I ricordi d'Augusto Bedloe
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I RICORDI D’AUGUSTO BEDLOE
Quando io mi trovavo a Charlottesville, nella Virginia, sul finire dell’anno 1827, per caso conobbi il signor Augusto Bedloe. Questo giovine gentiluomo era notevole per tutti i riguardi ed eccitava in me un’immensa curiosità ed un profondo interesse. Mi parve impossibile di rendermi conto interamente del suo essere tanto fisico che morale: e non potei ottenere nessuna positiva informazione sulla sua famiglia.
Donde veniva? Io non l’ho saputo mai. Anche la sua età, quantunque io abbia detto che era un giovine gentiluomo, m’appariva in una maniera che m’imbarazzava infinitamente.
Certamente egli era giovane ed anche affettava di parlare della sua gioventù; tuttavia v’erano dei momenti in cui non avrei esitato a supporre ch’egli avesse un centinaio d’anni.
Ma era sopratutto il suo esteriore ciò che in lui aveva un aspetto eminentemente particolare.
Egli era alto e sottile, in una maniera straordinaria; alquanto curvo; di membra eccessivamente lunghe ed emaciate; la fronte larga e bassa; una complessione assolutamente esangue; e nella bocca larga e flessibile i denti sani ma tanto irregolari che io non ne ho mai veduti di simili in nessuna bocca umana.
Tuttavia l’espressione del suo sorriso non era come si potrebbe supporre affatto sgradevole; ma non aveva nessuna specie di smorzature: era d’una profonda melanconia, d’una grande tristezza senza fasi e senza intermittenze. I suoi occhi erano d’una larghezza anormale e rotondi come quelli d’un gatto: e le stesse pupille subivano una contrazione ed una dilatazione, proprio come si è osservato nelle razze feline secondo che cresceva o diminuiva la luce. Nei momenti d’eccitazione le pupille diventavano brillanti a un grado quasi inconcepibile e sembravano sprizzare raggi luminosi di una luce non riflessa ma intensa, come emessi da una fiamma o dal sole; tuttavia abitualmente esse erano talmente cupe, immobili e nuvolose da far pensare agli occhi d’un cadavere da lungo tempo sepolto.
Queste particolarità della sua persona gli cagionavano, a quanto pareva, molta noia, ed egli vi faceva continuamente allusione in uno stile semi-esplicativo, semi-giustificativo, che la prima volta che lo intesi mi produsse una penosa impressione.
Tuttavia ben presto mi vi abituai e il mio fastidio si dissipò.
Pareva ch’egli avesse l’intenzione d’insinuare, anzichè positivamente affermare, come fisicamente egli non fosse stato sempre così; come una lunga serie d’attacchi nevralgici avessero ridotto in quello stato la sua non comune bellezza. Da parecchi anni egli era curato da un medico, certo Templeton — un vecchio gentiluomo di circa 70 anni — ch’egli per la prima volta aveva incontrato a Saratoga e le cui cure gli fecero, o almeno parve gli facessero, un gran bene. Il risultato ne fu che Bedloe essendo ricchissimo combinò col dottor Templeton che questi consacrasse esclusivamente il suo tempo e la sua esperienza medica a curar la sua malattia dietro una generosa rimunerazione annua.
Il dottor Templeton in gioventù aveva molto viaggiato ed a Parigi era diventato uno dei più ardenti seguaci delle dottrine di Mesmer. Ed era solo col mezzo di rimedi magnetici che egli era riuscito a calmare gli acuti dolori del suo malato: il qual successo aveva naturalmente ispirato a quest’ultimo una certa confidenza nei concetti che servivan di base a tali rimedi; inoltre il dottore, come tutti gli entusiasti, aveva fatto di tutto per ridurre il suo pupillo a un perfetto proselite e tanto bene vi riuscì che decise il paziente a sottomettersi a numerosissime esperienze. Le quali ripetute con frequenza hanno dato un risultato da lungo tempo diventato comunissimo e tale da non attirare che punto o poco la nostra attenzione, ma che all’epoca in cui parlo era rarissimo. Intendo dire che fra il dottor Templeton e Bedloe, a poco a poco, s’era formato un rapporto magnetico molto netto ed accentuatissimo.
Non ho certo l’intenzione d’affermare che un tal rapporto passasse i limiti della potenza sonnifera; ma questa stessa potenza aveva raggiunto un grado d’immensa intensità. Al primo tentativo fatto per produrre il sonno magnetico il discepolo di Mesmer fece un fiasco completo. Al quinto o al sesto egli non vi riuscì che molto imperfettamente e dopo una quantità di sforzi ostinati. Il trionfo non fu completo che al dodicesimo; dopo il quale la volontà del paziente rapidamente soccombette sotto quella del medico, tanto che, quando io li conobbi la prima volta, il sonno arrivava quasi istantaneamente per un solo atto di volontà dell’operatore, anche quando il malato non aveva coscienza della presenza di lui, ed è solo ora, quando simili miracoli sono stati quotidianamente attestati da migliaia d’uomini, che io mi azzardo a riferire come un fatto positivo quest’apparente impossibilità.
Il temperamento di Bedloe era sensibile, eccitabile ed entusiasta al più alto grado. La sua immaginazione straordinariamente piena di vigore e di forza creatrice era senza dubbio corroborata dall’uso abituale dell’oppio che egli consumava in gran quantità e senza di che la vita gli sarebbe parsa impossibile. Era abituato a prenderne ogni mattina una forte dose subito dopo la sua colazione, o per meglio dire, subito dopo una tazza di caffè forte, imperocchè egli non mangiava nulla prima di mezzogiorno; e allora egli usciva solo o accompagnato da un cane per fare una lunga passeggiata traverso alla catena di selvaggie e lugubri alture che corrono dall’ovest al sud di Charlottesville e che qui hanno il nome di Ragged Mountains.
In un giorno scuro, caldo e nebbioso della fine di novembre, durante quello strano intervallo fra una stagione e l’altra, che in America si chiama l’estate indiana, Bedloe partì secondo il suo costume per la montagna. Il giorno tramontò ed egli non ritornò.
Seriamente allarmati da questa prolungata assenza, verso le otto di sera stavamo per metterci alla sua ricerca, quando egli ricomparve inaspettatamente, nell’aspetto alquanto più animato del solito. Il racconto ch’egli fece della sua spedizione e degli avvenimenti che lo avevano fatto ritardare fu veramente una narrazione delle più singolari:
— Vi ricordate — egli disse — che erano circa le 9 quando lasciai Charlottesville. Mi diressi subito verso la montagna e alle dieci circa penetrai in una gola che per me era assolutamente nuova. Con molto interesse seguii tutte le sinuosità di quel passaggio. La scena che da ogni lato si presentava, pur non meritando l’appellativo di sublime, aveva in sè un carattere indescrivibile e per me delizioso, pieno di una lugubre desolazione. La solitudine pareva assolutamente vergine. Io non potevo fare a meno di credere che quei prati verdi e che quelle roccie grigie non fossero state mai toccate da piede umano. L’entrata del burrone è tanto completamente nascosta e inaccessibile — se non traverso a una serie di viottoli — che non era certo impossibile che io fossi il primo e il solo uomo che avesse mai ardito di avventurarsi in quelle solitudini.
«La nebbia fitta e singolare che distingue l’estate indiana e che allora come un fumo si distendeva su tutte quante le cose, approfondiva senza dubbio le impressioni vaghe che esse suscitavano nell’animo mio. Quella nebbia poetica era così densa che io non potevo vedere a una grande distanza dinnanzi a me. La via era eccessivamente sinuosa, ed essendo impossibile di vedere il sole, avevo perduto ogni idea della direzione verso cui camminavo. Tuttavia l’oppio aveva prodotto il suo solito effetto di rivestire tutte quante le cose del mondo esterno d’un interesse intenso. Nel tremolìo d’una foglia, nel colore d’un filo d’erba, nella forma d’un trifoglio, nel ronzio d’un ape, nel luccichio d’una goccia di rugiada, nel sospiro del vento, nei vaghi odori emananti dalla foresta, sorgeva tutto un mondo d’ispirazioni, una magnifica e non interrotta processione di rapsodici disordinati pensieri.
«Tutto preso in quei sogni, camminai per parecchie ore, mentre la nebbia s’infittiva intorno a me a un punto tale che io fui ridotto a cercar la strada a tentoni. Allora un indefinibile malessere s’impadronì di me, una specie di tremito e d’irritazione nervosa. Temevo d’avanzare per paura di cadere in qualche abisso. Mi vennero in mente le strane storie di quelle Ragged Mountains, e degli uomini bizzarri e selvaggi che abitano i loro boschi e le loro caverne. Mille vaghi pensieri mi passavano e mi sconcertavano addolorandomi. Ad un tratto la mia attenzione fu fermata da un forte rullo di tamburo.
«Naturalmente il mio stupore fu immenso, in quelle montagne un tamburo era una cosa sconosciuta. Non sarei stato più sorpreso se avessi inteso il suono della tromba dell’Arcangelo, ma una nuova ed anche più straordinaria causa d’interesse e di perplessità venne a manifestarsi. Intesi avvicinarsi un rumore selvaggio come il tintinnio d’un grosso mazzo di chiavi, e nel tempo stesso un uomo a metà nudo, dal viso scuro, passò dinanzi a me gettando un acuto grido; e mi passò tanto vicino che io intesi sul volto il calore del suo respiro. In una mano teneva un istrumento fatto da una serie di anelli di ferro che nel correre andava scuotendo vigorosamente. Non era ancora scomparso nella nebbia, quando un’enorme bestia colla gola spalancata e gli occhi fiammeggianti si slanciò alenante dietro di lui. Non potevo ingannarmi sulla specie di essa; era una iena.
«La vista di quel mostro invece d’aumentare sollevò il mio terrore; imperocchè ora ero ben sicuro di sognare, ed io mi sforzai a ridestare la mia coscienza. Procedetti deliberatamente e con prestezza davanti a me. Mi stropicciai gli occhi. Gridai ad alta voce. Mi pizzicai le carni. Trovata una piccola sorgente, mi fermai e mi bagnai le mani, la testa ed il collo. Credetti di sentir dissipare le sensazioni equivoche che mi avevano fin allora tormentato. Quando mi sollevai, mi parve d’essere un altr’uomo e con fermezza ed anche con piacere proseguii per lo sconosciuto sentiero.
«Finalmente spossato dall’esercizio e dall’eccessiva pesantezza dell’atmosfera mi sedetti sotto a un albero. In quel momento apparve un debole raggio di sole e l’ombra delle foglie dell’albero cadde sul prato, leggermente, ma sufficientemente disegnata. Per qualche minuto osservai quell’ombra con stupore. La sua forma mi riempiva di meraviglia. Alzai gli occhi: l’albero era un palmizio.
«Mi alzai precipitosamente, e in uno stato di terribile agitazione, imperocchè l’idea che io sognavo ora non mi era più sufficiente. Vidi ed intesi che avevo la più assoluta padronanza dei miei sensi e, per mezzo di essi, giungevano all’anima mia una quantità di sensazioni nuove e singolari. Ad un tratto il calore diventò insopportabile. La brezza si caricò d’uno strano effluvio. Un mormorio continuo e profondo come quello che si eleva da un abbondante corso d’acqua regolarmente scorrente, giunse fino alle mie orecchie, mescolato a un particolare rumorio come d’una moltitudine di voci umane.
«Mentre io ascoltava con uno stupore che ora è inutile vi descriva, un forte e rapido colpo di vento fece sparire, come la bacchetta d’un mago, la nebbia che opprimeva la terra.
«E mi trovai ai piedi di un’alta montagna dominante una vasta pianura, traverso a cui scendeva maestosamente un fiume, sulla cui riva s’alzava una città d’aspetto orientale, di quelle che si trovano descritte nelle Mille e una notte, ma d’un carattere ancora più singolare di esse. Dal posto mio che era molto di sopra al livello della città, potevo scorgere tutti gli angoli e tutti i cantoni, come se fossero stati disegnati sulla carta. Le strade apparivano innumerevoli e s’incrociavano irregolarmente in tutti i sensi, ma somigliavano più a lunghi viali che a strade comuni e formicolavano di gente. Le case erano molto pittoresche: da ogni lato era una vera fiera di balconi e di verande, di minareti e di nicchie e di torricelle fantasticamente intagliate. I bazar abbondavano: le più ricche mercanzie v’erano esposte con una varietà ed una profusione infinita: seterie, mussoline, scintillante cortelleria, diamanti e gioielli meravigliosi. Di lato a tali cose, si vedevan da ogni parte padiglioni e palanchini e lettighe in cui erano sdraiate bellissime signore accuratamente velate, e poi elefanti fastosamente arredati, idoli grottescamente tagliati, tamburi, bandiere e gonghi, lancie e mazze dorate e argentate. E in mezzo alla folla, al clamore e alla confusione generale, in mezzo a un milione di uomini neri e gialli, in veste e turbante, dalla barba diffusa, circolava una moltitudine immensa di buoi dorati, ornati di nastri, mentre una legione di sudicie scimmie sacre si arrampicava, gridando e motteggiando, per le cornici delle moschee o pendeva giù dalle torri e dai minareti. Dalle vie formicolanti, alle rive del fiume, scendevano scale innumerevoli che conducevano ai bagni; e pareva che le stesse acque del fiume con gran fatica riuscissero a trovare un passaggio fra le numerose flotte di bastimenti sopraccarichi di mercanzie, che scorrevano in tutti i sensi sulla loro superficie. Di là dalle mura della città, si elevavano frequentamente in gruppi maestosi, palmizi ed alberi di cocco con altri alberi vecchissimi, giganteschi e solenni: e qua e là si poteva vedere un campo coltivato a riso, la capanna di paglia d’un contadino, una cisterna, un tempio isolato, un accampamento di zingari o una graziosa ragazza che, soletta, seguiva la sua strada con una brocca elevata sul capo, diretta verso le rive del magnifico fiume.
«Ora certo voi direte che io sognavo: ma non è vero affatto.
«Ciò che vedevo, ciò che sentivo, ciò che intendevo, ciò che pensavo, non aveva nulla in sè dell’idiosincrasia non riconoscibile del sogno. Tutto logicamente reggevasi ed aveva un corpo. Dapprima, dubitando d’essere realmente desto, mi sottoposi a una serie di prove che ben presto mi convinsero che io realmente lo era. Ora quando noi sognamo e nel nostro sogno supponiamo di sognare, il nostro sospetto ha subito una conferma, poichè immediatamente ci ridestiamo. Perciò Novalis non s’inganna asserendo che noi siamo vicini al momento di ridestarci, quando sognamo di sognare. Se la visione si fosse a me offerta come io la descrivo, senza che io sospettassi d’essere in stato sonnambolico, forse allora avrebbe potuto trattarsi d’un semplice sogno; ma essendomisi presentata come ho detto ed avendola sospettata e verificata come io feci, son costretto a metterla nel novero dei fenomeni d’un altro genere.
— In ciò non dico che voi abbiate torto — osservò il dottor Templeton — ma ora proseguite: voi vi alzaste e discendeste nella città...
E Bedloe con un’aria di meraviglia profonda, guardando il dottore, continuò: — Io mi alzai, come voi dite, e discesi nella città. Strada facendo, mi trovai in mezzo ad un’immensa popolazione che ingombrava ogni via e che andava tutta per lo stesso verso, mostrando nei suoi atti l’animazione più spinta. Ad un tratto — ed io non so per quale inconcepibile pressione — io m’intesi profondamente invaso da un personale interesse per quanto stava per accadere. Mi pareva di sentire che io avevo una parte importante da sostenere, senza esattamente capire quale essa fosse. Però contro la folla che mi circondava io provavo un vivo senso d’animosità. Mi strappai di mezzo a quell’ondata e rapidamente per una via circolare, giunsi fino alla città e vi entrai. Essa era in preda al tumulto e alla più accesa discordia. Un piccolo distaccamento d’uomini, equipaggiati metà all’indiana e metà all’europea e comandati da gentiluomini vestiti in una specie di divisa inglese, sosteneva un attacco ineguale contro la formicolante popolazione delle strade. Io raggiunsi quella debole truppa, m’impadronii delle armi d’un ufficiale morto e presi a colpire a caso con la nervosa ferocia della disperazione. Ben presto fummo schiacciati dal numero e costretti a cercare un rifugio in una specie di garitta. Vi ci barricammo e per il momento ci trovammo al sicuro. Da una feritoia, che era vicina alla sommità della garitta, io vidi una folla immensa, tutta presa in un’agitazione furiosa, che attorniava ed assaliva uno splendido palazzo prospiciente sul fiume. A un tratto da una finestra di quel palazzo discese un individuo dall’aspetto femmineo, aggrappandosi ad una corda fatta coi turbanti dei suoi domestici. Un battello era li presso: ed egli vi s’imbarcò per rifugiarsi sulla riva opposta.
«Allora una nuova idea s’impossessò dell’anima mia. Diressi ai miei compagni poche parole affrettate ma energiche, ed essendo riuscito a farne piegare alcuni ai miei disegni, feci una furiosa sortita al di fuori. Ci precipitammo sulla folla assediante che dapprima fuggì dinnanzi a noi. Poi si riunì, prese a combattere con una rabbia inaudita e poi fece una nuova ritirata. Intanto noi eravamo stati trasportati molto lontani dalla garitta e ci trovavamo perduti e imbarazzati nella strettezza delle vie soffocate dagli alti casamenti, in fondo ai quali non era mai arrivata la luce del sole. La popolazione impetuosamente si lanciava su noi, ci violentava con le sue lancie e ci abbatteva con la pioggia delle sue freccie. Queste ultime somigliavano a una specie dei kriss attortigliati dei Malesi, imitanti il movimento d’un serpente che s’arrampica sopra un tronco, ed erano lunghe e nere, con le punte avvelenate. Una di esse mi colpì alla tempia destra. Io girai su me stesso e caddi. Un male subitaneo e terribile s’impadronì di me. Mi agitai... mi sforzai di respirare... morii.
― Non vi ostinerete certo più — io dissi sorridendo — a credere che la vostra avventura non sia stata un sogno? siete forse deciso a sostenere che voi siete morto?..
Dette queste parole io m’aspettava per risposta una qualche felice spiritosità da parte di Bedloe: ma, con mia grande stupefazione, egli esitò, tremò, divenne terribilmente pallido e rimase in silenzio.
Io alzai gli occhi su Templeton, che era rimasto dritto e immobile al suo posto: i suoi denti battevano e gli occhi gli schizzavano dalle orbite.
― Seguitate — egli disse finalmente con voce rauca a Bedloe.
E Bedloe continuò:
— Per qualche minuto la mia sola sensazione fu quella della notte e del non essere, con la piena coscienza della morte. Poi mi parve che una scossa violenta ed istantanea come l’elettricità traversasse l’anima mia. Con quella scossa mi venne il senso dell’elasticità e della luce: ma quest’ultima io la intesi solamente, non la vidi. In un momento mi parve che io mi sollevassi da terra; ma non possedevo più la mia presenza corporea, visibile, sensibile e palpabile. La folla non c’era più. Il tumulto aveva cessato. La città era relativamente calma. Sotto a me giaceva il mio corpo con la freccia nella tempia ed il capo enormemente gonfiato e sfigurato. Io intesi tutte queste cose ma non le vidi. Non m’interessai a nulla. Anche il mio cadavere mi parve una cosa con la quale io non avevo più nulla di comune. Non avevo volontà ma mi pareva d’essere messo in movimento e di volare lievemente al di fuori della cinta della città seguendo la stessa via che io avevo percorso per venirvi. Quando ebbi raggiunto nel burrone il posto dove avevo veduto la iena, provai nuovamente una scossa come quella prodotta da una pila galvanica e in me tornarono il sentimento del peso, quello della volontà e quello della sostanza. Ritornai quello che ero e diressi sollecitamente i miei passi verso casa: ma il passato non aveva nulla perduto della energia vivente della realtà, ed anche adesso non riesco a costringere il mio intelletto, anche per un solo istante, a considerar tutto ciò come un sogno.
— Non è un sogno — disse Templeton con un’aria di profonda solennità – ma sarà molto difficile trovare una giusta definizione per un caso come questo. Supponiamo che l’anima dell’uomo moderno si trovi sul limitare di una qualche prodigiosa scoperta psichica. Contentiamoci di questa supposizione. Sul resto posso darvi qualche schiarimento. Ecco qua una pittura all’acquarello, che io vi avrei già mostrata se un indefinibile sentimento d’orrore non me lo avesse fino ad ora impedito.
Guardammo la pittura che egli ci presentava. Non vi osservai alcun che di straordinario: ma il suo effetto su Bedloe fu prodigioso. Non appena l’ebbe guardata che fu sul punto di svenire. Eppure non era che un ritratto in miniatura, un ritratto meravigliosamente finito della sua figura a dir vero tanto originale. Tale almeno fu il mio pensiero vedendo quel ritratto.
— Guardate la data della pittura — disse Templeton — essa si vede appena in quest’angolo: 1780. In quest’anno la pittura che vedete è stata eseguita. È il ritratto di Oldeb, un amico defunto a cui io fui vivamente unito, a Calcutta, durante l’amministrazione di Warren Hastings. Io allora non avevo che vent’anni. Quando vi vidi per la prima volta, signor Bedloe, a Saratoga, fui tanto colpito dalla maravigliosa somiglianza che esisteva fra voi e questo ritratto, che decisi a mettermi in rapporto con voi, a cercar la vostra amicizia e a concludere quel contratto che fece di me il vostro eterno compagno. Così facendo, io ero spinto in parte — e forse precipuamente — dai ricordi pieni di rimpianto per il povero defunto, ma anche da una inquieta curiosità sul vostro conto, la quale non andava certo scompagnata da un vago terrore.
«Nel racconto della visione che vi si è presentata sulla montagna voi avete descritto coi particolari più minuziosi la città indiana di Benares sul fiume sacro. Le riunioni, il combattimento, il massacro, sono gli episodii reali dell’insurrezione di Cheyte-Sing che avvenne nel 1780, quando Hastings corse i più grandi pericoli della sua vita. L’uomo fuggito con la corda fatta di turbanti era lo stesso Cheyte-Sing. La truppa chiusa in quella specie di garitta era composta di cipays e di ufficiali inglesi ed Hastings era alla loro testa. Io facevo parte di quella truppa e misi in atto tutti i miei sforzi per impedire quell’imprudente e fatale sortita dell’uffiziale, la quale si risolvette nella sua morte sotto alla freccia avvelenata d’un Bengali. Quell’ufficiale era il mio più caro amico: era Oldeb. Voi vedrete in questo manoscritto — e qui il narratore trasse un libro di note, alcune pagine del quale parevano scritte molto di recente — che mentre voi pensavate queste cose in mezzo alla montagna, io mi ero occupato a casa a scriverle sulla carta.
Una settimana circa dopo questa conversazione, in un giornale di Charlottesville, comparve l’articolo seguente:
«Compiamo il doloroso dovere d’annunziare la morte del signor Augusto Bedlo, un gentiluomo le cui cortesi maniere e le cui numerose virtù da lungo tempo avevano reso caro ai cittadini di Charlottesville. Il signor Bedlo da qualche anno soffriva d’una nevralgia che spesso minacciava di finire fatalmente: ma essa non può essere considerata che come la causa indiretta della morte. La causa immediata fu invece d’un carattere singolarmente speciale. In una escursione che egli fece nelle Ragged Mountains, or fa qualche giorno, fu preso da un leggiero reuma accompagnato da febbre, la quale fu seguita da grandi ascensioni di sangue al capo. Per sollevarlo il dottor Templeton ricorse alla sanguigna locale: e gli furono applicate varie sanguisughe alle tempie. In un lasso di tempo terribilmente breve, il malato morì e allora si vide che nel vaso contenente le sanguisughe, per caso ve n’era stata posta una di quelle velenose che si trovano qua e là negli stagni circonvicini. Essa si fissò da sè stessa sopra una piccola arteria della tempia destra. La sua immensa rassomiglianza con la sanguisuga medicinale fece sì che l’errore non si conoscesse che troppo tardi.
«N. B. — La sanguisuga velenosa di Charlottesville si può sempre distinguere da quella medicinale per il suo colore nerastro e in ispecie per il suo attorcigliamento o movimento vermicolare che rassomiglia molto a quello d’un serpente».
Io ebbi a trovarmi col direttore del giornale e, parlando di quel curioso accidente, mi venne l’idea di domandargli perchè il nome del defunto fosse stato stampato Bedlo, con un’ortografia differente da quella vera del suo nome.
— Presumo — gli dissi — che abbiate avuto qualche buona ragione per scriverlo così: io sempre ho creduto che dovesse porvisi un e alla fine.
― Ragione?... no!... — egli mi rispose. — È un semplice errore del tipografo. Il nome vero è Bedloe, con un’e alla fine: tutti lo hanno conosciuto ed io non l’ho mai scritto altrimenti.
Io allora girai sui miei piedi e mormorai fra di me:
— Può dunque essere che una verità sia più strana di tutte le finzioni: imperocchè che cosa è mai questo Bedlo senza e alla fine, se non il nome rovesciato di Oldeb?... E costui ora mi dice che si tratta d’un semplice errore d’ortografia!...