Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante/I Vita di Dante/XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo VII

I Vita di Dante - XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo VII

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[p. 21 modifica] queste cose guardando, dica la nostra republica da questo piè non andare sciancata?

Oh vana fidanza de’ mortali, da quanti esempli altissimi se’ tu continuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammino, Rutilio, Coriolano, e l’uno e l’altro Scipione, e gli altri antichi valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della memoria caduti, questo ricente caso ti faccia con piú temperate redine correr ne’ tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la popolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglio che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi al cielo, nella cui perpetua legge, nellicui eterni splendori, nella cui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere la stabilitá di Colui che lui e le altre cose con ragione muove; accioché, si come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo ingannati.

XI

LA VITA DEL POETA ESULE

SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale egli non solamente era cittadino, ma n’erano li suoi maggiori stati reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l’altra famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro, percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de’ prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andava vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con fatica difesa, de’ frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo procacciare. Oh quanti onesti sdegni [p. 22 modifica] gli convenne posporre, piú duri a lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer Alberto della Scala n’era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della Faggiuola ne’ monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi se n’andò a Bologna, dove poco stato n’andò a Padova, e quindi da capo si ritornò a Verona. Ma poi ch’egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di di in di piú divenire vana la sua speranza; non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come potè, se n’andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell’altre scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo, conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, il quale allora sedea, fu eletto in re de’ romani, e appresso coronato imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá con potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza e dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui la sentisse contraria. Perché ripassate Palpi, con molti nemici di fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s’ingegnarono di tirare lo ’mperadore da l’assedio di Brescia, accioché a Fiorenza il ponesse, si come a principale membro de’suoi nemici;’ mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate non erano; per che,