocco! Io però sono innocente e quand’anche ne andasse della mia vita dirò tutto quello che mi sta qui sul cuore.
Ed ecco, in sostanza, quello ch’egli ci raccontò.
Egli aveva fatto ultimamente un viaggio nell’arcipelago indiano. Una truppa di marinai, di cui egli faceva parte, sbarcò a Bormeo per un’escursione nell’interno. L’Ourang-outang era stato preso da lui e da un suo compagno. Questi morì e l’animale così diventò di sua esclusiva proprietà. Dopo molti fastidi causati durante la traversata dall’indomabile ferocia del prigioniero, egli riuscì finalmente a chiuderlo sicuramente nella sua casa a Parigi, lontano dall’insopportabile curiosità dei vicini e là aveva stabilito di tenerlo fino a che lo avesse guarito da una ferita al piede che si era fatta a bordo: e finalmente lo avrebbe venduto.
Una notte, o piuttosto un mattino — la mattina del delitto — tornando in casa da un piccolo rialto di marinai, egli trovò la bestia nella sua camera da letto, fuggita dal vicino camerino, dove pure egli credeva di averla chiusa con tanta sicurezza. Come senza dubbio aveva visto fare al suo padrone, spiandolo forse dal buco della serratura, la scimmia si era seduta dinanzi ad uno specchio e, con un rasoio in mano, impiastricciato il volto di sapone, provava a radersi. Atterrito nel vedere un’arma così pericolosa nelle mani d’un animale tanto feroce, capacissimo di potersene servire, il marinaio per qualche momento non aveva saputo a qual partito appigliarsi. Di solito anche negli accessi di furia maggiore egli aveva domato l’animale a colpi di frusta ed anche questa volta provò di ricorrere ad un tal mezzo. Ma l’Ourang-outang, come vide la frusta balzò alla porta della camera, scivolò per le scale e approfittando d’una finestra disgraziatamente aperta piombò nella via. Il francese disperato prese ad inseguire la scimmia, ma questa sempre col rasoio in mano, si fermava ogni tanto, si voltava facendo delle smorfie all’uomo che l’inseguiva, poi quando questi era sul punto d’afferrarla riprendeva la corsa. Questa caccia durò molto a lungo. Potevano essere le tre del mattino e le strade erano profondamente tranquille. In un passaggio dietro la via della Morgue la luce uscente dalla finestra aperta al quarto piano della casa abitata dalla signora L’Espanaye attrasse l’attenzione della bestia. Essa si precipitò verso il muro, con un’agilità inconcepibile s’arrampicò per la corda del parafulmine, afferrò la persiana spinta completamente verso il muro e saltandovi sopra si lanciò direttamente sulla spalliera del letto.
Tutta questa ginnastica non aveva durato un minuto. Lo sportello della persiana era stato nuovamente spinto contro il muro dal salto col quale l’Ourang-outang si era gettato nella camera.
Intanto il marinaio era insieme contento ed inquieto. Aveva la speranza di riafferrar l’animale che era andato da sè a ficcarsi in una trappola, di cui gli si poteva benissimo chiuder l’uscita: ma da un altro lato era inquietissimo, pensando a quel che la bestia avrebbe potuto fare in quella casa. Quest’ultimo pensiero incitò l’uomo a seguitar le traccie dell’animale fuggiasco. Per un marinaio non è certo difficile arrampicarsi lungo la corda d’un parafulmine; ma arrivato alla finestra molto discosta sulla sua sinistra egli si trovò assai imbarazzato; la sola cosa che potè fare fu di piegarsi in maniera da gettare un colpo d’occhio nell'interno della camera. Ma ciò che vide gli cagionò un tal terrore che quasi fu sul punto di lasciar la corda. Era quello il momento in cui risuonarono le orribili grida che, traverso al silenzio della notte, svegliarono di soprassalto gli abitanti di via della Morgue.
La signora L’Espanaye e sua figlia, in abbigliamento da notte, stavano senza dubbio racchiudendo qualche carta nel cofanetto di ferro al quale è stato già accennato e che era stato trascinato in mezzo alla camera. Esso era aperto e tutto il suo contenuto si trovava sparso pel pavimento. Le vittime senza dubbio davano le spalle alla finestra e, a giudicar dal tempo trascorso fra l’entrata della bestia e le prime grida, è probabile che esse non la scorgessero subito. Il battere della persiana poteva benissimo essere stato attribuito all’azione del vento.
Quando il marinaio guardò nella camera, il terribile animale aveva afferrato la signora L’Espanaye per i capelli che erano disciolti e andava agitando il rasoio intorno alla sua faccia, imitando i movimenti d’un barbiere. La figlia, svenuta, era distesa per terra, immobile. Le grida e gli sforzi della vecchia, mentre le venivano strappati i capelli dal capo, ebbero per effetto di cambiare in furore le disposizioni probabilmente pacifiche dell’Ourang-outang. Con un colpo rapido del suo braccio vigoroso esso le staccò quasi la testa dal busto. Allora la vista del sangue mutò il suo furore in frenesia. La bestia digrignava i denti, i suoi occhi mandavano fiamme. Si gettò allora sul corpo della giovinetta, affondò le sue terribili granfie in quel collo bianco e ve le tenne fino a che essa fu spirata. In quel momento i suoi occhi spalancati e selvaggi si voltarono verso la spalliera del letto, sopra alla quale scorsero la faccia del padrone temuto, che era paralizzato dal terrore.
Allora la furia della bestia che, senza dubbio si ricordava della terribile frusta, si cambiò immediatamente in spavento. Sapendo bene d’aver meritato un castigo, parve che essa volesse nascondere le sanguinose traccie del suo operato; in un accesso d’agitazione nervosa saltò traverso alla camera rovesciando e spezzando i mobili ad ogni movimento, e portando via le materasse dal letto.
Finalmente s’impadronì del corpo della ragazza e lo spinse nella canna del camino, nella positura come dopo venne ritrovato: poi afferrò quello della vecchia e lo precipitò col capo all’ingiù fuor della finestra.
Appena la scimmia s’avvicinò alla finestra col suo fardello mutilato, il marinaio spaventato si ritrasse e senza badare a nulla si lasciò scivolare lungo la corda, fuggendo subito in casa sua, atterrito dalle conseguenze di quell’atroce misfatto e, nel terrore che lo aveva invaso, non pensando più affatto al destino del suo Ourang-outang. Le voci intese dalla gente per le scale erano state le sue esclamazioni d’orrore e di spavento mescolate agli urli diabolici della bestia.
E io non ho nulla da aggiungere a questo racconto. L’Ourang-outang fuggì per la corda del parafulmine, proprio poco prima che la porta della camera venisse sfondata. E passando traverso alla finestra esso l’aveva evidentemente richiusa.
Più tardi lo stesso proprietario potè tornare ad impadronirsi dell’animale, il quale per un buon prezzo fu venduto al giardino delle piante.
Lebon fu immediatamente messo in libertà, non appena tutte queste circostanze, condite di qualche commentario dell’amico Dupin, furono da noi raccontate al prefetto di polizia. Questo funzionario, per quanto fosse benevolmente disposto verso il mio amico, non potendo però nascondere il suo cattivo umore per la piega che aveva preso una tale faccenda, si lasciò sfuggire una o due sarcastiche osservazioni sulla mania che hanno alcuni d’andarsi a mischiare in ciò che non li riguarda.
Dupin che non aveva giudicato opportuno di ribattere quelle osservazioni, mi disse:
— Lasciatelo parlare... lasciatelo chiacchierare... Ciò alleggerirà la sua coscienza. Io son contento d’averlo battuto sul suo stesso terreno. Nondimeno non c’è affatto da stupirsi che egli non abbia saputo dipanare questa matassa così arruffata; anzi ciò è molto meno strano di quanto egli creda: imperocchè a dir la verità, il nostro prefetto è un poco troppo astuto per essere profondo. La sua scienza non ha base. Essa è tutta nella sua testa e non ha corpo affatto, come le figurazioni della dea Laverna o, se preferite questo altro paragone, tutta testa e spalle come un merluzzo. Ma, dopo tutto, egli è un brav’uomo. Io l’adoro in special modo per un meraviglioso genere di cant a cui egli deve la sua riputazione d’uomo di genio: voglio dire per la sua mania di negare ciò che è e di spiegare ciò che non è.