Il Trecentonovelle/CXCVIII
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Uno cieco da Orvieto con gli occhi mentali, essendoli furato cento fiorini, fa tanto col suo senno che chi gli ha tolti gli rimette donde gli ha levati.
Molto fu piú avveduto un cieco da Orvieto, con gli occhi d’Argo, a riavere fiorini cento che gli erano stati tolti sanza avere andare ad alcuno rettore, o chiamare avvocati arbitri, o allegar legge o noteria. Fu costui uno che già avea veduto, e avea nome Cola, ed era stato barbiere: avendo circa anni trenta, perdé la luce, e non possendo vivere, ché povera persona era, piú col guadagno né di quella arte, né d’alcuna altra, convenne che si desse a domandare la limosina; e avea preso per uso alla chiesa maggiore d’Orvieto fare ogni mattina almeno infino a terza la sua dimora, e quivi gli era fatto per l’amor di Dio, da’ piú della terra, carità, tanto che in non molto tempo gli avanzò cento fiorini, e quelli segretamente tenea addosso in uno suo borsello.
Avvenne per caso che moltiplicando costui in avanzare, molto piú che non facea con le forbicine o col rasoio, gli venne pensiero una mattina, credendo essere rimaso nella chiesa dirieto a tutti gli altri, d’andare dopo la porta e mettere la borsa de’ cento fiorini sotto uno mattone dell’ammattonato; ché già avea veduto come quello spazzo stava. E cosí come avea pensato, fece, non credendo che alcuno fosse nella chiesa rimaso che ’l vedesse. Era per avventura rimaso nella chiesa uno Juccio pezzicheruolo che adorava dinanzi a santo Giovanni Boccadoro, il quale adorando, vide ciò che Cola razolava, ma non sapea lo ’ntrinseco; onde elli aspettò tanto che Cola si fu partito, e subito andò nel luogo drieto a quella porta, e guardando, vide un mattone fuori di forma mosso dagli altri, e con uno coltello quasi come una lieva levatolo suso, vide il borsello; e subito se lo recò in mano, e racconciò il mattone come prima, e con li detti danari se n’andò a casa sua, per animo di non manifestarli mai.
Avvenne per caso che innanzi che passassono tre dí il cieco ebbe voglia di sapere se il suo era dove l’avea sotterrato; e colse tempo, e andò al mattone sotto il quale avea nascoso il suo tesoro, e levandolo, e cercando della borsa, e non trovandola, gli parve stare assai male; ma pur ripose il mattone in suo stato, e malinconoso se n’andò a casa. E là pensando come in un punto avea perduto quello che a poco a poco in gran tempo avea acquistato, gli venne in pensiero acuto, come a’ piú de’ ciechi interviene, che egli la mattina vegnente chiamò un suo figliuolo di nove anni, e disse:
- Vieni, e menami alla chiesa.
E ’l fanciullo ubbidí al padre; ma innanzi ch’elli uscissi di casa, l’ebbe nella sua camera, e disse:
- Vie’ qua, figliuol mio: tu verrai meco alla chiesa, non ti partire da me; sederai dov’io nell’entrata della porta, e quivi guarderai molto bene tutti uomeni e donne che passeranno, e terrai a mente se niuno vi passa che mi guardi piú che gli altri, o che rida, o che faccia alcuno atto verso me, e tieni a mente chi egli è: sapra’ lo tu fare?
Dice il fanciullo:
- Sí.
Informato il fanciullo, il cieco ed ello se n’andorono alla chiesa, e puosonsi alla posta loro. Il fanciullo, stando attento a’ comandamenti del padre, stette tutta quella mattina alla mira di ciascheduno, e in brieve e’ s’accorse che questo Juccio, passando, avea affisato e sorriso inverso il cieco padre. Ed essendo venuta l’ora di tornare a casa a desinare, prima che salisse il cieco col figliuolo la scala, il cieco fece l’esamine, e disse:
- Figliuolo mio, hai tu veduto niente di quello che io ti dissi?
Disse il fanciullo:
- Padre mio, io non ho veduto se non uno che vi guardò fiso e rise.
E ’l padre disse:
- Chi fu?
E quelli disse:
- Io non so come s’ha nome, ma io so bene ch’egli è pizzicheruolo, e sta qui presso da’ Frati minori.
Dice il padre:
- Saprestimi tu menare alla sua bottega e dirmi stu ’l vedi?
Il fanciullo dice di si. Il cieco levò via ogni dimoranza, e dice al fanciullo:
- Menami là, e stu lo vedi, dimmelo: e quando favello con lui scostati e aspettami.
Il fanciullo guidò il padre tanto che lo trovò alla stazzone che vendea formaggio, e disselo al padre, e accostollo a lui. Come il cieco l’udí favellare con quelli che compravono, conobbe lui essere Juccio, col quale, quando avea la luce, ebbe già conoscenza; e cosí seguendo, disse che gli volea un po’ parlare da sé e lui in luogo secreto. Juccio, quasi sospettando, il menò dentro in una cella terrena, e dice:
- Cola, che buone novelle?
Dice Cola:
- Frate mio, io vegno a te, e con gran fidanza e con grande amore: come tu sai, egli è buon tempo che io perdei il vedere, ed essendo in povero stato con gran famiglia, m’è stato forza di vivere di lemosina; e per grazia di Dio e per bontà e di te e degli altri Orvietani, io mi trovo avere fiorini duecento, de’ quali fiorini cento ho in un luogo a mia petizione, e gli altri ho dati in serbanza a piú mia parenti che in otto dí gli averò. E pertanto, se tu vedessi modo di pigliare questi duecento fiorini, e farmi per amore di messer Domeneddio quella parte di guadagno che ti paia convenente per sostenere e me e’ miei figliuoli, io ne serei molto contento, però che in questa terra non è alcuno in cui piú mi fidassi, e non voglio che di ciò si faccia alcuna scrittura, e che niente se ne dica e che niente se ne sappia. Sí che io ti priego caramente, che che partito tu pigli, che di ciò che io t’ho detto mai per te non se ne dica alcuna cosa; però che tu sai che come si sapesse che io avesse questi danari, tutte le limosine che mi sono date mancherebbono.
Juccio, udendo costui e immaginando di potere tirare l’aiuolo anco a’ fiorini cento, disse a Cola assai parole, e di tenerli credenza, e che l’altra mattina tornasse a lui e risponderebbegli. Il cieco si partí, e Juccio, preso tempo, il piú tosto che poté andò con la borsa, che ancora non avea tocca, alla chiesa, e sotto quello mattone donde l’avea tolta, la ripose: però che ben s’avea pensato ch’e’ fiorini cento che Cola dicea avere a sua posta erano i fiorini cento che avea sotto il mattone riposti, ed elli, perché la faccenda degli altri cento non mancasse, andò e riposevegli.
Cola dall’altra parte immaginò che nel dire di Juccio «domattina ti risponderò» fosse da credere che per avere gli altri cento potrebbe intervenire che, innanzi che facesse la risposta, ve gli riporterebbe: andò quel dí medesimo alla chiesa, e pensato di non essere veduto, levò il mattone, e cercato sotto trovò la detta borsa; la qual subito si cacciò sotto, e rimise il mattone sanza curarsene troppo, e tornossi a casa, avendo la buona notte; e la mattina vegnente andò a udire Juccio. Il quale come lo vide, gli si fece incontro dicendo:
- Dove va il mio Cola?
Cola disse:
- Io vegno a te.
Entrati in luogo segreto, disse Juccio:
- La gran confidenza che mi porti, mi fa sforzare a fare ciò che domandi; fa’ d’avere li duecento fiorini: per di qui otto dí io farò una investita di carne salata e di cacio cavallo, ch’io credo guadagnare sí che io ti farò buona parte.
Dice Cola:
- Sia con Dio; io voglio andare oggi per fiorini cento, e forse anco per gli altri, e recherottegli; fammi poi quel bene che tu puoi.
Disse Juccio:
- Va’ con Dio, e torna tosto, poiché ho deliberato fare questa investita, però che messer Comes raguna per la Chiesa gran gente d’arme, e credesi che faranno capo grosso qui; e’ soldati son molto vaghi di queste due cose. Sí che, va’, procaccia, ché io credo farne molto bene e per te e per me.
Cola n’andò, ma non con quell’animo che Juccio credea, però che ’l cieco accecava ora l’alluminato. E venuto l’altro dí, Cola con un viso tutto malinconoso n’andò a Juccio, il quale, veggendolo, tutto ridente gli si fece incontro, e disse:
- Lo buon giorno t’incappi, Cola.
Disse Cola:
- Ben lo vorrei avere comunale, non che buono.
Dice Juccio:
- E che vuol dir questo?
Dice Cola:
- Male per me, ché dov’io avea riposti cento fiorini, non gli ci truovo, che mi sono stati furati; e quelli miei parenti dov’io avea in serbanza gli altri cento in piú partite, chi mi dice non gli ha e chi peggio; sí che io non ho altro che strignere le pugna, tanto dolore ho.
Dice Juccio:
- Questa è dell’altre mie venture, ché, dove io credea guadagnare, perderò fiorini cento o piú; ed ècci peggio, che io ho quasi fatta l’investita; ché, se colui che m’ha venduta la mercanzia vorrà pur che ’l mercato vada innanzi, io non so di che mi pagare.
Dice Cola:
- E’ me ne pesa quanto puote per te, ma per me me ne duole molto piú forte, che rimango in forma che mal potrò vivere, e converrammi ricominciare a fare capital nuovo; ma, se Dio mi fa grazia che mai io abbia piú nulla, io non gli ficcherò per le buche, né ad alcuna persona, se fosse mio padre, gli fiderò o darò in serbanza.
Juccio, udendo costui, pensò se si potesse rattaccare in su’ cento che gli parea avere perduti, e dice:
- Questi fiorini cento che hanno i parenti tuoi, se tu gli potessi avere e darmegli, io m’ingegnerei d’accattare gli altri cento, acciò che la investita andasse innanzi: e questo facendo, potrebbe molto ben essere che innanzi che fosse molto, tu te ne troverresti duecento in borsa.
Dice il cieco:
- Juccio mio, se io volesse appalesare i fiorini cento de’ parenti miei, io me ne richiamerei e serebbemi fatto ragione, ma io non gli voglio far palesi, perché io averei perduto le limosine, come si sapesse. E pertanto io gli fo perduti, se già Iddio non gli spirasse, sí che da me non isperare alcuna cosa, poiché la fortuna ha cosí disposto: come che io rimanga, io per me, veggendo la tua buona disposizione, la quale era di farmi ricco, reputo d’averlo ricevuto e d’avere in borsa fiorini duecento, come se tu l’avessi fatto, però che da te non è mancato. Una cosa farò, che io farò fare l’arte a un mio amico, se nulla mi potesse dire di chi fosse stato; e se ventura ce ne venisse, io tornerò da te: fatti con Dio, ché io non ci voglio dormire.
Dice Juccio:
- Or ecco, va’ e ingegnati con ogni modo, se puoi rinvenire e riavere il tuo; e se ti venisse ben fatto, tu sai dov’io sto, se niente ti bisogna; datti pace il piú che tu puoi e vatti con Dio.
E cosí finí l’investita del cacio cavallo e della carne insalata, la qual non si fece; e ’l cieco raddoppiò il suo, e tra sé stesso se ne sollazzò un buon tempo, dicendo: «Per santa Lucia! che Juccio è stato piú cieco di me». E ben dicea il vero, ch’elli avea preso l’alluminato alla lenza, aescando cento fiorini per riavere gli altri.
E non è perciò da maravigliare, però che i ciechi sono di molto piú sottile intendimento che gli altri; ché la luce il piú delle volte, mirando or una cosa e or un’altra, occupa l’intelletto dentro; e di questo si potrebbono fare molte prove, e massimamente una piccola ne conterò. E’ seranno due che favelleranno insieme: quando l’uno è a mezzo il ragionamento, passerà una donna o un’altra cosa, quelli, guardando, resta il dire suo e non lo segue; e volendolo seguire, dice al compagno:
- Di che diceva io?
E questo è solo che quel vedere occupò lo ’ntelletto in altro; di che la lingua, la quale era mossa dallo ’ntelletto, non poté seguire il corso suo. E però fu che Democrito filosofo si cavò gli occhi per avere piú sottili intendimenti. Juccio dall’altra parte si dolea, parendoli avere perduto fiorini cento; e dicea fra sé: «Non mi sta egli molto bene? io avea trovato cento fiorini, e volevane anche cento, il maestro mio mi dicea sempre: "Egli è meglio pincione in mano che tordo in frasca’; e io non l’ho tenuto a mente; però che io ho perduto il pincione e non ho preso il tordo, e uno cieco m’ha infrascato; ché veramente egli ha aúto cento occhi, come li cento fiorini, a farmi questo; e’ mi sta molto bene, che non mi bastava d’avere li cento, che l’avarizia mi mosse a volerne anche cento. Or togli, Juccio, che avevi comprata la carne insalata, ché ben fu vero che io comprai fiorini cento la carne del cieco, che è bene stata per me la piú insalata che io comprasse mai». E non se ne poté dar pace buon tempo; dicendo a molti che li diceano: «Che hai tu?» rispondea che avea perduto in carne insalata fiorini cento. E ben gli stette, però che chi tutto vuole, tutto perde; e lo ’ngannatore molto spesso rimane appiè dello ingannato.