I Cairoli delle Marche - La famiglia Cattabeni/Appendice III

Vincenzo Cattabeni

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Appendice II

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III.


Lettera del maggiore Vincenzo Cattabeni al
padre dopo Aspromonte.


A bordo del Duca di Genova 31 agosto 1862,


Garibaldi è ferito all’anca sinistra da una palla che strisciando ha lacerato la carne leggermente. L’altra ferita è alquanto più grave e profonda alla noce del piede destro. Sembra che fortunatamente non abbia fratturate, ma soltanto scalfite le ossa, e ciò per un movimento rotatorio della palla nella parte superiore del collo del piede.

Le docciature di acqua fredda che io stesso nelle prime ore gli feci senza interruzione agirono efficacemente; e ciò mi è prova come ti dicevo che non vi debba essere frattura. Malgrado però una incisione la palla non si è potuta estrarre.

Quando il generale ricevè il colpo fatale, egli passava sul nostro fronte di difesa fuori della prima linea, situata sul rovescio d’una ondulazione di terreno in forma di collinetta, appoggiata ad un bosco di abeti, ed era" là ordinando di non fare fuoco.

Vidi come una contrazione leggera in tutto il suo corpo. Fece ancora due o tre passi poi cominciò a piegare. Accorremmo, e reggendolo lo deponemmo all’orlo del bosco.

Da quel momento descriverti quello che si passò di sublime in quel luogo sarebbe impossibile.


[p. 53 modifica]Il leone ferito, pieno di disprezzo per i suoi dolori, per le sue sofferenze, fu grande di slancio, di sdegno, d’ira superba.

Levando il cappello col rovescio della mano gridava: Viva l’Italia, Viva l’Italia! ed era un grido sonoro, profondo, titanico che gli usciva dal cuore.

Io avevo il povero suo piede appoggiato sulla mia gamba; e quando egli concitato apostrofava gli assalitori, e gridava, e guardava la carta, e chiedeva dei nostri, sentivo scorrere un fremito per le sue membra, e lo pregavo per la sua ferita

Fu costruita alla meglio una barella e la sera stessa, al cader del sole, cominciò a sfilare il triste convoglio dalla Cascina dei Forestali, che è in mezzo alla pianura di Aspromonte fino alla capanna di un pastore per nome Vincenzo, che conoscevo fin dal 1860. Giungemmo là a notte avanzata. Dissipatasi la nebbia del mattino seguente si riprese la marcia fino a Scilla, seguendo sentieri tagliati sullo scoglio, con un caldo oppressivo, in mezzo a scoscesi dirupi.

Appena giunti a Scilla, fummo imbarcati. Le due imbarcazioni erano comandate dal Gherardi, tenente di vascello a bordo del Duca di Genova. A me è toccato in sorte di essere fra i dieci prigionieri che accompagnano il Generale. Dove? Nessuno lo sa. Dipenderà dalle istruzioni che verranno da Torino.

Se tu avessi visto l’entrata di Garibaldi a bordo della fregata, issato con la sua barella sul ponte, ed egli col corpo per metà alzato con la sua fronte serena, col suo occhio fascinatore, parlando nel suo prediletto genovese al comandante e agli uffiziali consigliando egli stesso i movimenti della sua ascensione! Era una scena pittoresca, magnifica, e noi malgrado il dolore di vederlo ferito, ne sentivamo il prestigio. A me sembra tutto un sogno. Non posso farmi all’idea che il Generale è con noi, che il leone delle cento battaglie sia là, piegato senza poter muovere le membra!

(Dal giornale Movimento, Genova, 4 settembre 1862).