I cani/Disprezzo del cane
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Una canzoncina che si canta dai monelli nelle città e nei villaggi dell’Egitto, contro i cristiani, comincia:
«O cristiano, famelico cane».
Noi chiamiamo cani i musulmani alla nostra volta, e l’Ariosto già si doleva del sepolcro di Cristo
Ch’ora i superbi e miseri cristiani,
Con biasmo lor, lasciano in man de’ cani.
Carlo Magno, volendo spingere i suoi guerrieri a combattere contro Rodomonte, dice loro:
Mostrate a questo can vostra prodezza,
A questo can che gli uomini divora.
Alla sua volta il giovane Dardinello incita i suoi saraceni a combattere fino alla morte, perché
Molto è meglio morir qui, che ai supplíci
Darsi e alla discrezion di questi cani.
Nel poema di Firdusi, di cui appunto in questi giorni si è incominciata a pubblicare la traduzione in versi, tanto bella quanto fedele, del professore Italo Pizzi, gli eroi, nelle battaglie, spesse volte danno il nome di cani ai Turani dell’Asia settentrionale. Cane in persiano si dice «sag» e «saci» appunto, cioè cani, è il nome dei popoli dell’alta Asia, secondo i greci. Questo nome di Saka si trova nelle iscrizioni cuneiformi del re Dario per designare alcune popolazioni scitiche.
Shakespeare, nell'Amleto, fa dire dalla regina: «Voi siete in fallo, malvagi cani danesi».
Dante che pone il lupo moralmente a simbolo della avarizia, politicamente della parte guelfa, chiama poi, talora per contrapposto dei lupi, cani i ghibellini.
Il conte Ugolino narra il suo sogno e dice dell’arcivescovo Ruggeri:
Questi pareva a me maestro e donno,
Cacciando il lupo e i lupicini al monte,
Perché i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte,
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
S’avea messi dinanzi dalla fronte.
In un dipinto di Santa Maria Novella in Firenze, l’imperatore e il papa sono rappresentati come due cani che custodiscono la cristianità.
I Malatesta, fieri tiranni, Dante li chiama mastini. Il conte Guido di Montefeltro, trovato dal poeta nell’ottava bolgia, lo aveva interrogato delle condizioni della Romagna. Egli, parlando di Rimini e dei due Malatesta che ne erano signori, i quali avevano fatto morire crudelmente il Montagna, nobilissimo uomo, dice:
E il mastin vecchio, e il nuovo da Verrucchio,
Che fecer di Montagna il mal governo,
Là dove soglion fan dei denti succhio.
Il conte Ugolino, interrotto il fiero pasto, raccontò la storia terribile della sua morte e di quella dei suoi figliuoli a Dante, poi:
Quand’ebbe detto ciò, con gli occhi torti
Riprese il teschio misero coi denti,
Che furo all’osso, come d’un can, forti.
Gustavo Modena, inarrivabile nel dire questi versi, faceva una variante, e in luogo di «furo» diceva «che forar l’osso».
Filippo Argenti, nella gora fangosa, cerca di aggrapparsi alla barca sulla quale sono i due poeti, e Virgilio lo respinge:
Allora stese al legno ambo le mani
Perché il maestro accorto lo sospinse,
Dicendo: Via costà con gli altri cani.
Il dolore disperato fa latrare Ecuba caninamente:
Ecuba trista, misera e cattiva,
Poscia che vide Polissena morta,
E del suo Polidoro in sulla riva
Del mar si fu la dolorosa accorta,
Forsennata latrò sì come cane,
Tanto il dolor le fe la mente torta.
I golosi, nel terzo cerchio dell’Inferno, stanno sotto la pioggia gelata con grandine e neve e
Urlar li fa la pioggia come cani.
Oltre a ciò il cane Cerbero, che ha tre teste, di cui ciascuna abbaia come cinquecento cani insieme, li scuoia e li squarta. Il cane Cerbero si oppone al passaggio di Virgilio e di Dante, ma il primo gli gitta della terra nelle fauci.
Qual è quel cane che abbaiando agugna,
E si racqueta poi che ’l pasto morde,
Ché solo a divorarlo intende e pugna,
Cotai si fecer quelle facce lorde
Dello dimonio Cerbero, che introna
L’anime sì ch’esser vorrebber sorde.
Ma Dante in un punto del poema mette in scena il cane insieme coll’uomo e coll’agnello in una maniera che non mi ha mai persuaso.
Il poeta voleva domandare a Beatrice due cose; aveva due dubbi da farsi risolvere, non sapeva da quale incominciare perché i due dubbi lo tenevano entrambi ugualmente e non c’era ragione perché incominciasse da questo piuttostoché da quello, e perciò si taceva.
Un uomo, egli dice, libero di scegliere fra due cibi ugualmente distanti da lui e ugualmente eccitanti in lui l’appetito, non troverebbe una ragione per muoversi verso l’uno piuttostoché non verso l’altro, starebbe sempre fermo e morrebbe di fame. Un agnello in mezzo a due lupi affamati e a ugual distanza dall’uno e dall’altro non avrebbe una ragione per fuggire da questo piuttostoché non da quello e non si moverebbe. Un cane in mezzo a due daini, in pari modo, starebbe fermo. Ecco i versi:
Intra duo cibi, distanti e moventi
D’un modo, prima si morrìa di fame,
Che liber uom l’un si recasse a’ denti,
Sì si starebbe un agno intra duo brame
Di fieri lupi, igualmente temendo:
Sì si starebbe un cane intra duo dame.
Io lo vorrei vedere quell’uomo affamato fra due cibi, che non si muovesse per non saper quale preferire! La cosa pareva strana anche a san Tommaso, che ci ragionò sopra, e conchiuse che l’uomo finirebbe sempre per trovare in uno dei due cibi una condizione che lo muoverebbe più forte. Per l’agnello poi, e pel cane, la cosa mi pare addirittura impossibile pel semplice motivo che gli animali non hanno, come l’uomo, la facoltà di fare delle sciocchezze spinti dalla forza del ragionamento.
Orazio se la prende con un critico del suo tempo che si abbandonava allo ignobile compiacimento di biasimare gli scrittori deboli e temeva i forti, e gli dice che è un cane mordace coi poveri, ignavo col lupo.
Giuseppe Giusti, nella Scritta, ha questi versi:
Sol con quei tangheri
Che stanno in piede
Seduta a chiacchiera
Qua e là si vede
Qualche patrizia
Andata ai cani
Più democratica
Coi popolani.
Gli inglesi dicono di un uomo commercialmente rovinato, che egli è andato ai cani.
A Bologna, di chi abbia dato fondo a tutti i suoi averi, si dice che è ridotto alla cagnola.
Tutti sanno ciò che si vuol dire quando si parla di fare una cagnara.
I francesi chiamano oeil chien un occhio provocante, e dicono avoir du chien quando c’è qualche cosa di capriccioso e di bizzarro nell’aspetto.
Un anonimo compose pel cane del conte di Clermont il seguente epitaffio:
Ci-git Citron, qui sans peut-être
Avait plus de sens que son maitre.
Quest’altro epitaffio compose il Berni per un cane del duca Alessandro de’ Medici:
Giace sepolto in questa oscura buca
Un cagnaccio ribaldo e traditore
Ch’era il Dispetto e fu chiamato Amore.
Non ebbe altro di buon; fu il can del Duca.
Presso i franchi e gli svevi il perturbatore della pace veniva condannato alla morte. Per maggior ignominia, prima di farlo morire, lo facevan girare di contado in contado, portando sulle spalle, se era contadino, una ruota di aratro, se era ministeriale una sella, se era nobile un cane. Allora la denominazione di ministeriale aveva un significato diverso da quello d’oggi.