Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Poeti cubisti
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POETI CUBISTI
Quando l’esistenza d’una poesia d’avanguardia è scrupolosamente constatata, il pubblico e i «ben informati» creano un’etichetta: e quando han creato l’etichetta l’attaccano un po’ dappertutto, su ogni brava casacca di poeta nuovo; così avviale che i pittori francesi un po’ iconoclasti, intorno al 1880, fossero detti impressionisti tutti; e che i musicisti bizzarri della Germania — o d’altrove, — su lo scorcio del secolo scorso, passassero tutti per wagneriani; e i poeti nostri venuti a galla dopo il 1912, se muovan braccia e gambe con troppa disinvoltura, non eran dichiarati futuristi dallo Stato Civile?
Tutto questo preambolo serve a mettere in guardia i lettori contro la gente miope e i ben informati così male informati che decretarono esser «cubisti» tutti i poeti francesi d’avanguardia sorti dal 1908 fino al 1920: chè poi giunsero i bravi dadaisti — divenuti oggi surrealisti, — e «dadaista» fu il titolo appioppato ad ogni poeta che usasse forme e colori eccentrici.
L’opinione pubblica dice, ma la critica disdice: così che — tirate le somme — s’è finito per classificar cubisti i tre compagni di miseria Max Jacob, André Salmon, Guillaume Apollinaire, due coetani i quali ebbero dimestichezza con loro. P. A. Birot e Pierre Reverdy (ch’è sempre, fino o nuovo ordine, imperatore onorario dei surrealisti), poi alcuni giovani zampillanti più tardi, Jean Cocteau. Blaise Ceudrars, Paul Morand, P. Drieu La Rochelle, Paul Derniée, Jvan Goll.
L’argomento di cui tratto è tale che meriterebbe un saggio critico di duecento pagine ben ponzate: uno scherzo, come si vede, — uno scherzo di cattivo genere, se avessi il vago desiderio di farlo. Ma sarebbe pur necessario dir qualcosa su la pittura cubistica e su la vita e la sua estetica parallela alla vita e all’estetica della poesia cubista.
L’anno domini 1907, e al numero 13 della Rue Ravignau, in cima a Montmartre, la nascita — pompa — dei primi quadri di Picasso, i primi quadri della nuova maniera, veniente dopo «l’epoca rosa» e «l’epoca turchina»: è li, padrini e testimoni, Max Jacob. Apollinaire Salimon, Mac Orlan; poi la famigerata esposizione di Braque, — divenuto subito adepto della pittura nuova, — ove Matisse, scorgendo tante casette dipinte a forma di cubi geometrici, esclama: «Quel cubisme!» e l’indomani parlan tutti di cubismo: e poi...
Ma questa è cronaca spicciola di poca importanza: Soffici e Papini, che sono italiani vivi e furon testimoni, la conoscon meglio di me.
Il cubismo insegnava: bisogna tornare alle forme primitive, che sono le forme geometriche; il colore sia in funzione della forma; il quadro abbia una sua vita interiore, sia ermetico, non legato all’anima dell’artista da prolungamenti inutili; sia uno spettacolo per lo spirito, e una solida e meditata costruzione dello spirito; digerite la realtà, poi mostratela come la vedete dentro a noi, — e se per questo è necessario scomporre i piani, distrugger quello che non si riflette in noi, modificar la realtà, scomponete, distruggete, modificate; e poi, siccome bisogna dipingere oggetti — e paesaggi e cose e persone — fatti su tre e non su due dimensioni, guardate e rivelate ogni lato dell’oggetto, così che sia resa la visione plastica d’esso; e non v’affidate ai suoni che ingannano, toccate con le vostre mani, palpate, finché sia stimolato e cominci e costruire lo spirito.
Queste le leggi principali, i dogmi: nella sua cella del monastero di St. Benoit-sur-Loire, Max Jacob — il primissimo amico di Picasso, dal 1901 fino ad oggi — mi presentò alcune sue poesie in prosa, scritte nel 1899 e nel 1903, ov’eran già usati i metodi estetici; e le sue Oeuvres mystiques et burlesques de Frère Matorel — poesie in prosa e in verso perfettamente cubiste — furon scritte prima del 1907. Si dimostrerebbe così che la poesia cubista è nata prima della pittura cubista, e che Picasso è stato influenzato da Max Jacob: e questo cominciano a pensarlo parecchi in Francia, che assistono — senza meravigliarsi - all’ascesa sicura di Max Jacob e alla decadenza improvvisa di Picasso. Ma son quisquilie fuor di stagione: importa definir la poesia cubista.
Reazione contro i languidumi, gli isterismi i sentimentalismi dell’ultimo simbolismo; gioco dello spirito, cui la sensibilità è assoggettata e da cui è imbavagliata; l’opera, la poesia è un tutto omogeneo, vivo, collocato solidamente nello spazio e completamente slegato da ancoraggi terrestri, un tutto di cui sarebbe impossibile considerar le parti che appaion prive di senso e di colore; costruzione meditata dell’opera e laboriosa digestione della realtà, — quest’ultima, nello spirito dell’artista, dovendo esser disorganizzata e poi ricostruita secondo le leggi estetiche individuali; e — derivazione da Mallarmé — l’ermetismo o anche il bizzarro per infonder vita più intensa e sua all’opera.
Come quelli che ho citato, per la pittura, questi dogmi per i poeti furono i dogmi dell’estremismo, del cubismo integrale, che ha dato frutti curiosi e intemperanti, ma nulla di grande. L’eccellenza è nata poi, quando si venne ad attenuamenti e a contaminazioni, voluti da un senso di armonia superiore alle scolette e alle teorie, armonia che — presto o tardi — finisce per scaturire in ogni artista di buona tempra..
Cosi che Max Jacob, Apollinaire non sono cubisti, ma poeti, — come Picasso, Braque son pittori e non pittori cubisti. Ma bisogna pur giustificar desistenza dell’etichctte: perciò ora andremo in cerca del cubismo nell’opere dei poeti cubisti.
Cominciamo dai capi, cominciamo da un morto: Apollinaire.
G. A. de Kostrowisky, nato a Roma da madre polacca e da padre ignoto, educato in un collegio del Principato di Monaco, prima dei 25 anni viaggiò per tutta l’Europa, e prima e dopo i 25 anni viaggiò in tutte le biblioteche, in lutti i libri:
«La chair est triste, hélas; et j’ai lu tous les
livres...»
Non fu triste, per Apollinaire, la carne, ma questo verso ci fa ricordar le sue prime poesie, influenzate dal simbolismo e più ancora da Mallarmé, poesie che volevan racchiudere nel verso immensamente polito e miniato — fino a diventar tutto echi, tutto suoni — il narcissismo di moda intorno al 1890. E ancora nell’orfeismo, metodo poetico ch’egli volle lanciare e ch’è — per la poesia — quello che son per la pittura certi quadri di Boccioni, ritroviamo il simbolismo, menato all’esasperazione. Perciò il Cortège d’Orphée e Vitam Infundere Amori, che pur son la parte più lieve del bagaglio poetico di Apollinaire, sono opere preziose: rivelano — ancora incompleto — il volto più interno di quello che è uno dei migliori poeti francesi dei nostri tempi. Volto che — limpido e naturale — scorgiamo negli Alcools, dalla purissima Chanson du mal aimé alle piccole suites renane o a
Zone: poesie ove — pur avendo raggiunto la concretezza poetica ambita — ritornan gli echi di Verlaine: e son come foglie di tenue spessore, sensibilissime ad ogni dolcezza, a ogni malinconia; Apollinaire, maestro nel gioco dei suoni e dei colori, vi appare come epigono del simbolismo. Quando volle straniarsi e dare al cubismo il proprio contributo, scrisse i Calligrammes: schemi poetici rinnovati dal Coup de Dés di Mallarmé, tendenza all’impressionalità, ricerca dell’espressione più plastica; ma i «calligrammi» migliori son quelli miniati dal creatore dell’orfeismo, profumati ed ebbri di musiche, trascorrenti a gocce sottili e lente, lunghe e gaie, come la pioggia di primavera. Che poi egli abbia fatto opera di cubista nella commedia «surrealista» delle Mamelles de Tirésias o nei suoi studii su Les Peintres cubistes, che i suoi libri narrativi a fondo esotico od autobiografico L’Hérésiarque, Le Poète assassiné, La femme assise obbediscan più all’estetica cubista che ad altre, non c’importa: quello che volevamo far notare era il valore non cubista ma simbolista di questo poeta essenzialmente romantico.
Il suo amico delle prime battaglie, Max Jacob, s’oppose con tutta la sua rudezza di brètone e la sua ingegnosità di ebreo al sentimento di Apollinaire; chi ha osservato che il carattere predominante di tutta l’arte moderna francese è l’ebraismo, non ha avuto torto, — perciò senza scrupoli possiamo definire Max Jacob vero poeta cubista e vera anima della reazione anti-simbolista. E’ lui che nella prefazione al Cornet à dés — poesie in prosa scritte dal 1906 al 1914 - spiega per primo l’estetica nuova, e da questa prefazione deriveranno poi tutte le varie espressioni della poesia moderna: in quelle poesie in prosa, e poi in quelle — tutte intese a rappresentare intellettualmente l’inferno — delle Visions Infernales, nei Versi del Laboratorie Central e dei Pénitents en maillot rose, troviamo, dense come frutti e dure sostanziose palpabili, liriche in cui — senza espressione di sentimenti — si cerca, per mezzo di un’attenta costruzione delle frasi, di piazzar nello spazio la poesia e dare ad essa una realtà intrinseca completamente priva di legami con l’autore. Un’arte tutta intellettuale dunque, cerchiale e — attraverso la sua legge di concretezza — gettata sur un piano d’astrazione pericoloso: arte verso cui occorre volgersi con lo spirito, senza permetter che l’istinto si ribelli dinanzi ad un ermetismo logico e coerente alle nuove leggi estetiche.
Ora potrebbe sembrar che — passando dalla poesia alla prosa — Max Jacob abbia imitato il tono, abbia scelto come argomento la realtà nuda, fuor da ogni astrazione: ma sarebbe errato, poiché sia nel Phanérogame, romanzetto buffonesco che ricorda Jarry, in cui la caricatura alla Swift, rinnovata e meglio polita, era costruita secondo i metodi cubisti, — sia nei personaggi pieni di vita del Cinématoma, di Filibuth, de L’homme de Chair, scorgiamo i particolari estetici che mostra la sostanza intellettuale di questo scrittore: sostanza cui è inutile opporre le spietate confessioni della Défense de Tartuffe o le parodie di La Côté; che anch’esse concorrono a individuar meglio il volto del «poeta-clown» del «poeta cinematografico», — com’è stato chiamato, - che ha saputo crear nuovi schemi poetici e narrativi, derivati dal cubismo, arte della concretezza e dell’intelligenza.
Cubista è stato detto anche A. Salmon, forse perchè ne’ suoi libri di critica su La Jeune Peinture française e su L’art vivant ha difeso i pittori cubisti, e perchè in alcune interviste ha dichiarato esser litori cubisti i suoi romanzi Le Manuscrit trouvé dans une Bouteille e Les Archives du club des Onze. E invece dalle sue imaginose poesie delle Féeries e diLe Calumet esce l'imagine d'un poeta sedotto dall'abilità parnasiana e dai narcisismi simbolisti, ma che più esattamente si ricollega a certi romantici del 1830, dandies e spregiudicati; per questo romanticismo egli s'è volto poi verso le Tendres Canailles e i Monstres Choisis, verso l’epopea provinciale dell’Entrepreneur d'illuminations. Che egli dopo — nell’affresco sanguinoso della Rivoluzione Russa manité, in Peindre, nel Saint André, altri poemi nati da un’equilibrata rivalutazione delle essenze vitali — abbia adottato espressioni e imagini di nuovo stampo non vale a farlo partecipare a un gruppo poetico con cui poco o nulla egli ha in comune.
Meglio si può giustificar la qualifica di cubista appioppata a Reverdy; come quella di surrealista, cascatagli addosso ultimamente; e si potrebbe — con eguale esattezza scoprir ch’egli è simbolista, romantico, futurista o totemista. Un poeta sul serio è in qualche modo un vocabolario di «ismi», — Reverdy è poeta sul serio. Si ritrova in lui l’influenza di Max Jacob, — specie nelle poesie in prosa, — di Apollinaire, per certi tentativi ritmici e musicali, ma meglio ancora come un’eco di Maeterlinek e dei poeti del Belgio, «crepuscolari» ma privi di vaghe ironie, di Van Cerberghe per esempio. Le poesie riunite nelle Epaves du ciel sono, assai spesso, intonsi sguardi dell’anima su sè stessa o negli abissi, modulazioni d’una voce sicura e quasi stupita di cose che ha visto e non vuol ripetere: però manca toro la plasticità, la pienezza, quell’ermetismo di vita che sono in ogni pagina di Max Jacob e in tutte le opere veramente cubiste.
Accanto a questi poeti e acanto a P. A. Birot, loro coetaneo, delicato e bislacco in Triloterie, poi destramente misterioso in Cinéma, discepolo preciso dei maestri cubisti attratto però dallo spettacolo dell’universo e quindi tendente verso il futurismo e la poesia sociale e scientifica di N. Beanduin, l’epigono di René Bhil, — accanto a questi vennero su i giovani, guidati da Jean Cocteau. S’è detto ch’egli fosse un altro camaleonte, che tutte le teorie nuove lo seducessero e gli facessero mutar casacca: è falso, poiché una sola ambizione l’ha scosso e convertito, l’ambizione d’essere poeta vivo e nuovo. Sottilissimo indagatore egli ha mostrato in Carte Blanche, nel Secret Professionnel, tutti gli aspetti della verità sua, ch’è la verità di Max Jacob e di Picasso: fine e non solido, sostanzioso come il primo, delicato e non rude, sicuro come il secondo, inoltre ancora lontano dalla maturità artistica, non potè offrire — nel Vocabulaire, in Poësies, nel Cap de Bonne Espérance — una poesia tagliala a linee nette, ma solo alcuni risultati che mostran buon sangue. Eppure non è errato ascriverlo fra i cubisti, chè tale lo mostran non già Le grand écart e Thomas l’imposteur, romanzi appassionati ma non ancor puri, ma i suoi tentativi teatrali, da Le Boeuf sur le Toit e da Les Mariés de la Tour Eiffel altre traduzioni in un atto dell’Antigone di Sofocle e del Romeo e Giulietta di Shakespeare, tentativi che derivano — in un certo senso — dalla prefazione preposta da Apollinaire a Les Mamelles de Tirésias e mirano a instaurare un teatro poetico, in cui la poesia nasca dal gioco teatrale e sia riposta sostanzialmente in esso, e non sia più componimento lirico o epico declamato sur un palcoscenico, mentre potrebbe esser declamato, altrettanto bene, altrove: poesia di teatro, non più poesia a teatro.
Assieme a lui altri giovani hanno adottato la tecnica e gli ideali cubisti, volgendosi però verso la descrizione lirica del nuovo universo e delle nuove reazioni che animan l’universo, e per quanto ancora — per così dire — lontani dalla maturità, già celebrati: e tutti sentono l’influenza lirica di Max Jacob, in particolar modo quelli che l’erotismo attrae, come Cendrars e Morand: il primo attento allo spettacolo di Le Monde Entier di cui mostra a suo modo, gli aspetti primitivi in Kodak, il secondo, nelle Camps à arc e in Feuilles de Température, interessandosi specialmente a quei fatti politici e umani che sono anche argomento delle sue novelle di Ouvert la Nuit e di Fermé la Nuit: mentre gli atri, — Drien La Rochelle che s'appassiona pe' problemi morali e sociali della Francia, nel dopoguerra, e li pesa in Fond de Cantoine, in Mesure de la France; Paul Dervée, spettatore mai attonito e mai sazio, le cui Films e le cui Spirales riescon spesso nel loro intento di far sentire pienamente la disorganizzazione del mondo di oggi; Ivan Goll, introduttore — in Francia — dell'espressionismo e poeta fantasmagorico dell'epopea umana di Charlot, — più racchiusi in loro stessi e nel loro sentire, sfuggon meglio alle imitazioni.
Siamo alla fine, ma il quadro non è completo: non perchè ci sian da rimpianger le opinioni dei poetucoli, ma perché non abbiamo accennato a un cubista di ottima tempra, a Mac Orlan, l’avventuroso romanziere del Chant de l’Equipage e della Vénus Internationale: le sue poesie de L'inflation Sentimentale e di Simone de Monmartre han rivelato che questo compagno di scapigliatura dei cubisti, scrisse sempre, fin dai primi libri, secondo l'estetica di Max Jacob e di Picasso. Ecco un buon soggetto per un articolo: il cubismo di Mac Orlan.
Affermano che il cubismo è ritorno al classicismo, reazione contro il romanticismo, perchè impone le briglie al sentimento: cubismo e classicismo sembrano due cose che cozzan fra di loro, e si protesta. Ma Einstein non sarà venuto al mondo inutilmente: il cubismo è un classicismo a quattro dimensioni, come i primitivi eran classici a due dimensioni.
Nino Frank.