Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo III
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Alla fine dell’estate 1941 fui chiamato per la leva militare ed inviato per l’addestramento (quanti addestramenti!) al decimo autocentro di Napoli. Sostai una notte a Napoli nella caserma e mi diedero per cena una gavetta di riso che sembrava colla per manifesti; mangiai, tanta era la fame, a vent’anni si ha sempre fame, figurarsi con la razione di allora!
Il mattino successivo, assieme ad altri, fummo inviati in distaccamento a Piscinola. Era questo un piccolo paese, sui tremila abitanti circa, paese vecchio, case cadenti, scarseggiava l’acqua e non c’era modo di riscaldarsi d’inverno.
Non ho mai allacciato rapporti con gli abitanti di quel paese, specie per la loro avversione ai militari ed anche per la difficoltà di capirci, avendo loro solo un dialetto molto somigliante all’albanese.
Un giorno ebbi occasione di recarmi al magazzino e riuscii ad avere un paio di scarpe nuove senza averle segnate in mia dotazione; siccome si era sempre senza soldi, cercai di venderle.
Trovai un anziano al quale interessavano, il prezzo andava sempre bene, doveva però provarle; mi chiamò a casa sua; entrammo per una porta sgangherata con tante fessure sotto, sopra, al centro, senza contare il lavoro fatto dai tarli. Dentro vi era una gran penombra, poiché la luce entrava da una finestrella volta verso la strada che, essendo stretta, già aveva poca luce.
Quando gli occhi si abituarono a quella penombra, vidi contro il muro un camino spento, fatto un po’ coi mattoni, un po’ coi sassi, in un angolo addossata al muro una tavola abbastanza grande nella quale ai due lati, dove non c’era il muro, avevano fissato fino all’altezza del piano una rete metallica, sì da farne un recinto entro cui un numero imprecisato di conigli mangiava erba. Nell’angolo opposto quasi al buio vi era legato un somaro che, non avendo nulla da mangiare, mi fissava con la speranza forse che gli porgessi qualcosa.
Lo stanzone era alto ed all’altezza circa di tre metri avevano costruito, sporgente dal muro, una specie di terrazzo in legno con balaustra sempre in legno nero, non saprei se per vernice o per sporcizia. Si accedeva a quel balcone attraverso una scala anch’essa in legno, a pioli come quelle usate una volta dai nostri contadini per vendemmiare. Non una sedia.
Il mio compratore s’arrampicò su per quella scala, sparì oltre la balaustra, si sentì parlottare con una voce di donna e io non capii nulla; poi scese, le scarpe andavano bene, mi pagò. Salutatolo, in fretta uscii. Mentre me ne andavo pensavo: «Beh, noi nel 1935 abbiamo portato la civiltà in Abissinia? E qui chi la porterà? Nel duemila questa civiltà ci sarà ancora?»
Nella primavera avanzata del 1942, come autiere, fui inviato in Russia presso il 7° Parcauto di stanza a Dnepropetrovsk prima, poi a Stalino e quindi a Vorosilovgrad. Il viaggio in tradotta (convoglio militare ferroviario) durò ventidue giorni. Eravamo una trentina e passa di militari entro un carro bestiame, su uno strato di paglia, buttato sul pavimento; si mangiava, si beveva, si dormiva, si svolgeva tutta la vita. Dopo pochi giorni quindi eravamo così pieni di pidocchi da rendere inutile ormai cercare di eliminarli.
Ai confini della Romania vi era un comando, tappa di assistenza ai militari di passaggio; fu offerto un caffè a tutti (caffè d’orzo ovviamente); per due carbovanez (marchi di occupazione) si poteva comprare una bottiglia di liquore; ci recammo per l’acquisto, ma ai militari non venivano vendute. A un ufficiale fino a cinque bottiglie, a un sottufficiale una bottiglia, a tutti gli altri nulla. Una bottiglia, un niente, che però lasciava acredine agli esclusi.
Ci si chiedeva: «Perché in Russia? Per la Patria? Che cosa c’entrava? Perché andavamo a combattere? Per chi poteva avere cinque bottiglie? O anch’essi assieme a noi per chi in Italia le bottiglie le usava per fare milioni? Portavamo la civiltà? Ma chi ce l’aveva chiesta la nostra civiltà? Civiltà di mezzadri da decenni a debito, di braccianti disoccupati permanentemente per i quali il pasto che non saltavano era composto di polenta, sempre e solo polenta, magari con radicchi raccolti lungo l’argine di un fiume? Per portare la libertà?»
La libertà! Mi ricordai di un avvenimento vissuto durante la mia infanzia. Avevo sei anni e, con mio nonno, mi trovavo il 14 novembre sotto al portico del Palazzo Comunale; a Persiceto vi era molta gente, passò un drappello di camicie nere con il gagliardetto in testa per recarsi al cimitero; tutti salutarono o con la mano tesa o levandosi il cappello, uno no, uno solo in mezzo a tanti non salutò. Uscì dal drappello un milite armato di bastone, gli si avventò contro e, a forza di manganellate e di calci, lo ridusse in condizioni pietose, lo percosse ancora fino a che in terra non si mosse più. Noi portavamo questa libertà? O la cultura italiana?
Nel nostro carro vi erano tre analfabeti che, per rendersi conto di quale fosse la destra, per un certo periodo occorse legare un nastro al braccio, solo così la distinguevano. Provenienti dall’interno della "Bassa Italia"; dalle isole, erano italiani, una grande cultura però non l’avrebbero, non l’avremmo portata!
Queste riflessioni si accavallavano, mentre, pieni di pidocchi, a passo di lumaca, ci si muoveva verso il fronte. L’attraversamento della Jugoslavia a noi giovani, ignari di tutto, ci sorprese alquanto; ad ogni ponte ferroviario vi erano cavalli di frisia che lo circondavano ed un certo numero di militari di guardia giorno e notte; ogni viadotto, ogni strozzatura del terreno, ogni tratto costeggiante strade era non solo difeso con cavalli di frisia, ma con fortini in cemento armato, poiché i partigiani iugoslavi, fin dai primi giorni dell’occupazione tedesca, si erano organizzati clandestinamente e furono attivissimi fino alla loro vittoria.
Arrivammo poi, attraverso la Romania, in Ucraina. Qui appena percorsi alcuni chilometri, la tradotta si fermò e rimanemmo per due giorni. Forse un tempo vi era una stazione, un paesino, ma quando arrivammo noi, apparivano solo macerie, erano rimaste due o tre case basse, coperte con canne e con muri di terra impastata, spessissimi per riparare dal gran freddo invernale, le finestre a doppia vetrata.
Davanti ad una di queste case sorgeva un grosso pero alto, in terra erano cadute molte pere, io ne raccolsi una decina e mi recai nella casa abitata da una sola donna anziana, per pagarle. Chiesi se l’albero fosse suo ed alla risposta affermativa feci vedere i frutti allungandole una banconota, lei scosse la testa, ne porsi due, ma rifiutò ancora, facendomi capire che non voleva nulla e mi chiese additandomi: «Deutsch (Doic)?» «Niet. Italianschi, buoni, buoni Italiani». Forse era la prima volta che un militare intendeva pagare.
Finalmente arrivammo a destinazione, scendemmo dalla tradotta in mezzo ad un andirivieni di militari tedeschi e rumeni, ufficiali che urlavano, tradotte cariche di carri armati in procinto di riprendere la marcia verso il fronte, quando l’unico binario rifatto lo avesse permesso. I russi infatti nella loro ritirata avevano distrutto tutti i binari esistenti. Tradotte cariche di prigionieri russi stipati in carri bestiame con inferriate ai finestrini in attesa di partire per i campi di concentramento.
Era Dnepropetrovsk una grande città, anche se mezza distrutta si capiva che era paragonabile alle nostre principali. Salimmo su automezzi italiani, l’attraversammo tutta e fummo portati a quella che prima della guerra era la città universitaria: una decina di nuovi fabbricati con al centro una piazza ed un statua di gesso, siccome mancava mezzo busto noi lo chiamammo "monumento alle mutande".
Il fronte a Dnepropetrovsk si trovava lontano, la vita era relativamente comoda specie per gli ufficiali che, avendo a disposizione un grosso isolato, tutte le domeniche e non solo organizzavano feste da ballo, a cui invitavano una decina di signorine russe. Si mangiavano pasticcini fatti con la razione dei militari, si bevevano bottiglie di liquore, pagando tre o quattro anziani russi che con balalaiche facevano musica. Chi apriva le danze era il colonnello comandante ed in quelle occasioni nessun militare doveva farsi vedere neanche nei paraggi.
Il settimo autoparco era una grossa officina con il compito di riparare gli automezzi danneggiati da eventuali mitragliamenti o che per usura necessitavano di riparazioni. Il mio compito specifico era quello di centralinista telefonico e, siccome avevamo diversi depositi-carburante anche a ridosso della prima linea, io per le varie telefonate che intercettavo fra i comandi, mi rendevo conto dell’andamento delle operazioni al fronte.
La zona universitaria era ai margini della città e dietro di essa fra vari dislivelli del terreno, vi era uno sperone di terra a semicerchio che ad imbuto scendeva ad una piccola vallata. Nel passare osservavo sempre che nel fondo del valloncello la terra era tutta smossa; m’informai dai russi ed essi risposero che i tedeschi lì avevano fucilato decine e decine di civili. Non vi credetti. «I russi» pensavo «cercano di diffamare i nostri alleati».
Non credevo, non potevo credere che a freddo si potessero uccidere civili innocenti: donne, bambini, vecchi. Purtroppo non conoscevo i nazisti!
Si avanzava, dicevano, si pensava che la guerra fosse ormai decisa e che, dopo pochi mesi, si sarebbe tornati a casa. Verso l’autunno tutto il Parcauto fu trasferito, passando per Stalino, a Vorosilovgrad. Non eravamo ancora in prima linea, ma verso Stalingrado si udiva un continuo "brontolio" e di notte si distingueva un chiarore quasi fosse un’aurora boreale.
Là da mesi esisteva l’inferno! Gli ufficiali non fecero più feste da ballo, anche perché ci si trovava al centro della città in una grossa fonderia cui i russi, prima di ritirarsi, avevano lasciato soltanto i muri. Anche se non tutti, molti ufficiali cominciarono a fare incetta di pellicce, ed anche di pacchi-viveri conservabili, da mandare in Italia a casa, anche se con tutti i passaggi militari che dovevano fare, a destinazione probabilmente non sarebbero arrivati mai.
A dicembre furono i russi ad attaccare Stalingrado e sfondarono sul Don. Un pomeriggio il colonnello riunì tutti i componenti del 17° Parcauto e, dopo aver parlato di una piccola infiltrazione nemica, ordinò di scavare delle trincee per costruire una linea di resistenza.
Il freddo era tremendo, una fine neve perlinava in una bufera di vento terribile. In pochi secondi gli occhiali furono pieni di neve, essa penetrava da tutte le parti, occorreva solcare il terreno, ma questo era più duro del cemento. Con quali armi avremmo dovuto poi resistere?
Una colonna di carri armati russi aveva raggiunto Kantemirovka. Uno dei nostri depositi carburanti era lì. Bruciarono tutto, distrussero quanto c’era nei magazzini, poi si ritirarono. Derisi dai tedeschi, gli alpini e bersaglieri a piedi cercavano, nel ritirarsi, di salire sui camions tedeschi, ma ad alcuni vennero pestate le mani, schiacciate le dita, fino a che, mancando la presa, rotolavano sulla pista e venivano investiti dagli automezzi che seguivano.
I russi avanzavano a colonne di carri armati, noi dell’autocentro dovevamo dunque fare una linea di resistenza. Con che cosa? Con carri armati? Nessuno! Con cannoni? Nessuno! Con mortai? Nessuno! Con mitragliatrici? Nessuna! Avevamo armi individuali e basta: moschetto modello 38 che non si distingueva di molto, se non in peggio, dal vecchio modello 1891. Chi faceva l’autista con camion e autocarretta era armato con bandoliera e pistola a tamburo. Poteva resistere ai carri armati?
Arrivò finalmente l’ordine di ritirarsi, i russi non erano arrivati fino a noi, avevano piegato a destra e a sinistra, sentivamo ormai vicine le cannonate, ma riuscimmo a caricare tutto il materiale insieme al macchinario e partimmo da Vorosilovgrad. Noi fummo fortunati perché, essendo dell’autocentro, viaggiavamo su un cassone coperto da un tendone che, da tutte le parti però lasciava entrare la neve, c’erano 40° sotto zero.
Per cinque giorni ci si dava il cambio per mezz’ora o tre quarti d’ora per dormire, poi si veniva svegliati da altri che avevano già dormito il loro turno. Guai a superare quel limite, ci si svegliava che i piedi non si sentivano più, si levavano calze e scarpe e ci si massaggiava con una pasta anticongelante fino a che i piedi cominciavano a far male, segno che la circolazione del sangue aveva ripreso. Certamente furono meno fortunati tutti quelli che, non avendo automezzi, furono obbligati a marciare per chilometri e chilometri nella steppa, ove non esisteva altro che neve.
Io avevo un cugino sul Don e vari amici di Persiceto, ci scrivevamo spesso, illustrandoci a vicenda la situazione in cui ci trovavamo; molti di questi amici, compreso mio cugino, non sono più tornati.
La nostra ritirata ebbe termine in un bosco nei paraggi di Ravarusca a venti chilometri da Leopoli, in Polonia; eravamo isolati in questo bosco e lì rimanemmo fino a marzo, poi fummo rimpatriati.
Facevamo parte di quei pochi italiani rimasti dell’armata italiana in Russia A.R.M.I.R.