Novella CCXVI

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Maestro Alberto della Magna, giugnendo a uno oste sul Po, gli fa un pesce di legno con lo quale pigliava quanti pesci volea, poi lo perde l’oste, e va cercando il maestro Alberto acciò che gliene faccia un altro, e non lo può avere.

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E’ mi conviene entrare in alcune altre novelle, e prima ne nominerò una d’uno valentissimo e sant’uomo, il quale ebbe nome maestro Alberto della Magna, il quale, andando per le parti di Lombardia, s’abbatteo una sera a una villa sul Po, che si chiama la Villa di Santo Alberto. Entrato in casa un povero albergatore per cenare e per posarsi quella sera, gli vide molte reti con che elli pescava, e da altra parte vide molte fanciulle femine; onde domandò l’oste di suo stato, e come era abiente, e se quelle erano sue figliuole. E quelli rispose:
- Padre mio, io sono poverissimo, e ho sette fanciulle femine; e se non fosse il pescare, io morrei di fame.
Allora maestro Alberto domandò come ne pigliava. Ed elli rispose:
- Gnaffe! non ne piglio quanto mi bisognerebbe, e non ci sono in questa arte molto avventurato.
Allora maestro Alberto, innanzi che la mattina si partisse dall’albergo, ebbe fabbricato un pesce di legno, e chiamò a sé l’oste e disse:
- Togli questo pesce, e legalo alla rete quando tu peschi, e piglierai con esso sempre grandissima quantità di pesci; e fiano forse tanti che ti faranno grande aiuto a maritare queste tue figliuole.
Il povero oste, udendo ciò, molto volentieri accettò il dono, rendendo grandissime grazie al valentre uomo; e cosí si partí la mattina dell’albergo, andando al suo viaggio verso la Magna. Rimaso l’oste con questo pesce di legno, volontoroso di vedere la prova, in quello dí andò con esso a pescare: tanta moltitudine di pesci traevano a quello, ed entravano nelle reti, che appena gli potea trarre dell’acqua né recare a casa. E continuando questa sua ventura, molto bene facea i fatti suoi, e di povero uomo si facea ricco per forma che in poco tempo averebbe maritate tutte le sue figliuole.
Avvenne per caso che la fortuna, inimica di tanto bene, fece sí che uno dí, tirando costui la rete con gran numero di pesci, la cordellina del pesce di legno s’era rotta, e ’l pesce se n’era ito giú per lo Po, in forma che mai non lo poteo ritrovare; onde, se mai fu alcuno dolente di caso che gl’intervenisse, costui fu desso, piagnendo la sua sventura quanto piú potea; e con questo provava di pescare sanza il pesce di legno, ma niente era, ché de’ mille l’uno non pigliava. Onde tapinandosi: «Che farò, che dirò?», si dispose al tutto di mettersi in cammino, e di non restare mai, che fosse nella Magna alla casa di maestro Alberto, e a lui dimandare di grazia che li rifacesse il pesce perduto. E cosí non ristette mai che elli giunse dov’era maestro Alberto; e quivi con grandissima reverenzia e pianto, inginocchiandosi, gli contò la grazia che da lui avea ricevuta, e come infinita quantità di pesci pigliava, e poi come, la corda del pesce essendosi rotta, il pesce se n’era ito giú per lo Po, e perduto l’avea: e pertanto pregava la sua santità che, per bene e per misericordia di lui e delle sue figliuole, gli dovesse rifare un altro pesce, acciò che ritornasse in quella grazia che egli gli avea donata di prima.
Guardando maestro Alberto costui, forte gli ne increbbe, dicendo:
- Figliuol mio, ben vorrei poterti fare quello che mi addomandi; ma io non posso; però che io ti fo assapere che quando ti feci quello pesce che io ti diedi, il Cielo e tutti i pianeti erano in quell’ora disposti a fare avere quella virtú a quel pesce; e se io o tu volessimo dire: questo punto o questo caso può ritornare, che un altro se ne possa fare con simile virtú, e io ti dico di fermo e di chiaro che questo non può avvenire di qui a trentasei migliaia d’anni: sí che or pensa, come si può rifare quello che io feci.
Udendo l’albergatore questo tempo tanto lungo, cominciò a piagnere dirottamente, piagnendo maggiormente la sua sventura, dicendo:
- Se io l’avessi saputo, io l’avrei legato con un filo di ferro, e tenutolo sí che mai perduto non lo avrei.
Disse allora maestro Alberto:
- Figliuolo, datti pace, però che tu non se’ il primo che non hai saputo tenere la ventura, quando Dio la ti manda; ma e’ sono stati molti e piú valentri uomeni di te, che, non che l’abbiano saputa prendere e usare quel picciolo tempo che l’hai usata tu, ma e’ non l’hanno saputa pigliare quand’ella s’è fatta loro innanzi.
E poi dopo molte parole, con simili conforti, il povero albergatore si partí, e tornossi nella sua stentata vita, guardando piú tempo per lo Po se rivedesse il perduto pesce; ma ben poté guardare, ch’egli era forse già per lo mare maggiore con molti pesci attorno; e non v’era con lui né l’uomo né la ventura. E cosí visse quel tempo che piacque a Dio, con uno repetío in sé del perduto pesce; che molto serebbe stato il meglio che mai quello non avesse veduto.
Cosí fa tutto dí la fortuna che molte volte si mostra lieta, per vedere chi la sa pigliare, e molte volte chi meglio la sa pigliare ne rimane in camicia; e molte volte si mostra acciò che chi non la sa pigliare sempre poi se ne dolga e viva tapino, dicendo: «Io potei avere la cotal cosa e non la volli». Altri la pigliano e sannola tenere molto poco, come fece questo albergatore. Ma, a considerare tutti i nostri avvenimenti, chi non piglia il bene quando la fortuna e ’l tempo gnel concede, il piú delle volte, quando si ripensa, il rivorrebbe e non lo ritruova, se non aspettasse trentasei migliaia d’anni, come disse il valentre uomo. Il qual detto mi pare che sia conforme a quello che certi filosofi hanno già detto, che di qui a trentasei migliaia d’anni il mondo tornerà in quella disposizione che è al presente. E sono stati già a’ miei dí di quelli che hanno lasciato ch’e’ loro figliuoli non possono né vendere né impegnare, che mi pare che debbano credere a questa opinione acciò che truovino il loro quando torneranno in capo di trentasei migliaia d’anni.