Il Tesoro (Latini)/Illustrazioni al Libro VIII

Brunetto Latini - Il Tesoro (XIII secolo)
Traduzione dalla lingua d'oïl di Bono Giamboni (XIII secolo)
Illustrazioni al Libro VIII
Libro VIII Libro IX

259
ILLUSTRAZIONI

LIBRO OTTAVO

Capitolo I.

Ser Brimetto profugo in Francia, tradusse in lingua volgare il trattato De inventione di M. Tullio, per compiacere un suo amico ricco e dotto, com’egli dice neir introduzione al commento del libro medesimo. Erroneamente questa traduzione fu intitolata La r et lorica di Tullio, come si legge altresì nel titolo dei codici Magliabechiani.

Erroneamente il Fontanini, nell’Eloquenza italiana, la dice traduzione del libro primo delle Partizioni. Questa traduzione di Brunetto non ci giunse intera, o perdi’ egli non la compì, o perchè smarrita. Il copiatore di uno dei codici Magliabechiani, annota in fine del volgarizzamento di cui parliamo:

260
2GU

« Non ò lìnito il libro, ma uou se ne trova più volgarizzato. Ma a seguire l’ordine cominciato, doviebbe seguire ancora chiosa, nella quale dichiarasse come si mette la cosa per l’ uomo, e l’ uomo per la cosa. » Così il Nannucci, nel Manuale di sopra citato, in cui stampa la traduzione di Brunetto.

Ser Brunetto poi « il quale era buon intenditore di lettere, ed era molto intento allo studio della retorica » come di so dice egli stesso nell’introduzione di quella traduzione, trasportò in questo ottavo libro del Tesoro la maggior parte della dottrina retorica di Cicerone esposta in quel trattato.

Non credo utile trasoivere tutti i brani latini copiati. Chi di cotali studii si diletta, dopo questo avvertimento, può farlo a tutto suo agio. Di tal guisa Brunetto voltò quel libro in gran parte in italiano ed in francese. Bono poi lo volgarizzò dal Tesoro, avendo innanzi il testo latino di Cicerone, e la traduzione italiana di Brunetto.

Nei capitoli sono registrate in nota le osservazioni critiche e fllosoflche, più opportune alla illustrazione.


261
Àncora sul Capitolo 1.

Secondo le imperfette cognizioni, ed i pregiudizi del suo tempo, ripetuti poi anche da Benedetto Varchi neWEr calano, l’.ebrea fu la prima lingua degli uomini: l’ ebrea, la greca, e la latina hanno il primato sopra tutte le lingue.

Un principio di scienza del linguaggio, come la chiamò teste Max Muller, s’intravede nella distinzione di Lingue gutturali, palatine, e labbiah. È osservazione leggera; ma è germe di classificazione.

Il Wisemann ne’ suoi Discorsi, ed il Max Muller nelle sue letture, vennero alle medesime conclusioni intorno alla scienza del linguaggio, detta altre volte linguistica, o filologia comparata, avvegnaché la verità possa essere meglio illustrata o dimostrata, ma non mai distrutta.

Dopo studi a vero dire giganteschi, è provato come tutte le lingue un tempo credute originali, o lingue madri, abbiano reciproche somiglianze lessiche e grammaticali, e debbansi credere derivate da uua lingua primitiva, la quale nella sua integrità ora è spenta, comecché variamente trasformata, viva nelle lingue sue figlie e nipoti, le quali costituiscono una piramide, che si va sempre più allargando quanto procedono i secoli, e della |quale essa è il vertice.

262
Nel Pentateuco di Mosè riscontransi nomi proprii,

che dovevano formar parte di una lingua più antica, simile ma non identica all’ebraica, nella quale l’ ispirato scrittore dettava quel com()endio meraviglioso delle tradizioni più antiche della laraiglia semitica.

Nota il conte di GoulianofT: La serie dei fatti anteriori alla storia cancellandosi col progredire dei secoh, sembra nuocere all’evidenza d’un fatto essenziale, qual si ò la fratellanza dei popoli, e l’unità della specie umana. Questo fatto, più importante di tutti per il filosofo, è confermato implicitamente dalla comparazione delle lingue antiche e moderne, considerate secondo la loro origine. Che se mai qualche utopia filosofica volesse moltiplicare ancora le origini del genere umano; l’identità delle lingue sarà sempre pronta a dileguare l’ errore, e conserverà sul diritto cammino ogni spirito, quantunque sinistramente prevenuto (Discours sur V etude fondamentale des langues Paris, 1832).

Inoltre dall’ esame filologico delle lingue si apprende, che gli uomini, come insegna Herder (Mémoires de l’Accad. royal de Berlin), non hanno volontariamente cambiato la lingua, ma sì perchè furono r uno dall’ altro improvvisamente staccati. La diversità delle lingue, osserva Niebhur (Romische Geschiete, ixirt. I. ss. 60, ediz. terza) non diede gran fatto da meditare agli antichi, forse perch’essi credevano essere stati molteplici gli stipiti dell’umana famiglia. Quelli che ciò negano, e risalgono


263
ad una sola coppia primitiva, sono costretti a confessare

un miracolo per dar ragione dell’ esistenza di liugue di struttala diversa; e per le lingue le quali fra loro differiscono nelle radici ed in altri elementi essenziali, bisogna ammettere il miracolo della babelica confusione delle lingue. L’ammettere cotal miracolo non offende punto la ragione, l)0icliè dimostrandone i vestigii dell’ antico mondo, come prima dell’ attuale esistesse un altro ordine di cose, egli è credibilissimo che sia durato nella sua integrità dopo il suo principio, e che a qualche epoca abbia subito un essenziale mutamento.

Sharon Turner, in una serie di dissertazioni lette negli anni 1824 e 1825 alla regia Accademia letteraria di Londra, dopo una minuta analisi degli elementi del- linguaggio, conchiuse che le molteplici prove di attrazione e di repulsione fra le varie lingue, costringono l’ etnografo ad ammettere una separazione improvvisa e violenta dei popoli, quale è rivelata dalla Genesi nel racconto della confusione delle lingue, e della dispersione dei popoh, avvenuta neir edificazione della torre, o piramide, di Babel, il cui nome significa confusione.

Confusione non accaduta naturalmente, per modificazione di una lingua in dialetti e sottodialetti, ma prodigiosamente. 11 miracolo ingrandì r opera, che lentamente e rimessamente la natura avrebbe fatto. Dice Wisemann: « Simile a quelle masse ragruppate ma disunite, che i ereologi considerano quali ruine delle montagne primitive,’’, veggiamo

264
noi varii dialetti del globo i ruderi d’ un vasto monumento,

che apparteneva al mondo antico. L’esatta regolarità dei loro angoli in molte parti; le vene, filoni di simile aspetto, de’ quali si potè seguir le traccie dall’ uno all’ altro, indicano che questi frammenti altre volte furono riuniti in modo da formare un tutto; ma le linee rotte dei punti di separazione, (irovano che non fu per separazione graduale, o per azione lenta e continua, che si sono disunite; ma sì che qualche convulsione violenta le ha fesse e staccate. »

Dante nel canto XXXI dell" Inferno, ci addita fra i giganti:

Questi è Nembrotto, per lo cui mal coto Pur un linguaggio nel mondo non s’usa.

Nel canto XXVI del Paradiso, si fa così insegnare da Adamo l’origine della lingua, e la diversità delle lingue^ superando la scienza filologica del maestro Brunetto:

La lingua eh’ io parlai fu tutta spenta Innanzi che ali* ovra inconsumabile Fosse la gente di Nerabrotte attenta;

Che nullo effetto mai razionabile Per lo piacere uman, che rinnovella h’eguendo il cielo, sempre fu durabile.

Opera naturale è ch’uom favella; Ma così così, natura lascia Poi fare:^ voi, secondo che v’abbella.


265
Capitolo IV

Brunetto ricorda: « le canzoni, nelle quali l’un amante parla all’ altro, sì come si fosse dinanzi a lui alla contenzione. »

Tutte le letterature hanno esempi di poesie, specialmente amorose, in dialogo. Nei primi secoli abbiamo in dialogo altresì qualche sonetto. Qui Brunetto accenna alle canzoni con proposta e risposta di Messere a Madonna, quasi duello di epigrammi e complimenti di cui è antico esempio ed insigne la Canzone detta comunemente dì Ciullo d’Alcamo. Abbiamo anche dialoghi poetici col nome di Contrasti, a’ quali pure allude Brunetto parlandoci di contenzione.

La Canzone, o Tenzone di Ciullo, fu egregiamente. interpretata, e difesa contro le intemperanze esegetiche di un goriziano utopista, da L. Vigo, nel Propugnatore filologico del 1871, fascicolo II, pagina 254. Molli altri studii si fecero poi su quella poesia.

Un bel Contrasto, politico, e non erotico, di Gidino da Somraacampagna, è nella Dispensa 105 della Scpifri cH curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XII al XVII, edita dal Romagnoli a Bologna. L’edizione fu illustrata da mons. G. B. conte Giullari, bibliotecario della Capitolare di Verona.

266
2f)6

Capitolo XL

11 maestro si lasciò cader della peana: « Come fece Ciclico, di cui parla Orazio. »

Neil’ epistola sull’Arte poetica, Orazio dice, al verso 136:

Nec sic incipias, ut scriptor cyclicus olim.

Sotto l’appellazione di ciclo, sì intese dagli antichi scoliasti, chi non sa variare l’ordine; al quale proposito, desumendo l’imagine da un cerchio (xfKXof, orhis) insegnò il poeta nella medesima epistola.

Nec circa vilem patulumque moraberis orbem.

Altri intesero un cantore da piazza, circurnforaneus, circidator: il nostro cantastorie, la musa ispiratrice del quale è la fama, e si aggira fra i circoli, capauelli delle persone, per buscar qualche quattrino, senza nessuna pretesa di fama immortale. Questa sembra l’ interpretazione migliore.

Altri pretendono, che ciclici poeti fossero quelli, i quali cantavano un ciclo, o periodo storico, o mitologico, per es. il ciclo della guerra di Troia (Casaubonus, in Athen, VII, 3). È vero il fatto dei cicli storici, e mitologici: ma Orazio non sembra che qui volesse berteggiarne i poeti.


267
Non fu solo Brunetto, a scambiare codesto cycUcus

per nome proprio di persona. Altri simili scambi già in esso abbiamo notati.

Anche nella vita di Focione, attribuita a Cornelio Nepote, balza inaspettato sopra il palco scenico un Emphiletiis, il quale dal raffronto del testo creduto di Cornelio cogli istoriografì greci da’ quali copiò, si pare essere: £/^ç"Xoç t/ç,^ tribulis quidam.

Capitolo XIV.

A’ giorni di ser Brunetto era celebre questo r? giovane, ch’egli cita in un esempio di ornamento retorico. Nel Novelliere antico, la Novella XIX incominica: « Leggesi della bontà del re giovane guerreggiando col padre per consiglio di Bertramo del Bornio ecc. » A questo re giovane si riferisce la controversia intorno al verso del canto XXVIII dell’ Inferno:

Sappi ch’io son Bertram dai Bornio, quelli Che al re Giovanni diede i ma’ conforti.

Altri leggono:

Che al re giovane, diede i ma’ conforti,

come sanno tutti i lettori del poema divino.

268
Enrico II re d’ Inghilterra ebbe quattro fi(?liuoli:

Enrico primogenito, detto il Re giovane^ perdio a quindici anni fu coronato re d’ Inp-hilterra: Riccardo, o Ricciardo: Goffredo: Giovanni, ad undici anni coronato le d’ Ii’landa. 11 Re giovane, da Giovanni Villani, ed in molti rass. della divina Coraedia al luogo citato, è confuso con questo ultimo re Giovanni.

Capitolo XXXII.

» Quelli che furono dinanzi a noi, ebbero senno e ardimento; ne orgoglio non tolse loro eh’ eglino non prendessero buono esempio di ragione agli strani. »

Così Sallustio fa parlare Giulio Cesare, come non avrebbe fatto per avventura nessuno di noi. Venerando quanto si voglia gli antichi tempi, non li diremo giammai migliori dei nostri. Ogni secolo della storia moderna si crede il secolo dei secoli, il secolo della libertà, dei lumi, del progresso. Noi guardiamo senza posa all’avvenire: gli antichi guardavano il passato. La tradizione dell’ età dell’ oro, o di Saturno, è in tutte le religioni antiche. Noi crediamo il perfezionamento progressivo degli nomini; ed essi


269
il peggioramento. Orazio, non solo confessa come

Sallustio, che gli antichi erano migliori; ma pronostica altresì che i posteri saranno peggiori. Leggasi tutta r ode 6 del libro III, la quale è compendiata in questi tre versi:

Aetas parentum pejor avis, tulit Nos nequiores, mox daturos Progeniem vitiosiorem.

Ancora sul Capitolo XXXII

Queste due orazioni, da Sallustio poste in bocca a Cesare ed a Catone, l’ una in opposizione dell’ altra, erano stimate due capolavori nel trecento.

Brunetto Latini, maestro di retorica, le tradusse in lingua volgare, con un parallelo fra i due oratori dettato dello stesso Sallustio. Le voltò in francese, e le inserì nel suo Tesoro, col commento retorico sopra ambedue, ai capitoli XXXII, XXXIII, XXXIV, XXXV del libro Vili. Bono Giamboni le volgarizzò dal francese, con tutta l’ opera.

Anche Bartolomeo da san Concordie tradusse queste due orazioni, edite più volte, secondo varii manoscritti.

È istruttivo il confronto di queste versioni colr originale latino. Osserveremo in primo luogo la

270
scon-f’/Joiio (loi codici latini di quel toinpo, o perciò

non tanto Un varie lezioni, quanto gli errori di essi. Do()loreremo la scarsa scienza filologica dei traduttori, che talvolta interpretarono secondo la lettera, non intendendo o Irantendendo lo spirito del testo, por dirotto di erudizione storica. Finalmente noteremo la varia traduzione delle frasi dell’originale medesimo, secondo la coltura e l’ ingegno diverso di Brunetto, di Bono, e di fra Bartolomeo. Un’ attenta lettura delle tre versioni dice al lettore assai più, che un prolisso nostro commento.

Capitolo XL VI.

Ricliiama a sé la nostra attenzione questa sentenza di Brunetto, comechè citata solamente a guisa di esempio: « Io mostrerò, che per cupidità, e per lussuria, e per l’avarizia dei nostri nemici, tutti i mali sono addivenuti a nostro comune. » Lasciamo il precetto j-etorico, e consideriamo alquanto la sostanza del concetto.

Il brano, come tutta in generale la parte didattica di questo libro, ò tradotto dal trattato De inventione, cap. XXIII, di AI. Tullio. Questa sentenza nel testo latino, è così espressa: Os^endam propter cupidi tatem, et audaciam, et avaritiam adversariorum, oramia incommoda ad rempublicam pervenisse.


271
Non pote essore per igaorauza, o per negligenza,

che il traduttore mutasse audacia, in ilussiiria. Nel libro sesto, ragionando dei vizii, egli ben diede a vedere di conoscere e l’ una e l’altra.

Giovanni Villani sentenzia: Per le peccata della superbia, invidia, ed avarizia, erano partiti a setta (Vili, 96). E prima: Molti peccati commessi per la superbia, invidia, ed avarizia di nostri cittadini, che allora guidavano la terra (Ib. 68).

Prima di esso, Dante, parlando con Brunetto, chiamò i Fiorentini:

Gente avara, invidiosa e superba; Da’ lor costumi fa che tu ti forbia

(Inf. XV).

Nel cauto VI dell’ Inferno, mette innanzi il testo, che sembra chiosato dal Villani, nelle parole teste citate.

Superbia, invidia, ed avarizia sono Le tre faville ch’anno i cuori accesi.

Senza che, notissima è l’ allegoria morale delle tre belve che si fanno incontro al poeta nella selva selvaggia: la lonza, il leone, la lupa: la libidine, la superbia, l’ avarizia, cagioni funeste delte sventure de’ singoli uomini e delle repubbliche, siccome è chiaro da se, e predicavasi in ispecie a quel tempo.

272
Xon ò souza prolitto accoiupaguaro dall’ onibrioiie

al pieuo loro svihippamento le dottrine. Anche le idee haauo genesi, nietamorCosi, e ()aliutienesi.

Capitolo LV.

Il fatto di Epaminonda, qui riferito quale esempio di arte retorica, copiato da Cicerone ( De inventione cap. XXXIII), è questo. L’ anno 369 av. Cr. Tebe ora in (^uerra contro Sparta per la famosa egemonia, che atfrettò la caduta delle repubbliche greche sotto la monarchia di Filippo. Epaminonda sollevò contro Sparta le genti prima da essa fieramente oppresse, e tra queste i Messeuii che dopo due secoli di esigilo iu Sicilia, ed in Italia, ritornarono liberi nel Peloponeso. Per condurre a termine questa grande impresa, egli tenne il comando dell’ esercito quattro mesi oltre il termine prescritto dalla legge. Reduce vittorioso a Tebe, fu citato al tribunale per questo delitto, come reo di morte. Egli rispose per tutti gli altri capitani, rei della medesima colpa, e convenne in tutti i fatti che i giudici gì’ imputarono. Poi soggiunse: La legge mi condanna: merito la morte. Chiedo solamente in grazia, che nella sentenza si scriva: Epaminonda fu condannato a morte dai Tebani, per averli forzati a vincere a Leuttra i Lacedemoni, che prima non


273
osavano guardare in volto: non pure salvata Tebe,

ma donata libertà alla Grecia: assediata Sparta, la quale confessò sua grande ventura sfuggire l’estrema rovina: bloccata quella città, ricostrutta e cinta di mura Messene.

Il popolo applaudi con entusiasmo: i giudici non ardirono condannarlo.

Capitolo LXI.

Leggiamo: « Cupidità d’ ai’gento, che ha fatto già molti dannaggi a molte genti. »

Chi non si sente di tratto scintillare nella mente:

Ed una lupa, che di tutte brame Sembrava carca nella sua magrezza, E molte genti fé già viver grame ?

(Inf. I.)

Ommettendo altre significazioni allegoriche della lupa, egli è fuor d’ ogni dubbio, che per essa intender si debba l’ avarizia. Dante interpreta se stesso:

Maledetta sie tu, antica lupa, Che più che tutte l’ altre bestie hai preda Per la tua fame senza fine cupa!

18

274
ciel, nel cui (^irar par che si creda

Le condizion di quaggiù trasmutarsi, Quando verrà per cui questa disceda?

(Purg. XX.)

Canta qui appunto dell’ avarizia, « del mal eh e tutto il mondo occupa. »

Aveva egli profondamente scolpita nella « mente che non erra » la dottrina del suo caro e buono maestro.

Ancora sul Capitolo XLI.

Nota il Carrer « Si come fece Plausto ecc. Forse Pianto: ma non avendo trovato il passo corrispondente, non osai mutare. »

Il passo ò in Cicerone De inventione, È qui tradotto dal maestro: Aut si ratio alicujus rei reddetur falsa, hoc modo: Pecunia bonum est, propterea quod ea maxime vitam beatam efflciat. Aut si infirma, ut Plautus:

Amicum castigare ob meritam noxiam Immune est facinus: veruni in aetato utile Et conducibile: nam ego amie imi hodie meum Concastigabo prò commerita uoxia


275
Brunetto lesse in altro modo l’ ultimo verso. Il

mss. Gianfllippi: Como disse Plato: Non è bene conregiere l’ amico avanti ’1 peccato commesso. Imperciò voglio aucuò (oggi) conregier il mio amico dei mali che il fa. »

276

277
LIBRO NONO

Capitolo I.

Qui comincia la politica, cioè il libro del governamento delle città ’.

Li primi libri dinanzi sono a divisare le nature, e il cominciamento delle cose ^ del secolo, e gì’ insegnamenti de’ vizii, e di virtudi ^, e la dottrina di parlare bene. Ma in questa parte diretana vole mostrare maestro Brunetto Latino la politica *, volendo compire al suo amico quel

1) Il t: Bel gouvernement des citez.

2) Aggiunto e lo cominciamento delU cose, col ms. Vis. e col T: li commencement des choses.

3) Corretto virtude, die è pure nel ms. Vis. in virtudi, col T: des vertuz. Parla delle vertudi in g-enerale.

4) La politica, manca al t, ed al ms. Vis.