(Al principe di Conti)
Poiché son buoni, buoni desiderano
gli dèi che siano in terra i re.
Non perdonare, ma sol di fulmini
andar superbi santo non è.
Questa è legge per voi, Principe, in cui
non nasce quasi che già vinto muore
ogni corruccio. In ciò più che il Pelide
voi siete grande, il qual fu meno eroe
quel dì che schiava rese l’alma all’ira.
Di questo nome è sol degno colui,
che come già nell’aurea età, di mille
benefici beata empie la terra.
Pochi nascono grandi in questa nostra
umile etade, ed è sol grato il mondo
del mal che i grandi agli uomini non fanno.
Non che seguir questi comuni esempi,
per mille generosi atti, o Signore,
avrete più d’un tempio ove d’Apollo
del vostro nome suonerà la cetra.
Poi che sarete un secolo rimasto
nell’amplesso d’Imene in mezzo a noi
(né vuole oltre i cent’anni il desiderio
rimanere quaggiù) entro il palagio
andrete ove vi attendono gli dèi.
Imene intanto co’ suoi dolci affetti
compone a voi corona ed alla sposa,
qual meritate, e qual possono i tempi
concedere quaggiù. Meno non vuole
l’alta bellezza di colei ch’è vostra,
né meno il valor vostro, onde nei primi
anni, senza rival, vi colma il cielo.
Nel suo spirto regale essa congiunge
e perfeziona ogni celeste incanto,
quel ch’è degno d’amor e in un di stima.
Ma per non dispiegar oggi ai profani
l’intime gioie, qui m’arresto e passo
a rimar quel che fece un uccellaccio.
Da vecchio tempo possessore un Nibbio
del suo bel nido, in mano
un giorno cadde a un Cacciator. Costui
presentasi al Sovrano
e pensa fargli un don degno di lui.
Ma l’uccellaccio, giunto innanzi al re
(se pure il fatto apocrifo non è),
sul naso gli saltò
coll’unghie e lo graffiò.
- Che! che! graffiar sua Maestà? Che caso!
Non aveva ei corona e scettro in mano? -
Che fa lo scettro e la corona? il naso
d’un re val quello d’ogni cristïano.
Corre, grida la gente
e si agita la corte,
ma impassibile il Re si mostra e forte.
Che strilli un re vi par forse decente?
Sopra quel naso lo sfacciato uccello
come nel proprio nido si accovaccia;
invan grida il padron e col zimbello
cerca attirarlo e invano lo minaccia.
Ridendosi di lui, dell’altra gente,
avresti quasi detto
che s’era persuaso
il Nibbio maledetto
di passar la sua notte dolcemente
su quella sacra maestà di naso.
Quando alfin si risolse e prese il volo,
- Lasciatelo partir, - disse il Sovrano, -
e parta anche costui, ma senza duolo.
Ognun fa come può, da nibbio in nibbio
e da villan villano.
Non resta dunque a me
che d’operar da re -.
Ammirano ministri e cortigiani
quella bontà che imitan così poco.
Quanti sono anche i re di questi tempi
ch’aman seguire i generosi esempi?
Il Cacciator partì, lieto che in gioco
finisca la faccenda, ed impararono
uccello e pastricciano
ch’è bene gl’illustrissimi
padroni riverirli da lontano.
Del resto io riconosco
ch’eran felici, se cresciuti liberi
non conoscean che gli uomini del bosco.
Nacque Pilpay che questa istoria scrisse,
sul Gange e sempre in quel paese visse
ove dell’animal sacra è la vita.
Nessun mortal, nessun osa dei re
spargerne il sangue e dicono il perché:
forse lo spirto egli è di qualche principe
che seme ad Ilio fu di grandi eroi,
ciò ch’egli fu non può diventar poi?
Secondo quel che predica Pitagora,
in un cogli animali cangiam noi,
oggi scorpioni od uomini
diman pesci o volatili
che solcan l’aria... e creda chi vuol credere.
Del Nibbio, o falsa o vera
che sia la bella favola,
la contan pure in quest’altra maniera.
Un falconier che preso aveva in caccia
un Nibbio (uccel difficile a pigliare),
al re ne fece dono,
come si fa colle cose che sono
più peregrine e rare.
Prender un nibbio vivo
è il non plus ultra per un falconiere,
e capita di rado di vedere.
Pien di smania e di zelo il Cacciatore
come non fu giammai
si mette in mezzo ai cortigiani e spera
trovar la maniera
di far la sua fortuna collo strano
uccello sulla mano.
Ma l’animal selvaggio, che non è
abituato agli usi del paese,
cogli artigli di ferro il naso prese
del suo padron e il viso gli graffiò.
- Ahi! ahi! - questi gridò.
Ridono i cortigiani e ride il re.
Il riso fa buon sangue e dico il vero
che non avria ceduta la mia parte
nemmen per un impero.
Che un papa sappia ridere
in fede mia non giuro,
ma un re col viso oscuro,
che storcere la bocca mai non sa,
mi fa proprio pietà.
Piacer dei Numi è il ridere,
e in mezzo al grave affanno,
che gli affari del mondo in ciel gli dànno,
ride il buon Giove e ridono
con lui tutti gli dèi che intorno stanno.
Così quel dì che zoppetto zoppino
venne col fiasco in mano
il dio Vulcano,
si sfasciò dalle risa, a quel che narrano,
papà Giove divino.
Lasciamo questa storia
e se gli dèi fecero bene o male:
e invece, della favola
tiriamo una morale:
ed è che fra i viventi
il numero maggior fu sempre ed è
dei falconieri sciocchi, che dei re
pietosi ed indulgenti.