I bambini delle diverse nazioni/I bambini d'Austria e d'Ungheria

I bambini d'Austria e d'Ungheria

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I BAMBINI D’AUSTRIA E D’UNGHERIA



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Austria e l’Ungheria sono formate da un complesso di popoli diversi per nazionalità, e parlando di bambini austriaci ed ungheresi, intendo parlare dei piccoli tedeschi, austriaci, czechi o boemi, slavi, rumeni, croati, bulgari, magiari o ungheresi e tirolesi, compresi gli ebrei, ruteni (russi), polacchi, armeni e zingari, come pure di molti altri.

È vero che tutti quei bambini hanno lingua, usi e costumi diversi come le nazionalità che rappresentano, ma lo spazio che mi è concesso è ristretto, e io debbo limitarmi a descrivere ciò che può destare la curiosità dei miei piccoli lettori.

Non so davvero da che parte rifarmi. Ma cominciamo da Vienna e proprio dalle infime classi: dal bambino povero che nel Ring (se non lo sapete il Ring è il Corso [p. 46 modifica]di Vienna) chiede in elemosina un zehnerl e quando lo ha avuto va via ballando e cantando nel suo cattivo tedesco, un ritornello, che può esser tradotto press’a poco così:

Non c’è che una città imperiale,
C’è una sola Vienna.

E tutti gli austriaci cantano lo stesso e credono fermamente che non ci sia nel mondo una città da potersi paragonare per bellezza e allegria alla loro amata capitale.

Seguendo l’impulso che mi ha dato il monello viennese, vi condurrò nel bel parco che chiamano Prater, con i tre grandi viali, uno che conduce ai bagni sul Danubio, uno nel centro al Volks Wursten Prater e il terzo a sinistra al Nobel Prater, dove passeggiano e giuocano i bambini eleganti accompagnati da bambinaie in costume nazionale, o da istitutrici, che si fermano a comprar dolci nei molti caffè che fiancheggiano il viale.

A voi, sono sicura, piacerebbe più il Wursten Prater, perchè lì convengono tutto l’anno le meraviglie del mondo che vi fanno restare a bocca aperta, anche quando le vedete isolate.

Lì non mancano mai nani e giganti, marionette e saltimbanchi, pesci mostruosi che parlano, serragli di bestie feroci, topi bianchi, cani ammaestrati, scimmie sapienti, ed è un continuo batter di gran cassa, e urli, e canti, e suoni d’organino. Fra tutto quel rumore spicca la voce dei nostri connazionali che vendono salami e formaggio, e intanto la gente guarda, ammira, commenta e si riposa e si rinfresca nei caffè, che sono qui più numerosi ancora che nel Nobel Prater. [p. 47 modifica]

Sì, anch’io sono propensa a cantare col monello viennese:

Non c’è che una città imperiale,
C’è una sola Vienna.

Ma poi rifletto che, eccettuato la maggior propensione all’allegria e ai divertimenti, i bambini austriaci poco differiscono dai loro confratelli tedeschi, che hanno usi, costumi, balocchi eguali, eguali passatempi, fra i quali il preferito è quello della cucinina, facendo servire per ingredienti di ogni pietanza il miele e il pan pepato che la mamma ha dato a Roserl e Kätherl per merenda; che hanno pure scuole eguali, eguali Kindergärten, che le maestre in estate conducono così in Germania come in Austria le loro piccole alunne a far delle scampagnate. Preferisco narrare ai miei piccoli amici qualcosa dei futuri cittadini e soldati delle provincie dell’impero austro-ungarico.

Incomincierò dal Tirolo, quella bella contrada montuosa e ricca di acque e di fiori, che molti bambini italiani hanno visitata in estate, quando è in tutta la sua bellezza.

Sul ponte dell’Inn vorrei essere.
Là giungono zattere cariche di gente allegra,
I tirolesi cantano da lungi:
Evviva!

In un giorno di scampagnata una comitiva scolastica naviga sull’Inn in una zattera. È un gran divertimento quello, ma non scevro di pericolo, specialmente quando la zattera è carica di piccoli diavoletti come i ragazzi della scuola, ma il navicellaio tirolese è accorto e destro, e con le lunghe stanghe sa guidare maestrevolmente la zattera fra le curve e le cascate del fiume. [p. 48 modifica]

I ragazzi hanno raggiunto la mèta sani e salvi, e si preparano ad ascendere la collina mandando grida di gioia e cercando con gli occhi i rossi grappoli del ribes. A quelle grida risponde il figlio del navicellaio, guardandoli con rincrescimento mentre aiuta il padre a ormeggiare la zattera. Quel bambino lavora molto ed ha pochi passatempi, ma cresce forte e robusto, ed ha una sorte più invidiabile di molti bambini del suo paese, i quali sono mandati ogni primavera nella Svevia per lavorare in campagna. Fa pena a vedere quei bambini, alcuni dei quali hanno appena otto anni, adunarsi in diversi punti del Tirolo per intraprendere il viaggio. Quelli che già ci sono stati non sono afflitti, ma per i piccini che lasciano per la prima volta la famiglia il distacco è doloroso e costa loro molte lagrime.

Vestiti miseramente, con un bastone in mano e un fagotto in ispalla, contenente una camicia, un po’ di pane e un pezzo di cacio, si uniscono in drappelli e incominciano in marzo il loro pellegrinaggio di villaggio in villaggio, guidati da un vecchio e da una vecchia. Quei poveri bambini vivono di elemosina, e nessuno rifiuta loro un pezzo di pane.

Fanno tutti il viaggio a piedi e quando giungono a Ravensburg, o a Weingarten, o a Waldsee, vicino al lago di Costanza, hanno i piedi piagati e sono stanchi rifiniti.

Il primo mercato (perchè li portano al mercato) ha luogo a Ravensburg il 19 marzo. Nelle strade sono disposti i ragazzi in due file, aspettando chi li scelga. I contadini del vicinato o dei paesi più distanti vanno a scegliere i piccoli emigranti, ai quali spesso rivolgono la strana domanda: «Siete già stato accaparrato, ragazzo?» E il ragazzo che è libero, risponde saltando attorno al contadino: «Compratemi, via, compratemi!» [p. 49 modifica]

Avvengono in quei mercati delle scenette comiche, ma alcune anche molto strazianti. Un bambino è scelto da un contadino, e la sua sorellina o il suo fratellino da un altro. La separazione è penosa per i bambini, ma non c’è rimedio. Generalmente sono trattati bene. Il contadino dà, al ragazzo che ha preso, birra, pane salsiccia; e se lo mette nella carretta e lo conduce a casa sua. La massaia gli dà il benvenuto, e gli prepara un buon pranzetto. Per quel giorno, il bambino non fa nulla, ma dopo aver dormito bene la notte, deve, la mattina seguente, mettersi al lavoro, che consiste nel guardare il bestiame, le pecore, i maiali e i polli, e menare al pascolo cavalli e bovi.

Così passa l’estate. Il 19 ottobre ricomparisce il vecchio e la vecchia che ha condotti i bambini, per riaccompagnarli a casa. Hanno ricevuto in dono dei vestiti, e se son minori di nove anni hanno da sei a dodici marchi, se maggiori a nove anni da dodici a ventiquattro. Il marco tedesco equivale a una lira e venticinque della nostra moneta.

I ragazzi tornano a casa vegeti e robusti, ma non imparano nulla; e assuefatti come sono alla vita nomade, non sanno piegarsi ad una occupazione costante. Per questo delle persone caritatevoli cercano di far cessare questa antica costumanza, migliorando le condizioni dei genitori, e già hanno ottenuto molto, perchè il numero dei piccoli emigranti nel Schwabenland (Svevia) è molto diminuito.

Molti bambini tirolesi, specialmente bambine, sono occupati nei mesi d’estate a cogliere il ribes e a far raccolta di uova di formiche. Nella valle bassa dell’Inn, e soprattutto nei dintorni di Innsbruck, quel frutto cresce in gran quantità. Le Beererinnen (coglitrici di ribes) vanno al lavoro la mattina presto nei mesi di agosto e di settembre, e fanno a gara per essere le prime a poter [p. 50 modifica]cogliere i frutti che crescono sulle roccie e che sono i migliori per fare, la mostbeerlwasserl, che è la bevanda che ricavano dal ribes fermentato.

Le bambine si servono di una specie di coppa con un manico e di un pettine per cogliere i chicchi del ribes. Mettono la coppa fra i rami dell’arboscello e col pettine ve li fanno cader dentro. Quando la coppa è piena, la versano in un paniere. Nei giorni di mercato si vedono molti di questi panieri nelle zattere con accanto la piccola coglitrice, che va al mercato a vendere la sua raccolta.

Nei dintorni di Seefeld principalmente le bambine vanno a prendere le uova di formiche, e siccome si mettono per quella occupazione i peggiori vestiti che hanno, sono chiamate Amaisen-Hexen (streghe delle formiche). In quei luoghi vi sono dei folti boschi cedui, che crescono su terreno bitumoso, e lì le formiche trovansi in gran quantità. Le bambine cercano specialmente la formica rufa, che è quella formica rosso-scura che fa nei boschi, dove vive in numerosa compagnia, e fa le uova più grosse delle altre.

Il modo col quale prendono le uova è assai singolare. Prima di tutto le bambine cercano un posto soleggiato vicino ad un piccolo corso d’acqua. Sull’orlo del rigagnolo formano una specie d’isola e la circondano con una piccola diga alta due piedi, e deviano il corso dell’acqua, che subito dopo ritorna nel suo letto naturale. Nell’isoletta che hanno fatto, scavano diversi buchi, che coprono con foglie verdi e rami per tenerli riparati dal sole. Dopo terminati questi preparativi, vanno nei boschi a cercare i monti di formiche. Sono munite di una piccola vanga e di un sacco, ed hanno un paio di guanti grossolani per proteggere le mani dalle pinzature. [p. 51 modifica]

Quando hanno scoperto i mucchi di formiche, smuovono adagio adagio il terreno finchè non mettono allo scoperto le uova. Se trovano le uova troppo sparpagliate, per non perder tempo, mettono tutto il mucchio delle formiche nel sacco e continuano a cercare. Allorchè il sacco è pieno tornano alla loro isola e vi versano tutto il contenuto di esso, procurando però di lasciar liberi i buchi ombreggiati. Poi vanno in riva al ruscello a mangiare il loro pasto frugale, aspettando che le formiche si mettano al lavoro. Quelle attive creaturine non perdono un minuto, e subito si danno cura di togliere le loro uova di fra la terra e le portano nei buchi ombrosi che le bambine hanno preparati per esse. Verso sera, le bambine possono far raccolta di uova senza difficoltà. La diga è rotta, l’acqua invade l’isola, e le povere formiche sono trasportate dalla corrente. Le uova sono vendute con reputazione come nutrimento per gli uccelli.

I bambini tirolesi si dedicano anche ad altre occupazioni. Oltre quelle che ho menzionato, tagliano legna, ricamano, fanno trine e aiutano i genitori nelle industrie speciali dei villaggi tirolesi, che sono quelle dei guanti, dell’ammaestrare i canarini, del fare i bucati, e a Teferregen tessono pure i tappeti di crino.

Il divertimento preferito dei piccoli tirolesi è quello di sonare la cetra e una specie di salterio che chiamano dulcimer e accompagnandosi con questi due strumenti cantano le canzoni popolari. I ragazzi costruiscono pure mulini in miniatura, servendosi dell’acqua che scorre abbondante in quel paese.

Devo pure far menzione di una infelice razza di bambini chiamati Dörcher o Laniger, che significa pellegrini o vagabondi, appartenenti a quelle tribù nomadi di [p. 52 modifica]zingari originari di Stelfs, Schönweiss, Mötz ed altri poveri villaggi nei quali passano l’inverno, ma al primo avvicinarsi della primavera incominciano le emigrazioni e si spingono in Carinzia, nella Stiria ed in Croazia.

La famiglia parte sopra un carretto a due ruote, tirato dal padre. Se questo non è povero, si permette il lusso di Contadino tirolese che suona la cetraun asino. Quel carretto è coperto di tela rozza e contiene scope, spazzole, panieri, brocche, padelle e altri utensili, che gli zingari portano seco per trafficarci. Dinanzi al carretto sono appese molte gabbie con entro uccelli ammaestrati, e grondon grondoni cammina accanto alle ruote un cane sporco e brutto come il peccato.

Il babbo, la mamma e i numerosi bambini sono tutti sudici e stracciati, ma su quei vestiti a brandelli hanno [p. 53 modifica]delle ciarpe di colori vivaci, che piacciono agli zingari in modo straordinario. Tornano ogni anno nei luoghi dove si fermarono l’anno precedente, e se non possono avere la Zingaricapanna o la tenda sotto la quale si rifugiarono, si accampano all’aria aperta. Il padre accomoda panieri e padelle; la madre sta seduta accanto al carretto con i bambini più piccoli, e all’occasione s’ingegna a guadagnare disonestamente un soldo predicendo l’avvenire a chi passa. I bambini più grandi vanno in giro elemosinando e rubando. [p. 54 modifica]

Ma lasciamo il Tirolo e trasportiamoci in Ungheria, la patria dei magiari, degli slavoni, dei rumeni, ecc. In quel paese ci sono molti tedeschi, che vengono chiamati sassoni, e fino a poco fa la lingua tedesca era quella che serviva d’intermediaria fra i popoli diversi dell’Ungheria, ed era insegnata nelle scuole. Ma i magiari sono un popolo altero, e fanno di tutto per scacciare l’elemento tedesco; gli slavoni fanno lo stesso, poichè si considerano come padroni del suolo.

È un fatto però, che quando si vede una casa spaziosa e pulita, nella quale regni il benessere e l’operosità, dove i bambini sieno vestiti con cura, si può dire che quella è una casa tedesca. Anche in paese, i tedeschi godono fama di lavoratori, perchè si dice in Ungheria che se il sassone non avesse altro da fare, demolirebbe la propria casa per ricostruirla. La casa è generalmente circondata da un giardino pieno di fiori, ha una piccionaia, un terrazzo, sul quale il babbo e la mamma stanno la sera d’estate a prendere il fresco ciarlando con gli amici. Nella stanza più grande della casa c’è una grande stufa di terracotta verniciata di verde, intorno alla quale ci sono le panche, e sopra dei pali per asciugare i panni. Tutto è assettato che è un piacere a vedersi. Dalle pareti pende un orologio della Foresta Nera, pochi quadri rappresentanti per lo più Lutero e Melantone; in uno scaffale ci sono pochi libri, e nelle camere i letti sono bianchi e soffici come in Germania.

I rumeni sono gente semplice, di montagna. I magiari li disprezzano e li chiamano «orsi valacchi.» Quando ad un rumeno nasce un figlio il padre dice: «Mi-a cazut norve la casa.» (La felicità è entrata in casa mia). Tre giorni dopo la nascita del bambino si mettono sulla tavola cibi [p. 55 modifica]e monete per le tre fate (ursitele) che si crede decidano della sorte di lui. Quando il bambino ha tre anni, gli tagliano con gran cerimonia i capelli, servendosi di un paio di forbici nuove, e una torta (turta) è divisa sulla sua testa. In quella occasione gli regalano diversi oggetti che gli saranno utili da grande. Gli dànno da mangiare della pasta di granturco detta mamaliga, del cacio di pecora detto branza, dei legumi e delle frutte. Gli viene insegnato a dire: «Sa nu-i dee Dumnezen omului cat poate suferi.» (Signore, dài all’uomo soltanto quanto può bastargli). Questa invocazione il fanciullo la fa a testa scoperta al levar del sole, il quale è considerato sacro. Oltre al sole sono tenuti come sacri alcuni animali e il pane bianco.

Le scuole dei villaggi sono buone e molto frequentate. I piccoli slavoni dimostrano molta attitudine per imparare le lingue straniere. Oltre alla loro ne parlano due o tre, e sono abilissimi nell’intrecciar panieri, intagliare il legno, dipingere e modellare.

Gli ungheresi invece sono poco operosi. Il bambino che guarda le oche, le lascia andare dove vogliono; la ragazza che accomoda il vestito di pelle di capra del fratello, si distrae volentieri dal lavoro per ascoltare ciò che le dice un’altra fanciulla seduta per terra accanto a lei. I ragazzi non sognano che cavalli per correre le loro valli al galoppo, ma non si dànno cura di lavorare per procurarseli.

Ci sarebbe molto da narrare sui bambini boemi, bulgari e sui molti ebrei, ma lo spazio lo vieta e mi contenterò di terminare facendovi la descrizione del Natale in Croazia.

In quel paese regnano ancora le idee patriarcali di razza. Tutti i membri di una famiglia formano una specie di [p. 56 modifica]comunità (zadruga). Un componente la comunità è scelto dagli altri a capo, ed a lui spetta a comporre i dissidi ed a repartire il lavoro. I bambini sono educati nel rispetto verso i genitori, verso i nonni, e viene insegnato loro a vivere in buona armonia coi ragazzi delle altre comunità, sieno pure greci o ebrei.

Oltre ad alcune costumanze strane e proprie di certe stagioni dell’anno, quella del Natale è forse la più bella. In quella occasione comprano la più fina farina di grano, il miele più dolce, i frutti più prelibati ed il vino più squisito. La nonna benedice le tre candele di cera che devono esser collocate sulla tavola. I ragazzi vanno nel bosco a cercare un grosso ceppo d’albero che deve essere spruzzato di vino e messo nella stufa la sera di Natale. È quello che da noi ha dato il nome di Ceppo al Natale stesso. Si fanno due grosse pagnotte che significano il Vecchio e il Nuovo Testamento. Quando si odono i rintocchi delle campane, la sera prima di Natale, la famiglia si riunisce nella stanza da pranzo, si accende la prima candela e si canta un inno. La tavola è coperta di vivande, e vicino alle due pagnotte di Natale c’è una piccola coppa piena di grano, orzo e avena. Prima che incominci la festa, il padre si avvicina alla tavola, prende la candela accesa in mano e dice: «Cristo è nato.» I bambini e gli altri astanti ripetono: «È nato, è nato davvero.» Allora la candela è passata da un bambino all’altro. Essi devono stare sulla panca accanto alla stufa e ripetere tre volte: «Sia lodato Iddio! Cristo è nato.» Intanto gli altri membri della famiglia rispondono: «Sia lodato il nome d’Iddio in eterno, e che Egli ci dia salute e vita!»

Il giorno di Natale si accende la seconda candela. Il padre pronunzia una breve preghiera, spenge la candela e [p. 57 modifica]la mette nella coppa piena di grano, ecc. Quindi la esamina, e se appiccicato alla candela c’è rimasto il grano, allora credono che il grano darà miglior raccolto l’anno seguente; se invece è l’orzo, attendono miglior raccolto dall’orzo e così di seguito.

L’ultima delle tre candele è accesa il giorno di Capo d’anno, e in quel giorno terminano le feste.