Il Re Torrismondo/Atto quarto/Scena settima
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SCENA SETTIMA
TORRISMONDO, GERMONDO
GERMONDO
Altro dunque è fra noi più caro mezzo,
Che s’interpone, e ne ristringe insieme,
O ne disgiunge? E non potrà Germondo
Saper quel, ch’in sè volge il Re de’ Goti
Da lui medesmo?
TORRISMONDO
Il Re de’ Goti è vostro,
Signor, come fu sempre, e vostro il regno;
Ma l’altrui stabil voglia, e ’l vostro amore,
E la sua dura sorte il fa dolente.
GERMONDO
Perturbator a voi di liete nozze
Non venni in Gotia, e se ’l venir v’infesta,
Altrui colpa è ’l venire, e nostro errore,
E torno indietro, e non ritorno a tempo;
Né duo gran falli una partenza emenda.
TORRISMONDO
Fortuna errò, che volse i lieti giuochi
In tristi lutti, e inaspettata morte.
Per cuì, se di tal fede il messo è degno,
Norvegia ha ’l Re perduto, Alvida il padre.
Voi se cedete i mesti giorni al pianto,
E fuggite il dolor, nel primo incontro
Io non v’arresto; e non vi chiudo il passo,
S’al piacer vostro di tornar v’aggrada.
GERMONDO
Così noto io vi sono? al vostro lutto
Io potrei dimostrare asciutto il viso?
Io mai sottrar le spalle al vostro incarco?
Se ’l mio pianto contempra il vostro duolo,
Verserò ’l pianto; e se vendetta, il sangue.
TORRISMONDO
Io conobbi, Germondo, il valor vostro,
Che splendea com’un Sole; or più risplende,
Nè sono orbo al suo lume. Empia Fortuna
Farmi l’alba potrà turbata e negra,
E l’Ocean coprir d’oscuro nembo,
O pur celarmi a mezzo giorno il Cielo;
Ma non far ch’io non veggia il vostro merto,
E ’l dover mio. Volli una volta, e dissi:
Or non muto il voler, nè cangio i detti.
È vostra Alvida, e di Norvegia il regno
E’ sarà, sio potrò; ma più vi deggio.
Perchè non perdo il mio, nè spargo, e spando,
Come far io dovrei, la vita e l’alma.
CORO
Qual’arte occulta, o qual saper adempie
Dalle celesti sfere
D’orror gli egri mortali, e di spavento?
Vi sono amori ed odj, e mostri e fere
Lassù spietate ed empie,
Cagion di morte iniqua, o di tormento?
Vi son lassù tiranni? e l’aria, e ’l vento
Non ci perturban solo, e i salsi regni
Co’ feri aspetti, e la feconda terra,
Ma più gli umani ingegni?
Tant’ire e tanti sdegni,
Muovono dentro a noi sì orribil guerra?
O son voci, onde il volgo agogna, ed erra?
E ciò, che gira intorno,
È per far bello il mondo, e ’l cielo adorno?
Ma se pur d’alta parte a noi minaccia,
E da’ suoi regni in questi
Di rea Fortuna, or guerra indice il Fato,
Leon, Tauro, Serpente, Orse celesti,
Qui dove il mondo agghiaccia,
El gran Centauro, ed Orione armato,
Non si renda per segno in Ciel turbato
L’animo invitto, e non si mostri infermo;
Ma col valor respinga i duri colpi.
Che ’l destin non è fermo
All’intrepido schermo.
Perch’umana virtù nulla s’incolpi,
Ma dell’ingiuste accuse il ciel discolpi,
Sovra le stelle eccelse
Nata, e scesa nel core albergo felse.
Che non lece a virtù? nel gran periglio
Chi di lei più sicura,
E presta aspìra al cielo, e ’n alto intende?
Chi più là, dove Borea i fiumi indura,
L’arme ha pronte, e ’l consiglio,
O dove ardente Sol le arene accende?
Non la bruma, o l’ardor virtute offende,
Non ferro, o fiamma, o venti, o nubi avverse,
O duri scogli a lei far ponno oltraggio:
Perchè navi sommerse
Siano, ed altre disperse
Mandi procella infesta al gran viaggio,
E ’n ciel s’estingua ogni lucente raggio;
E co’ più fieri spirti
Sprezza Fortuna ancor tra scogli, e sirti.
Virtù non lascia in terra, o pur nell’onde
Guado intentato, o passo,
Od occulta latébra, o calle incerto.
A lei s’apre la selva, e ’l duro sasso,
E nell’acque profonde
S’aperse a’ legni il monte al mare aperto:
Alfin d’Argo la fama oscura, e ’l merto
Fia di Giason; ch’a più lodate imprese
Porteranno altre navi i Duci illustri;
Avrà sue leggi prese
L’Ocean, che distese
Le braccia intorno; e già volgendo i lustri
Avverrà che lor gloria il mondo illustri
Come Sol, che rotando
Caccia le nubi, e le tempeste in bando.
Virtù scende all’Inferno,
Passa Stige sicura, ed Acheronte,
Non che l’orrido bosco, o l’erto monte.
Virtude al ciel ritorna,
E dove in prima nacque, alfin soggiorna.