Il buon cuore - Anno XII, n. 28 - 12 luglio 1913/Religione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 28 - 12 luglio 1913 Educazione ed Istruzione

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NEL CENTENARIO VERDIANO


La religiosità del Maestro



L’assiduo bussetano, che volle accennare alla ferma fede cattolica del Verdi, che qualche episodio della vita del maestro, e qualche espressione delle sue lettere potrebbero forse mettere in dubbio, ha risollevato una questione, sulla quale non è certo male che il pubblico italiano — appunto prendendo occasione da questa ricorrenza centenaria — sia più chiaramente illuminato.

Troppo spesso si è voluto dipingere il Verdi come un mangiapreti, un anticlericale forsennato, sfruttando ad arte qualche espressione meno felice sfuggita all’«orso di Busseto» in qualche momento di irritazione, al quale non erano estranee le passioni politiche del periodo storico in cui egli visse. Ma il substrato religioso dell’anima del maestro, oltrechè dalla vasta produzione sua ispirata a concetti religiosi — e in pezzi staccati, e nell’Ave Maria, e nelle Laudi, e per tacer d’altro in quella mirabile angelica preghiera della Forza del destino — sentita profondamente per un fervore vivido di fede, che non sarebbe stato possibile simulare, specie ad un musicista rudemente sincero come fu il Verdi, è testimoniato da una breve serie di episodi, i quali possono controbilanciare, e con gran vantaggio, quanto si volesse affastellare per inscenare un Verdi anticattolico ed antireligioso.

Si tratta di fatti riferiti da persone che avvicinarono il maestro di avvenimenti che tutti ricordano, che possono aver facilmente ragione di parole, specie quando si pensi che il rude e forte uomo non era tale da troppo diffondersi a rivelare con frase sottile le delicate sfumature dell’animo suo.

Ecco anzitutto una lettera diretta da Arrigo Boito, che, come tutti sanno, godette di invidiata fraterna intimità con Giuseppe Verdi, a Camillo Bellaigue, il notissimo critico musicale della Revue des Deux Moncles. La lettera, datata dalla vigilia di Natale, così si esprime: «Ecco il giorno dell’anno che gli era più caro. La vigilia di Natale gli rievocava le sante magie dell’infanzia, gli incantesimi della fede che è veramente celeste quando si eleva sino a credere al prodigio. Egli aveva perduto come noi tutti tale credulità per tempo, ma forse più di noi ne conservò un profondo rispetto per tutta la vita. Egli ha dato l’esempio della fede cristiana con la solenne bellezza delle sue opere religiose, con l’osservanza dei riti (ti ricordi della sua bella testa inchinata nella cappella di Sant’Agata?) con il suo illustre omaggio a Manzoni, e con le disposizioni per i funerali trovate nel testamento: un prete, un cero, una croce».

«Sapeva che la fede è sostegno dei cuori e offriva sè stesso in esempio ai lavoratori dei campi, agli infelici, agli afflitti che lo circondavano. Ma si offriva senza ostentazione umilmente, severamente, per essere utile alle loro coscienze. E ora bisogna chiudere questa inchiesta. Andar oltre mi condurrebbe lontano attraverso i meandri di una ricerca psicologica in cui la sua grande personalità non avrebbe nulla da perdere, ma in cui io temerei di smarrirmi. Nel senso ideale, morale, sociale era un grande cristiano ma bisogna guardarsi bene dal presentarlo come un cattolico nel senso politico teologico della parola. Nulla sarebbe più contrario alla verità».


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Arrigo Boito ricordava senza dubbio una certa visita da lui compiuta col Verdi allo spedale di [p. 218 modifica]lanova d’Arda, da lui fondato e dotato. Il maestro era lieto di aver concentrato il servizio religioso dell’ospedale nelle mani di uno zelante sacerdote di San Pietro in Cerro. Parve al maestro che le labbra del Boito, eternamente sorridenti, consentissero con una punta di scetticismo al suo entusiasmo. E, gravemente: Caro Boito, — disse — non v’è da ridere. In un ospedale è altrettanto necessario il medico per il corpo, che il prete per lo spirito... E, volgendosi al dottore che seguiva la visita: Non è vero? Certo, certo... E il maestro rincalzando: — A proposito, dottore, anch’ella va sempre a messa alla festa? Più oltre, entrando nella cappelletta, Boito lo precede, e non sí accorge che all’altare brilla la lampada vigilante il «Santissimo». Boito, distratto, come spesso accade ai musicisti, tiene il cappello in capo. E Verdi, subito lo raggiunge: «Boito, non vedi che che c’è il a Santissimo a! Giù il cappello!». E paternamente gli toglie la paglietta e gliela mette tra le mani. Per le suore, che egli chiamò alla gestione dell’ospedale, ebbe un vero entusiasmo: ad un amico di Piacenza scriveva: «Costoro non sono donne: sono creature del cielo. Sono eroine al sacrificio. Dove appaiono le ali del candido cornetto ivi il dolore si calma e le angosce si attenuano...». Accenniamo soltanto alla cappella eretta pér suo volere anche nella Casa di riposo pei musicisti, da lui fondata, ricordando che là egli volle anche dormire l’ultimo sonno. Anche questa capella fu dal maestro allestita perchè ai suoi ospiti non mancasse il conforto della religiosità negli anni meno lieti della vita. Del resto, specialmente dopo la morte della moglie Giuseppina Strepponi il sentimento religioso di Verdi andava vieppiù rnanifestandosi anche nelle forme esteriori: e lo può attestare una lettera riferita dal Giarelli, a lui diretta dall’arciprete. Baratelli di San Nazaro Monticelli, confinante colla residenza verdiana di Sant’Agata. In essa si dice: a Ti posso assicurare che il sublime Verdi, va, di per sè, vieppiù riaccostandosi a Dio. E non poteva non essere. Tale è la sorte dei geni. E Verdi ne è oggi uno dei più eccelsi. Ed è nostro: è italiano! è piacentino! E va in chiesa! Gloria a lui!». Che il maestro sia morto cattolicamente, assistito dall’indimenticabile don Adalberto Catena, tutti ricordano, ma un episodio meno noto è quello, che fu del resto riferito dai giornali del tempo, per cui il Verdi dedicò l’ultima sua attività ad un soggetto religioso. Già i pezzi sacri pareva avessero messo il termine alla luminosa carriera del grande, quando all’indomani del regicidio di Monza il Verdi ebbe un Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.

momento l’idea di musicare la preghiera di Margherita Regina. E il i6 agosto del i goo egli scrive da Sant’Agata ad una’ gentildonna milanese sua amicissima: «Cara signora, atterrito dall’infame tragedia di questi giorni, non ho avuto testa per rispondere subito alla sua lettera. Su quanto ella propone, fu anche mio desiderio di fare: ma io sono mezzo ammalato e mi è impossibile qualunque occupazione. La preghiera della Regina, nella sua alta semplicità pare scritta da uno dei primi Padri della Chiesa. Inspirata da un ’profondo sentimento religiosa, ha trovato parole così vere e d’un colore così primitivo, che è impossibile uguagliare colla musica, tanto ricercata e gonfia. Bisognerebbe riportarsi a tre secoli indietro, a Palestrina. — G. Verdi». Or bene, la sera avanti che l’attacco apoplettico, lo colpisse, il Verdi, seduto al pianoforte, colla preghiera infissa nella fessura del coperchio della tastiera, e con espressione ispirata, suonò per alcuni minuti, cercando le note per la preghiera della dolente Regina. E là rimase quella preghiera, testimonio di un ultimo atto, che la grande anima aveva compiuto, tentando ancora di associare la sua arte sublime agli ideali altissimi della religione e della patria. (c. a.)

Vangelo della 9a domenica dopo Pentecoste

Testo del Vangelo. In quel tempo,men tre intorno a Gesù si affollavano le turbe per udire la parola di Dio, egli se ne stava presso il lago di Genezaret. E vide due barche ferme a riva del lago; e ne erano usciti i peseàtori, e lavavano le reti. Ed entrato in una barca, che era quella di Simone, lo richiese di allontanarsi alquanto da terra. E stando a sedere, insegnava dalla barca alle turbe. E finito che ebbe di parlare, disse a Simone: Avanzati in alto, e gettate le vostre reti per la pesca. E Simone gli rispose, e disse: Maestro, essendoci noi affaticati per tutta la notte, non abbiamo preso nulla; nondimeno sulla tua parola getterò le reti. E fatto che ebbe, questo, raccolsero grande quantità di pesci; e si rompeva la loro rete. E fecero segno ai compagni, che erano in altra barca, che andassero ad aiutarli. Ed andarono, ed empirono ambedue le barchette, di modo che quasi si,affondavano. Veduto ciò, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: Partiti da me, Signore, perchè io son uomo péccatore. Imperocchè, ed egli, e quanti si trovavan con lui eran restati stupefatti della pesca che avevan fatto di pesci. E lo stesso era di Giacomo e di Giovanni figliuolo di Zebedeo, compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: non temere; da ora innanzi prenderai degli uomini. E tirate a rive le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguirono. S. LUCA, cap. 14. [p. 219 modifica]Pensieri.

La semplice lettura del brano evangelico ci riempie di stupore e meraviglia nell’osservare la folla che stringe dappresso Gesù, la pazienza di lui nell’essere importunato durante il suo discorso da questa turba curiosa e indisciplinata, la sua preferenza per Simone, la sua preghiera perchè scosti la barca alquanto da terra, il comando a Pietro, stanco di buttare la rete dopo una notte di fatiche, date inutilmente, la fiducia del pescatore alle parole e dolci modi di Gesù, la pesca meravigliosa, la meraviglia dei compagni, la vocazione loro al sacerdozio. Ma a voler restringere la folla dei pensieri, osserviamo la delicatezza con cui prepara quei pescatori alla grandezza della nuova missione, come ed a quali condizioni si operi con frutto, e la prontezza per cui — dietro di Cristo — non si rimpiange un passato od un mondo d’ieri.

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Osserviamo la delicatezza con cui Gesù prepara i pescatori all’Apostolato. Li fa assistere, primamente — approffittando della loro curiosità — al suo trionfo, chè la folla, che gli si stringe appresso dice a quei rozzi pescatori, ch’egli è uomo di scienza, d’autorità. Simbne, quando parlerà a Gesù la prima volta, tradirà la sua impressione chiamandolo col nome di Maestro. Ad insinuare e legarsi Pietro — il futuro capo e pietra della Chiesa — sceglie la sua barca e lo prega (carità e gentilezza immensurabile!) lo allontani alcun poco dalla riva: gli dà il suo insegnamento e del piccolo favore con divina munificenza gli impone di buttare — con frutto enorme — le reti e, quando innanzi alle molteplici prove di bontà e potere, Pietro lo adora non maestro ma a Signore», Cristo gli manifesta i suoi grandiosi disegni, l’altezza di vocazione, etc. Ed allora? Pietro, che, unitamente a’ suoi s’affaccenda a ritirare -- per prima cosa — la fortuna insperata dei pesci, Pietro, che lascia le reti — tutta la fortuna, il mezzo per continuare la vita a sé, a’ suoi, etc. — lo segue fedele. Come agisce Gesù! Grazie, o’ Signore, che nella tua generosità non solo il beneficio intendi, ma lo accompagni di modi e maniere, che avvince e lega di nodi soavi ma forti più della morte istessa.

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In risposta a Gesù come opera l’uomo? Che l’uomo — peccatore o meno — debba lavorare e fastidirsi è scritto, è verità. e Mangerai col sudor della fronte». Ma come è triste e dolorosa la sorte di quelli che dopo d’aver molto lavorato s’accorgono alla fine d’aver lavorato invano! Pietro confessa di aver lavorato fino a sentirsi morto, ma confessa il nessun frutto della fatica. Tale il grido e la sorte nell’ordine sovrannaturale di molti, che alla fine di lor vita confesseranno d’aver faticato l’intera esistenza per... nulla. SenzaCristo, ci si affatica invano:

per una ragione più grande, più, alta senza la sua presenza ed assistenza l’opera della nostra salvezza opera prima e sola — non approderà a nulla. La superbia umana, l’orgoglio dell’indipendenza, l’individualismo, la personalità, tutto ciò che è dell’uomo, si ribella a questa affermazione: eppure questo è canone, è verità fondamentale della nostra fede rivelataci dal Salvatore istesso, quando ci disse «Senza me non potete fare cosa alcuna». Ma dove sono questi sgraziati lavoratori? questi il cui lavoro non e stimato non ha valore? La teologia ci dice essere coloro che sono in peccato mortale, che sono senza la grazia. Senza di questa grazia — quasi presenza di Dio, presenza d’operazione — siamo tralci divelti dal tronco, non cioè adunque, suscettibili d’opere vive, rímunerabili. Siamo schiavi curvati innanzi al padrone: non siamo i figli, che per essere legati al padre, per l’affinità del sangue, per la sola personalità coi genitori fa sì che l’atto del figlio abbia un valore ben diverso, un premio diverso da quello del cane, o dello schiavo. Così con Dio. Personalmente fuori di Dio, a Dio legati perchè — col mistero della grazia — in noi vive, le azioni nostre hanno valore ed efficacia per la vita stessa.

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Ed è questo valore, che ci obbliga a lasciare la casa, le reti, i parenti, ciò che ieri era migliore ed indispensabile per il domani con Cristo. Ogni minimo atto — alla mano e portata di tutti — ha un miglior valore e stima che non abbia l’oro e la potenza dei re. Per questo Pietro lascia le reti, coi compagni segue Gesù. Non rimpiange il passato. E di noi? Gegisù ha detto assai male di chi posto mano all’aratro si rivolge... indietro. B. R.