Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo X
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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La brigata nera si era presentata a casa di Serrazanetti Alessandro, mettendo tutto sottosopra; aveva avuto sentore che egli fosse a casa e occorreva provvedere. Decidemmo quindi di mandarlo in formazioni operanti in montagna.
Un mattino, con pochi soldi, un indirizzo e una parola d’ordine nella mente partì, accompagnato da un francese e da un polacco, che erano fuggiti dalla prigionia tedesca. Rimanemmo d’accordo con Tito che, se gli fosse stato possibile, dopo un po’ sarebbe tornato per vedere la nostra posizione.
Dopo una ventina di giorni, eravamo alla fine di luglio circa, una sera mi fecero sapere che a casa Cremonini (base) vi sarebbe stata una riunione del gruppo. Fui puntualissimo, Serrazanetti era tornato, assieme a lui partigiani in montagna (non più ribelli, ma partigiani), vi erano Forni Dario di Accatà e Nicoli Enrico del centro Persiceto.
In quella riunione si discusse animatamente, c’era chi sosteneva di potenziare in pianura gli aspetti militari che la resistenza aveva in montagna, rafforzare maggiormente i G.A.P. e le S.A.P., preparare quindi in tutta la pianura quell’organismo che poi fosse sfociato in un sollevamento generale al momento opportuno. Altri asserivano che in pianura, oltre ai sabotaggi, non si poteva andare, perché azioni più marcate ed aperte sarebbero state perdenti in partenza, data la configurazione della pianura, senza poi contare le eventuali rappresaglie che i nazisti avrebbero attuato. Si discusse fino all’una circa, arrivando alla conclusione che quelli che non erano ricercati restavano continuando l’attività, gli altri, cioè Nicoli, Serrazanetti, Forni Dario ed io, saremmo partiti successivamente, per unirci a formazioni di montagna.
Avendo ormai preso la mia decisione, nel pomeriggio del giorno successivo andai a salutare, fra gli altri un caro amico che frequentavo fin dall’infanzia, quando mi trovavo a Persiceto: era l’allora brigadiere dei carabinieri Vittorino Bussolari. Egli, come appartenente all’arma preposta all’ordine pubblico e quindi di polizia, era rimasto in servizio anche dopo l’otto settembre. Di lui mi fidavo in modo assoluto e parecchie sere ci incontravamo, quando la mia attività mi lasciava il tempo, oppure le circostanze lo permettevano, poiché lui prestava servizio alla caserma Magarotti di Bologna tutte le sere veniva presso la sua famiglia e vi pernottava.
Andai quindi a salutarlo; era ancora giorno, i suoi genitori appena mi videro dimostrarono imbarazzo, titubanza. «Cosa c’era?» mi chiesi. Poi si decisero, mi accompagnarono nel fienile, da un cumulo di balle di paglia ne estrassero una e dall’apertura che si era formata ne uscì il brigadiere. Restai di stucco. Ma che faceva il mio amico là sotto nascosto?
«Ma che fai?» Gli chiesi, appena fu uscito, mentre mi stringeva la mano. «Sono riuscito a scappare» rispose. «Come riuscito?» (sapevo che tutte le sere era a casa!) Egli allora mi raccontò che la sera prima tutti i militari furono consegnati in caserma, sospese le uscite, nessuno poteva andar fuori neanche per servizio.
Verso mezzanotte un milite suo amico lo chiamò: «Vieni a vedere!» Tutta la caserma era circondata dai tedeschi, ad ogni angolo avevano piazzato delle mitragliatrici. Capirono subito che cosa li attendeva.
Entrambi si affrettarono, senza prendere nulla, a portarsi all’ultimo piano proprio sotto i tetti e qui con mezzi rudimentali praticarono un buco fra le tegole, vi si infilarono uno dopo l’altro, poi alla men peggio riuscirono a tamponare il buco fatto. Dai tetti poterono osservare lo svolgersi dell’operazione.
Con mitra spianati i nazisti, urlando, avevano concentrato tutti i carabinieri nel cortile, dopo averli disarmati, poi alcuni gruppi perlustrarono i vani della caserma ed anche il soffitto. Da sopra i tetti, immobili, sentivano che stavano rovistando dappertutto e se trovavano qualcuno a calci lo portavano nel cortile assieme agli altri. Ormai avevano cercato in ogni angolo e quasi tutti erano nel cortile in attesa dei mezzi che li avrebbero caricati e deportati in Germania.
Stava intanto albeggiando e per paura che dalle abitazioni vicine i due fuggiaschi fossero visti e segnalati decisero di tentare l’uscita; per una scaletta secondaria, si portarono ad una porticina che dava sulla strada, da questa spiarono, un nazista faceva la spola di guardia a quel tratto. Trattenendo il respiro ascoltarono quando la sentinella era passata e quindi avrebbe voltato loro le spalle. Aprirono la porta, in mutande e maglietta, di corsa, attraversarono la strada nascondendosi prima dietro le colonne del portico, poi entro un portone. La famiglia che vi abitava fornì loro vestiti borghesi che permisero di arrivare alle rispettive case. Tutti gli altri carabinieri furono deportati in Germania.
Arrivato a casa, il mio amico, siccome abitava nella proprietà Zambonelli (Seniore della milizia), dovette non farsi vedere, ecco perché aveva cercato rifugio sotto quelle balle di paglia e chissà quanto avrebbe dovuto restarci. Ciò anche perché i tedeschi avevano in mano l’organico della caserma e non figurando lui fra gli arrestati, ci si aspettava che lo avrebbero cercato a casa; da qui il suo nascondersi.
«Vieni con me» dissi «vado in montagna con i ribelli, almeno se dovrò morire lo farò con un mitra in mano!» Non venne, era ancora troppo scosso dagli ultimi avvenimenti o forse, valutando la vita terribile del ribelle, decise di restare. Una stretta di mano ed un abbraccio, unitamente a reciproci auguri, conclusero il nostro incontro.