Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Il bergsonismo

Santino Caramella

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I critici I Ragionamenti di Alano
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IL BERGSONISMO

La fortuna del bergsonismo è stata, ed è, diversa dalle forme consuete di vitalità e di diffusione delle dottrine filosofiche. Non gli è accaduto di trionfare clamorosamente e di dominare un’epoca, per cadere poi nell’oblio ad aspettare una lontana restaurazione; non di essere combattuto e deriso in sul nascere, e conquistare in seguito faticosamente la sua posizione culturale: ma accolto con largo interesse e moderato entusiasmo dai cultori della filosofia, si è appoggiato per lungo tempo sui plausi letterari e salottieri, mentre veniva compiendo una penetrazione di cui ora soltanto si possono apprezzare le conseguenze e i risultati. Come un perfetto signore, che si avanza tra gli invitati senza disturbarsi troppo, raccogliendo e ricambiando saluti e inchini: ma poi a un certo punto la conversazione prende un certo giro per cui tutti s’accorgono che il padrone è lui.

Tale similitudine non parrebbe attagliarsi troppo al carattere romantico e mistico della dottrina bergsoniana: ma culturalmente e storicamente essa ha proceduto con scarsa romanticità, rivestendo le sue movenze di equilibrio e di misura. Perciò soltanto oggi essa rende positivamente i suoi frutti, e appare consustanziata con una corrente generatrice di opere. Il che non si poteva certo affermare della «scuola» bergsoniana, quella che si formò subito intorno al maestro. Uomini intelligenti e fini come Le Roy, o appassionati come Gillouin e Grandjean, poterono sviluppare conseguenze particolari, impostare difese apologetiche, ma non pervennero ad attuare la vitalità del sistema. Anche quando, come nella critica religiosa di Le Roy e di Remanche, abbiamo per opera loro un certo ampliamento degli orizzonti bergsoniani, ciò avviene solo per la riconosciuta identità di taluni aspetti del bergsonismo con aspetti di talune correnti sincrone (pragmatismo, modernismo, Blondel) e per la conseguente e reciproca commistione di queste con quello. L’unica personalità originale della «scuola»; in cui il maestro abbia trovato un libero continuatore, è a mio divedere J. Segond: che si è da una parte appigliato al valore mistico della intuition e della durée réelle e in tal senso ne ha svolto tutto il significato, dall’altra ha rifatto, nel libro sull’Imagination, la gnoseologia bergsoniana accentuandone le affermazioni libertarie e saldandone accuratamente le incrinature. Ma le conclusioni degli studi di Segond, e anche degli ultimi, palesano una così vaga vaporosità e indeterminatezza che non si può mai precisare quale vantaggio sia da esse acquistato sul punto di partenza. Di tutti i bergsoniani della prima ora, fece del resto giustizia, a suo tempo, la caustica ironia del Benda.

Vantaggio positivo è stato invece, per il bergsonismo, questo: che nell’ultimo decennio si sono andati man mano sfaldando e disperdendo tutti gli indirizzi e i sistemi con cui si era imparentato in sul nascere e che aveva assorbiti nella sua potente costruzione: intuizionismo, neokantismo, pragmatismo, empirismo radicale, empirio criticismo, contingentismo, la reazione contro la scienza, hanno perduto cioè la loro fisionomia di posizioni sistematiche e sono diventati categorie di pensiero in quanto avevano in sè di positivo, sono caduti nel passato in quanto negavano o cristallizzavano. Svanitagli questa nebbia d’intorno, il bergsonismo è apparso nella sua intima verità, come il più vasto e profondo tentativo contemporaneo di interpretare la «qualità» del divenire: chè tale fu il suo problema originario e tale rimase la sua esigenza centrale. Un’esigenza che noi, rimasti fissi alla mira dell’opposto problema dell’unità, siamo in grado, o almeno dovremmo essere, di apprezzare come il necessario complemento del nostro idealismo.

E secondo questa esigenza Bergson è stato progressivamente inteso e assimilato nella cultura francese dell’ultimo decennio. Egli le offriva del resto non solo il nuovo punto di vista, ma la nuova sistemazione su cui riformare i vecchi schemi filosofici, psicologici, fisiologici sui quali essa ha sempre amato appoggiarsi dal giorno che uno stesso spirito razionalistico si manifestò in Corneille e in Descartes. Il romanzo, la critica e la stessa poesia francese hanno sempre avuto sete di idee, di dottrine e di scienza: e la storia del pensiero ha tagliato nel loro svolgimento delle sezioni non inferiori per importanza, anche se non sempre identiche, ai momenti di autonomo sviluppo. Così oggi possiamo distinguere le generazioni a seconda che hanno o non hanno sentito Bergson: la generazione di Bourget, per esempio, che continua a insistere sopra le «tesi» fisiopsichiche di cinquant’anni fa e ci ha rifritto recentemente la teoria del suicidio ereditario, e la generazione di Proust, che affonda in Matière et Mémoire le radici della sua psicologia. E poi Bergson, trascendendo lo stesso simbolismo, ha posto le basi della reazione novecentesca all’antico e angusto idolo cartesiano della raison, dell’ordre, della clarté: ha dato una visione della vita in cui lampeggia, come tra nubi arrossate dal sole, una nuova coscienza umana. Il suo stesso stile di scrittore, immaginoso e fervido, non mai dimentico della necessità di intuire originalmente prima di modellare i contorni dell’espressione, lo ha reso immediatamente signore di un vasto campo della letteratura francese contemporanea.

Ho nominato Marcel Proust: la cui psicologia basterebbe a farne un grande scrittore, ed è certo tra i suoi massimi pregi, Proust si è assimilato l’Essai sur les données immédiates de la conscience, Matiére et Mémoire, Le Rire, in succo e sangue, ne ha elaborato le esperienze spirituali, le ha sublimate in un suo piano di vita e d’arte dove il bergsonismo è una cosa sola con l’atteggiamento creativo del poeta. Le inflessioni della realtà fenomenica vi si dissolvono in una liquida, fluida corrente di soggettività, ora aurorale ora crepuscolare; e se il valore del bergsonismo sta nello sforzo di conservare la conseguita intuizione del puro divenire, niente di più bergsoniano che il ciclo immenso per cui si smuove À la recherche du temps perdu. C’è anzi un crescendo del bergsonismo stesso, nella vasta tela, che si accompagna con la progrediente sua depurazione. In Du côté de chez Swann abbiamo ancora la pragmatistica impostazione del souvenir, le estasi solitarie innanzi a un tono, a una sfumatura; le tormentose dissezioni di stati di coscienza per strapparne il cuore vibrante per trovarselo poi tra mano immobile e quasi morto: la ricerca dell’espressione qualitativa dell’indefinito e dell’inespresso imprime a quelle pagine una oscillazione continua di assopita tragedia dell’arte, quasi a creare un’adeguazione spesso sconcertante tra la nevropatia del protagonista e le nevrosi dello stile. La seconda parte (Un amour de Mr. Swann) mostra però l’artista già intento alla percezione dei limiti e alle individuazioni: la sua visione si concentra in un punto, si irrora delle tonalità nitide e taglienti di un sentimento solo (la gelosia), intorno a cui lascia tremolare, iridescenti e cupe, tutte le altre. À l’ombre des jeunes filles en fleurs e Du côté des Guermantes pervengono per questa via a riconcentrare nel mondo attuale e positivo dell’esperienza le realtà mistiche cercate nell’atmosfera evanescente del sogno: e il mondo del souvenir si compenetra col mondo dell’action, anzi sono, per reciproca identificazione, lo stesso mondo. (Mentre poi Sodome et Gomorrhe rovescia, ma vanamente, il problema, e tenta di ricostruire il sogno attraverso la lucidità della veglia, tenta di raffermare lo spirito attraverso la sensualità bruta e perversa). Chè se inoltre volessimo esemplificare, tutta l’opera dell’infedele discepolo di Anatole France ci offrirebbe una collana di singoli delicati commenti a temi bergsoniani: così il bozzetto sulla «tante Léonie» il ritratto «Bergotte», Noms de pays, etc.

Albert Thibaudet, d’altra parte, ci dà la coscienza critica di questo Bergsonisme diffuso: e ne ha curato in due bei volumi la manifestazione sistematica. «Ayant essayé de saisir le sens intérieur de cette philosophie, m’étant habitué à prolonger en elle et par elle l’élan vital de la philophie humaine, je me suis placé non au point de vue du bergsonisme, mais au point de vue de l’élan vital du bergsonisme en tant qu’il continue l’élan vital de la philosophie». E ha cercato di muoversi dialogando interiormente col suo Bergson, poiché sempre filosofare è dialogare. «Philosopher c’est s’approcher de ce dialogue perpetuel, écouter, reflechir, parler, noter, savoir qu’après nous il se continuera sur un régistre plus haut encore, mais qu’aucun des moments l’emporte en dignité sur ce tout unique qu’est sa courbe indivisible, et souple, et lente, — c’est-à-dire sur sa durée». Così degna epigrafe non trova forse altrettanto degno svolgimento: poiché il Thibaudet, abile interprete e sottile scopritore di rapporti storici, non è poi troppo à son aise quando vuol ricostruire «le monde qui dure», e quando non nasconde la sua buona volontà di «superare» il maestro proprio sul suo stesso terreno speculativo. Allora si rivela una certa incomprensione dei valori metafisici a cui Bergson ha sempre mirato, e una parallela propensione a restare sul terreno della quotidiana esperienza. Non a torto quindi i giovani bergsoniani «pamphlétaires» lo hanno attaccato con ferocia: non a torto quando si tenga presente questo difetto che i più seri tra di essi hanno saputo anche precisare in modo positivo. E’ accaduto al Thibaudet di incorrere nell’errore opposto a quello di cui possono tacciarsi molti critici nostrani: come questi hanno letto Matière et Mémoire e L’Evolution créatrice dimenticando rispettivamente che uscivano dalla stessa penna che aveva vergato il soggettivistico Essai e l’Introduzione alla Metafisica, così egli ha ripensato l’Essai e Matière et Mémoire senza ricordarsi, nei momenti difficili, che in fondo alla strada c’era una metafisica e questa metafisica ha reinvoluta nella psicologia da cui nacque. Ma non si può negare al Thibaudet che egli abbia trafuso nelle arterie nutrici della sua splendida attività di critico letterario la migliore essenza del bergsonismo.

I «giovani» testé citati si vanno facendo, intanto, assai numerosi: molto più numerosi che non siano stati in addietro. Essi documentano in larga misura la vitalità del pensiero di Bergson nelle nuove generazioni. Hanno un loro organo Philosophie, in cui tendono la mano al «surrealismo» da un lato, al neosimbolismo dall’altro. Alcuni di essi, come Jean Weber, si atteggiano a più bergsoniani di Bergson: e affermano che la forza della dottrina bergsoniana si trova tutta nell’Essai sur les données immédiates de la conscience, dopo il quale essa si sarebbe attenuata man mano per eccesso di «subtilité». Altri, più lucidamente, come Edgard Forti, chiariscono che bisognerebbe mantenersi in seno alla durée conquistata dall’intuizione, e operare così la sintesi di psicologia e metafisica a cui tende tutto il pensiero francese da Jules Lachelier in poi. Abbondano tra loro i poeti, molto affaticati a sondare nuove immagini nelle sfruttate profondità dello spirito: anticlassici, anti «Nouvelle Revue française». Disprezzano Thibaudet, ho detto, e un po’ anche Paul Valéry. Proust è un po’ il loro dio; includono, e con qualche diritto, nel loro movimento il povero Radiguet. Ma sarà il caso di riparlare di questo movimento giovanile, molto più diffuso e fervente che ancora pubblicamente non si dimostri, quando sarà meglio sbocciato: per ora è bene notare che Paul Morand e Max Jacob l’hanno in qualche modo tenuto a battesimo, che a Marcel Schwob esso si volge con entusiasmo, e che in generale tende a passare in testa alla stessa avanguardia. Tanto per avviso al canocchiale aristotelico dei cronisti letterari.

Una breve appendice su Paul Valéry: o meglio su «Eupalinos ou l’Architecte, précédé (o «suivi», a seconda delle edizioni) de «L’Ame et la dance». Oserei indicarvi un riflesso costante di onde bergsoniane, che vengono a far vibrare un vitreo diapason neoclassico. Si danza, filosoficamente parlando, molto e molto: il turbinio delle idee, dentro la levigata politezza del dialogo ellenicizzante, trascina di balza in balza dietro inafferrabili soluzioni con una mobilità che trova l’uguale soltanto nella irrequietudine mal repressa dell’espressione. Ma là dove è possibile individuare dei punti d’arresto si scoprono sottili legami con la filosofia della durée; dica il Valéry che l’anima vive nel ricordo e il corpo invece nell’azione, quella chiusa intellettualmente nel passato e nell’«agito», questo proteso nell’attimo fuggente del movimento, — o c’insegni per la divina bocca di Socrate e per le efebiche labbra di Fedro che l’ordine umano si oppone all’ordine della natura come lo spirito alla materia e l’élan vital alla sua inversione, sì che l’uno può esser per l’altro il disordine, e viceversa, — o insista sull’unione del corpo-strumento con l’opera prodotta: senza esitare apriamo Matière et Mémoire e L’Evolution créatrice, e troviamo i paragrafi corrispondenti e perfino i diagrammi. Il che non significa soltanto determinazione di fonti, ma scoperta non equivoca di un ingegnoso contrabbando.

Santino Caramella.