Il Parlamento del Regno d'Italia/Liborio Romano
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deputato.
È un nome notissimo, e per noi quello di uomo che ha reso rilevantissimi servigi al paese.
Nato in Napoli ove ha fatti gli studi legali in quella chiara università e laureato in entrambi i dritti, fatte pratiche e divenuto avvocato, non ha tardato a rendersi celebre per la sua scienza e per la sua tacondia.
Sopraggiunsero gli avvenimenti del 1848, e il Romano vi prese parte dei primi, e notevolmente. Ferdinando II, abolita la costituzione, esiliò il Romano come tanti altri.
E il Romano sopportò quanto seppe e potè con forza d’animo quella durissima pena ch’è l’esilio, pena in vero durissima per tutti, ma tanto più dura per un figlio di quella splendida parte di terra che si stende sotto le falde del Vesuvio.
Finalmente egli senti il bisogno irresistibile di rientrare in patria e s’impiegò ad impetrare la propria grazia dal Borbone. Questi l’accordò, dopo essersi alquanto fatto pregare, e il Romano rientrò in Napoli.
Ma non parve più per qualche tempo l’uomo di prima. I suoi antichi amici quasi nol riconoscevano: la sventura sembrava averlo domo. Fors’anco cuoceva al patriotta l’aver dovuto piegarsi a impetrare il fedifrago Borbone, colui che teneva nelle galere i Poerio i Settembrini e gli Spaventa.
Venne il 1860, e Francesco II, il quale al suo salire al trono si era negato a fare le più piccole concessioni ai lungamente oppressi suoi sudditi, quando si vide vicino il pericolo, e qual pericolo! si riscosse; si guardò attorno, e pensò scongiurarlo col concedere quella costituzione che suo bisnonno e suo padre avevano pure concessa in momenti quasi identici e impudentemente violata dappoi.
Nel ministero formato il momento stesso della proclamazione della costituzione, il cadente re dette il portafogli dell’interno a Liborio Romano che non si trasse addietro, ma accettò deliberatamente l’incarico.
E qui subito sursero le critiche contro il Romano, perchè, dicevasi, voleva prestare l’opera sua a sostenere una dinastia la quale non era più possibile riuscisse ad operare una vera e sincera riconciliazione coi popoli che aveva si lungamente tiranneggiati.
Il Romano non si scompose e lasciò dire. Quando Garibaldi sbarcò sul continente napoletano e si mise in via verso Napoli, il Romano gettò la maschera e invitò il generale a recarsi il più presto che potesse nella metropoli, certificandolo che vi sarebbe ricevuto quale liberatore.
Quando si sparse la notizia di questo fatto moltissimi furono gl’increduli; ma finalmente bisognò pure aggiustar fede all’avvenimento una volta compiuto.
Allora si trovò che il Romano aveva agito in modo indegnissimo; si disse ch’egli era un traditore, e si gridò l’anatema sopra di esso.
Ci si permetterà di non giudicare a questo modo le cose e gli uomini.
Noi compatiamo il Romano di non aver potuto sopportare più a lungo l’esilio; non tutti gli uomini possono essere eroi. Noi gli sappiamo apertamente buon grado dell’avere accettato il portafogli dell’interno sportogli dal Borbone, giacchè poteva darsi cadesse in mani che non sapessero o volessero farne l’ottimo uso ch’egli ne fece.
Per noi sta che il Romano entrando in quel ministero, sapeva che gli sarebbe stato concesso di rendere segnalati servigi alla patria italiana, servigi che avrebbero fatto dimenticare la debolezza d’animo da esso mostrata quando consentì ad implorare Ferdinando II.
Noi gli sappiamo poi il miglior grado del mondo di avere francamente e senza la menoma esitazione, fatti i ponti d’oro a Garibaldi, non dovendosi avere grandi scrupoli ad ingannare il discendente di coloro che avevano tanto ingannato, molto più quando s’impiegava quello stratagemma nei più vitali interessi della patria italiana.
È facile scagliare la pietra tanto contro l’uomo che piega nella sventura, ed è anche più facile biasimare una determinazione della natura di quella che il Romano ha avuto il coraggio civile di adottare; ma quando tale determinazione serve a cementare il grande edificio della patria italiana chi di buona fede saprebbe o potrebbe condannarla?