Il demone della perversità (1900)
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IL DEMONE DELLA PERVERSITÀ
Nell’esame delle facoltà e delle inclinazioni — dei moventi principali dell’anima umana — i frenologisti han dimenticato di far la sua parte a una tendenza che, quantunque visibilmente esistente come sentimento primitivo, radicale, irriducibile, pure è stato trascurato da tutti quanti i moralisti che hanno finora vissuto. Tutti lo abbiamo trascurato: abbiamo anzi permesso che la sua esistenza sfuggisse alla nostra vista, unicamente per difetto di credenza — di fede; — sia questa poi fede nella Rivelazione o fede nella Cabala. Non c’è mai venuta in capo l’idea di farne lo studio a cagione della sua stessa essenza: e non abbiamo mai inteso il bisogno di constatare l’esistenza di un tale impulso, di una tale tendenza. Non potevamo afferrare la nozione di questo primum mobile e, quand’anche essa fosse entrata di sua prepotenza nel nostro cervello, noi non avremmo potuto mai comprendere la parte da essa sostenuta sulla economia delle cose umane, temporali ed eterne.
È impossibile di negare che la frenologia e una buona parte delle scienze metafisiche sono state fabbricate a priori. L’uomo di metafisica e di logica più che l’uomo d’intelligenza e d’osservazione pretende di concepire i disegni di Dio e di dettargli i suoi piani. Avendo così approfondito con sua suprema soddisfazione le intenzioni di Geova, derivandole da quelle sue proprie, egli ha costruito i suoi innumerevoli e capricciosi sistemi. In materia di frenologia, per esempio, noi abbiamo prima di tutto stabilito — del resto abbastanza naturalmente — essere nei disegni divini che l’uomo mangi. Quindi abbiamo assegnato all’uomo un organo di alimentazione e quest’organo è il bisogno col quale Iddio, frustandolo, lo costringe, di buona o di cattiva voglia che egli sia, a cibarsi. In secondo luogo, avendo deciso essere volere di Dio che l’uomo continui la sua specie, abbiamo senz’altro scoperto un organo di amatività. E così anche quelli di combattività, di idealità, di causalità, di costruttività e, in una parola, tutti gli organi che rappresentano un’inclinazione, un sentimento morale o una facoltà di pura intelligenza. E in una tale sistemazione dei principî della ragione umana alcuni — i così detti Spurzheimisti — non hanno fatto, a torto o a ragione, in parte od in tutto, che seguir da principio le traccie di coloro che li hanno preceduti; deducendo e stabilendo ogni cosa a seconda del prestabilito destino dell’uomo e prendendo per base le intenzioni del suo creatore.
Sarebbe stato più savio e più sicuro di basar la nostra classificazione — poichè ci è assolutamente necessario di classificare — sugli atti che compie abitualmente l’uomo e su quelli anche che compie occasionalmente, piuttosto che sulla ipotesi che è la Divinità che glieli fa compiere. Se noi non possiamo comprendere Iddio nelle sue opere visibili, come mai potremo comprenderlo nei suoi inconcepibili pensieri che fanno sorgere tali opere alla vita? Se noi non possiamo concepirlo nelle sue creature obiettive, come pretendiamo di concepirlo nei suoi modi incondizionati e nelle sue fasi della creazione?
L’induzione a posteriori avrebbe condotto la frenologia ad ammettere come principio primitivo ed innato della azione umana un non so che di paradossale che noi chiamiamo perversità in mancanza d’un più caratteristico appellativo. Nel senso, infatti, che io vi ripongo si trova realmente un movente senza motivo ed un motivo senza movente. Sotto la sua influenza noi agiamo senza uno scopo comprensibile: o, qualora ciò sembri una contradizione in termini, non possiamo modificare la nostra proposizione dicendo che, sotto la sua influenza noi operiamo per una ragione per la quale non dovremmo. In teoria non può esistere una ragione più irragionevole: ma, in realtà, non ve n’ha alcuna più forte. Per alcuni spiriti e in certe date condizioni essa diventa assolutamente irresistibile.
La mia vita per me non è più certa della proposizione seguente: la certezza del peccato o dell’errore racchiuso in un atto qualsiasi è spesso l’unica forza invincibile che ci spinge e la sola anzi che ci spinge al compimento di esso. E questa tendenza schiacciante a far il male per amore del male non ammette nessun’analisi, nessun risolvimento in ulteriori elementi. È un moto radicale, primitivo, elementare.
Mi aspetto che si dica che se noi persistiamo a compiere certi arti perchè sentiamo che non dobbiamo compierli, la nostra condotta non è che una modificazione di quella che comunemente deriva dalla combattività frenologica. Ma basterà un semplice colpo d’occhio per far rilevare la falsità d’una tale idea. La combattività frenologica ha ragion d’esistere solo nella necessità della difesa personale. Essa è la nostra salvaguardia contro l’ingiustizia. Il suo principio riguarda il nostro benessere; e perciò mentre essa si sviluppa, noi sentiamo sollevarsi in noi il desiderio del benessere. Deriverebbe da ciò che il desiderio del benessere dovrebb’essere simultaneamente eccitato con qualsiasi principio che non sarebbe se non una modificazione della combattività; ma nel caso di questo non so che, da me definito col nome di perversità, non solo il desiderio del benessere non è punto destato, ma apparisce anzi come un sentimento particolarmente contrario.
Ogni uomo che faccia appello al proprio cuore troverà, alla fine, la miglior risposta al sofismo di cui si tratta. Chiunque consulterà lealmente e accuratamente interrogherà la propria anima, non oserà certo negare l’assoluta radicalità dell’inclinazione in parola. E non è meno caratterizzata che incomprensibile. Non esiste, per esempio, alcun uomo che, a un certo momento, non sia stato divorato da un ardente desiderio di torturare con un’infinità di circollocuzioni il suo interlocutore. Colui che parla sa che così dispiace; egli ha la migliore intenzione di piacere; e abitualmente egli è stringato, preciso, ben chiaro; il più luminoso e più laconico linguaggio si agita sulla punta della sua lingua; e non è che con grande difficoltà che egli si costringe a rifiutargli il passo; egli teme il cattivo umore di colui al quale si rivolge.
Tuttavia lo colpisce il pensiero che con un inciso o con una parentesi egli possa causar quella collera. Basta questo semplice pensiero. Il primo moto diventa una velleità, la velleità ingrandisce in desiderio, il desiderio si cambia in un bisogno irresistibile e il bisogno vien soddisfatto con profondo rammarico e con mortificazione del parlatore e con la tristezza di tutte le sue conseguenze.
Dinanzi a noi abbiamo uno scopo che dobbiamo rapidamente raggiungere. Sappiamo che, tardando, faremmo la nostra rovina. La più importante crisi della nostra vita, con la voce imperiosa d’una tromba, reclama energicamente un’azione immediata. Noi bruciamo, siamo consumati dall’impazienza di metterci all’opera; la pregustazione d’un glorioso risultato ci mette l’anima in fiamme. È necessario che quella faccenda sia cominciata oggi: eppure noi la rimandiamo a domani: e perchè? Non v’è altra spiegazione se non che noi sentiamo che ciò è perverso. — Serviamoci della parola senza comprenderne il principio.
Arriva il domani e con esso una più impaziente ansia di fare il nostro dovere; ma con questo aumento di ansia sorge in noi un desiderio ardente, sconosciuto, di differire ancora, – desiderio positivamente terribile perchè di natura impenetrabile. Più il tempo passa, più un tal desiderio aumenta di forze. Non v’è più che un’ora sola di utile per agire, e quell’ora è a nostra disposizione. Noi tremiamo per la violenza del conflitto che s’agita dentro di noi, per la battaglia fra il positivo e l’indefinito, fra la sostanza e l’ombra. Ma giunta la lotta a questo punto è l’ombra che vince: noi ci dibattiamo invano. L’orologio suona e quello è il suono funebre della nostra felicità. Nello stesso tempo per l’ombra che ci ha così a lungo atterriti, quel suono è la diana mattutina, è il canto del gallo vittorioso dei fantasmi. L’ombra fugge, sparisce e noi siamo liberi. Ritorna la vecchia energia. Ora noi ci metteremo all’opera: ma, ahimè! ora è troppo tardi.
Siamo sull’orlo d’un precipizio. Guardando nell’abisso proviamo il male della vertigine.
Il nostro primo movimento è d’allontanarci dal pericolo: inesplicabilmente invece restiamo. A poco a poco il nostro male, la nostra vertigine e il nostro orrore si confondono in un sentimento nebbioso e indefinibile. Gradatamente, insensibilmente, quella nebbia prende una forma come il vapore uscente dalla bottiglia donde s’alzava il genio delle mille e una notti. Ma dalla nostra nebbia, sull’orlo del precipizio, s’alza sempre più palpabile, una forma mille volte più terribile di qualunque genio, di qualunque favoloso demonio: eppure non è che un pensiero, ma un pensiero spaventoso che agghiaccia il midollo delle nostre ossa e vi cola dentro le feroci delizie del suo orrore.
E l’idea è semplicemente questa: — Quali sarebbero le nostre sensazioni durante il percorso d’una caduta fatta da una tale altezza? E noi per la semplice ragione che in ciò è rinchiusa la più spaventosa e la più odiosa di tutte le più odiose e spaventose immagini di morte e di sofferenza che si siano mai presentate alla nostra immaginazione, per questa semplice ragione noi allora, con più ardore, desideriamo quella caduta, quel fulminante annientamento.
E poichè il nostro giudizio ci allontana con violenza dall’orlo del precipizio, appunto a causa di ciò, noi con più impeto vi ci raccostiamo. Nella natura non esiste passione più diabolicamente impaziente di quella d’un uomo che, fremendo di terrore sul margine d’un precipizio sogna di gettarvisi. Permettersi, provare un solo istante di pensare è lo stesso che perdersi inevitabilmente, imperocchè la riflessione ci comanda d’allontanarci ed è appunto per ciò, ripeto, che noi non lo possiamo. Se là non si trova pronto un braccio amico per trarci indietro, o se non siamo capaci d’uno sforzo istantaneo per fuggire lontano dall’abisso, noi vi ci slanceremo, noi così saremo annientati. Esaminando questo od altri analoghi fatti, noi troveremo come essi risultino unicamente dallo spirito di perversità. Noi non operiamo solo perchè sentiamo che non dobbiamo farlo. Al di qua o al di là non vi ha un principio intelligibile: e noi potremmo veramente considerare questa perversità come una diretta istigazione dell’Archidemonio, se non fosse riconosciuto che alcune volte essa serve a compiere il bene.
Se io finora ho parlato a lungo, è stato per rispondere in qualche maniera alle vostre domande, per spiegarvi perchè io mi trovo qui, per dimostrarvi la causa da cui mi son venuti questi ferri che porto e questa cella carceraria dentro a cui son rinchiuso. Se non fossi stato così prolisso, o voi non m’avreste compreso affatto o, come la folla, mi avreste creduto pazzo. Ora però riconoscerete facilmente che io sono una delle innumerevoli vittime del demone della perversità. È impossibile che un’azione sia stata preparata con una premeditazione più perfetta. Per settimane e per mesi io meditai sui mezzi per compiere l’assassinio. Rigettai mille piani, imperocchè nel compimento di ciascuno io vidi una probabilità di rivelazione. Finalmente leggendo un giorno alcuni scritti francesi vi trovai la storia d’una malattia quasi mortale da cui fu presa la signora Pilau in conseguenza d’una candela accidentalmente avvelenata. Quell’idea colpì subito la mia immaginazione.
Sapevo che la mia vittima aveva l’abitudine di leggere a letto: sapevo pure che la sua camera era piccola e mal aereata. Ma è inutile che io vi affatichi con oziosi particolari e non vi racconterò le facili gherminelle, per mezzo delle quali riuscii a sostituire nel candeliere della sua camera da letto una candela di mia composizione a quella che precedentemente vi si trovava.
Il mattino seguente il mio uomo fu trovato morto dentro al suo letto e il pretore che andò a verificarne la morte scrisse: morto di colpo apoplettico.
Io ereditai la sua fortuna, e per parecchi anni tutto procedè per la meglio. Nel mio cervello non passò mai neppure una volta l’idea d’una rivelazione.
Del resto io avevo fatto scomparire i rimasugli della fatale candela: non avevo lasciato l’ombra d’un filo che potesse servire a farmi anche solamente sospettare autore del delitto. Non si può concepire il superbo sentimento di soddisfazione che gonfiava il mio cuore, quando riflettevo alla mia assoluta sicurezza.
Per un lunghissimo periodo di tempo mi abituai a godere di quel mio sentimento: trovavo più piacere in esso che in tutti i benefizi puramente materiali, risultanti dal mio delitto. Ma col passar del tempo arrivò un giorno in cui quel sentimento di piacere, per una gradazione quasi impercettibile, si trasformò in un pensiero che mi assediava e mi stancava. E mi stancava, perchè mi assediava. Non riuscivo a liberarmene neppure per un istante. È una cosa comunissima sentir le orecchie affaticate o piuttosto la memoria assediata da una specie di tintinnio, dal ritornello d’una canzone popolare o da qualche insignificante pezzetto di musica: e il tormento non sarà minore anche se la canzone è bella di per se stessa e meravigliosa l’arietta musicale. Così avvenne che, pensando senza mai fermarmi alla conquistata sicurezza, finii col sorprendermi a ripetere continuamente a bassa voce: — io sono salvo!
Un giorno, gironzando per le vie, m’accorsi che andavo mormorando quasi ad alta voce quelle insolite sillabe. In un accesso di petulanza io le andavo esprimendo in questa nuova forma: — io sono salvo, io sono salvo, sì, purchè non sia tanto sciocco da confessare io stesso il mio caso.
Non avevo finito di pronunziare queste parole che intesi un freddo glaciale invadermi fino al cuore. Io avevo acquistato una certa esperienza di tali accessi di perversità (di cui, non senza difficoltà, ho cercato di spiegare la singolare natura) e mi ricordavo bene come in alcun caso mai io fossi riuscito a resistere ai suoi vittoriosi attacchi. Ed ora una tale casual suggestione, prodotta in me stesso — che io, cioè, avrei potuto essere tanto stupido da confessare il delitto di cui mi ero reso colpevole — mi seguiva come l’ombra stessa di colui che io avevo assassinato e mi chiamava verso la morte.
Dapprima io feci uno sforzo per scuotere quest’incubo dall’anima mia. Presi a camminare rapidamente, poi più rapidamente ancora, poi sempre più presto, alla fine mi misi a correre. Provai un desiderio snervante di mettermi a gridare con tutte le mie forze. Ogni ondata successiva del mio pensiero mi colpiva con un nuovo terrore, imperocchè io comprendeva bene, ohimè! comprendeva troppo bene che, nel caso mio, pensare era lo stesso che perdermi. Correvo come un pazzo traverso alle vie tutte piene di gente. Alla fine il popolino fu scosso e cominciò a corrermi dietro. Io allora intesi la consumazione del mio delitto. Se avessi potuto strapparmi la lingua lo avrei fatto; — ma una voce rude risuonava nelle mie orecchie e una mano più rude ancora mi aggavignava alle spalle.
Mi voltai ed aprii la bocca per riprender fiato. Per un momento provai tutte quante le angoscie della soffocazione; diventai cieco, sordo, ubbriaco; e allora pensai che un qualche invisibile demone mi avesse colpito con la sua larga mano sul dorso. In quel momento il segreto che io per tanto tempo ero riuscito a conservare mi sfuggì dal cuore.
Dicono che io parlassi molto chiaramente, ma con una energia violenta ed un’ardente precipitazione come se avessi temuto d’essere interrotto prima d’aver terminato di pronunziare quelle frasi brevi ma piene di grave importanza che mi dovevano consegnare prima al carnefice poi all’inferno.
Raccontato tutto quanto era necessario di dire per convincere pienamente la giustizia, io caddi atterrito, privo di sensi.
Ed ora che cosa dovrei aggiungere di più? Oggi sono qui incatenato! domani sarò libero! ma dove?