I diporti/Dedica a Marcantonio Moro
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Af. NOBILISSIMO E VALOROSISSIMO C A VAGLIERÒ
IL SIGNOR
MARCANTONIO MORO
BRESCIANO
GIROLAMO PARABOSCO
Egli è ornai si gran tempo che cosi affezionato a V. S. mi ritrovo, ch’io dubitarci che quella non lo dovesse credere, se il valore suo, perch’io cosi ardentemente l’amo e osservo, non fosse anco da lei conosciuto degno di piú amore e di maggior riverenza che quella ch’io le porto non è, ancoraché l’uno e l’altra infinita sia. Mi pareva adunque far troppo torto a me medesmo non le manifestando l’affetto del mio core, per il quale solo poteva sperare esserle grato servitore. Laonde mi disposi dargliene segno, facendole dono di questi miei Diporti , frutto, a mio gusto, piú soave e saporoso o, per meglio dire, meno aspro e acerbo di quanti n’abbia sinora il poco fecondo terreno della mia mente prodotti. Questi giá furono donati alla onorata memoria del conte Bonifacio Bevilacqua: ma intervenne loro come a una fanciulla che vada a marito, la quale non ancor giunta a mezo camino riman vedova; ché cosi quel valorosissimo signore, con perdita grande dell’etá nostra, mori inanzi ch’io potessi pure esser certo che apena egli gli avesse veduti. Io li mando adunque a V. S. con sicuranza che quella li debba accettare e aver cari, se pur ne sono in qualche parte degni, come solamente suoi e non d’altrui; essendoché questa fanciulla non sia stata dal primo suo sposo posseduta, e che con la natia sua virginitá a V. S. se ne venga, in piú di mille parti,
piú vagamente adornata che prima non era. Né voglio però che quella, per la comparazione fatta, creda eh’ io presumala mandarlela come sposa, ch’io solamente per eterna schiava gliel’appresento e per tale prego V. S. che l’accetti, sicura ch’io abbia potere di ciò fare con ogni ragione, si per essere ella mio parto, come ancora per non averne io giamai da uomo vivente ricevuto di essa né arra né pagamento veruno; il quale pagamento dalle virtú e dai meriti di V. S. mi viene si grande, ch’io so certo non poter mai far tanto in onore e piacer suo, ch’io non ne abbia da andare sempre piú suo grosso debitore. Il qual debito, se per la impotenza mia non sará mai interamente pagato, almeno sempre dalla mia lingua sará confessato insieme con l’infinito suo valore, a cui, quanto piú umilmente posso, riverente m’inchino.
Di Venezia, il primo di luglio del lii.