Giovanni Pacini
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Biografia
Un fecondo e immaginoso operista, che fu, nei primordî della sua carriera, il competitore di Rossini, poi, l’emulo di Bellini, di Donizetti, di Mercadante e di Verdi; che seppe investirsi delle progressive trasformazioni dell’arte, conservando pur sempre nelle sue musiche una limpida impronta di originalità, moriva in Pescia il giorno 6 dicembre dell’anno 1867, in età di anni settantaquattro.
Questo ispirato, inesauribile maestro, si chiamava Giovanni Pacini. Predestinato a lottare colla prevalente superiorità dei genî più luminosi che illustrarono la prima metà del corrente secolo, e a guadagnarsi il suo posto d’onore a traverso le prove dei più difficili confronti; i grandi, i solenni trionfi non mancarono a lui, ma delle cento sue opere, dove a sprazzi rivelasi una gran luce di fantasia, sol’una, la Saffo, andò famosa pel mondo e fu degna di assidersi fra i più insigni capolavori dell’arte italiana.
La biografia di questo infaticabile maestro può fornire degli utili insegnamenti. Noi la riassumeremo in poche pagine, studiandoci innanzi tutto di essere esatti e sinceri.
Pacini nacque a Catania, e non già a Siracusa, come scrisse il Fetis in quel suo emporio di inesattezze e di assurdi che s’intitola Dizionario biografico dei musicisti.
Il padre di Pacini era artista di canto, e più volte ebbe a prodursi nelle opere del figlio, dapprima in qualità di tenore, quindi di buffo. Giovanni era attratto allo studio della musica da una vocazione irresistibile. Iniziato in età giovanissima all’arte del canto sotto la direzione del maestro Marchesi di Bologna, in breve, per impulso proprio, apprese anche a suonare il cembalo ed a comporre qualche pezzo sacro.
Il maestro Marchesi si affrettò a coltivare nel giovanetto i pronunziatissimi istinti, ponendolo a studiare l’accompagnamento pratico, e affidandolo poscia al celebre padre Mattei, che fu, si può dire, il maestro dei più insigni maestri dell’epoca nostra. Dalla scuola del Mattei, Pacini passò più tardi, in Venezia, a quella di Bonavventura Furlanetto, e quivi fu compiuta la sua educazione musicale.
In età di sedici anni, Pacini produsse il suo primo spartito al teatro di Santa Radegonda in Milano. Non era che una farsa e portava per titolo Annetta e Lucindo; quindi pel medesimo teatro compose l’Escavazione del tesoro, che l’erudito signor Fetis nel suo voluminoso Dizionario intitola: Evacuazione. Questi due primi componimenti del maestro giovinetto ebbero il più favorevole incoraggiamento.
Scrisse poi alla Pergola di Firenze una prima opera in due atti, intitolata l’Ambizione delusa; quindi, tornato a Milano, fece rappresentare al teatro Re tre operette, la prima col titolo: Dalla beffa al disinganno, la seconda: Il Matrimonio per procura e la terza: Il Carnovale di Milano. La poesia delle tre farse era scritta dall’abate Anelli, poeta di argutissimo ingegno.
Ma le prime opere che davvero posero in luce il nome di Pacini, furono l’Adelaide e Comingio, l’Atala e la Sacerdotessa d’Irminsul, le quali vennero riprodotte in quasi tutti i teatri d’Italia, esclusi la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, il Regio di Torino e la Fenice di Venezia, che a quell’epoca erano considerati i soli teatri di cartello. Per ottenere al giovine maestro che una sua opera fosse prodotta in uno di questi insigni teatri, si volle il soccorso di una di quelle circostanze che decidono qualche volta le sorti di un individuo.
Nell’autunno del 1819 si era ammalato il basso De-Grecis che doveva sostenere alla Scala una parte di somma importanza nel Finto Stanislao di Gyrowets. Per supplire a questo celebre artista, l’impresario dovette ricorrere al buffo Pacini, il quale, assumendo di prodursi entro tre giorni colla parte destinata al De-Grecis, mise a patto che il proprio figlio venisse scritturato per scrivere un’opera alla Scala in quella stagione.— Così furono aperte al giovane maestro le porte del grande teatro, dove con lieto successo venne rappresentata la sua opera: Il barone di Dolshein. La seconda opera che il Pacini compose pel teatro alla Scala fu il Falegname di Livonia. Nel libro pubblicato dall’illustre maestro che s’intitola: Le mie memorie artistiche, si legge una curiosa statistica delle paghe che a quell’epoca venivano retribuite ai compositori di musica. Pel Barone di Dolshein il maestro intascò cento zecchini; per la Sposa fedele trecento bavare, pel Falegname di Livonia dugento zecchini. Rossini, alla medesima epoca, della sua Bianca e Faliero ebbe cinquecento zecchini. È da notarsi che la più parte di queste opere, apparse in quella che noi chiameremo la prima epoca dell’illustre maestro, vennero composte in uno spazio brevissimo di tempo. Pacini, a’ suoi primi anni, scriveva delle farse in tre o quattro giorni, e l’opera grandiosa, la Sacerdotessa d’Irminsul, composta su libretto del Romani, fu condotta a fine in ventotto giorni.
In musica Pacini era improvvisatore. Da ciò forse la breve vitalità di molti suoi spartiti, quasi tutti ingemmati di felicissime melodie, quasi tutti improntati di un marchio originalissimo, ma nondimeno incompleti e in alcune parti meno che mediocri.
Gli ingegni come quelli del Pacini sono destinati a produrre l’oro greggio. Sono dessi che forniscono la ricca miniera, dove tutta una generazione di musicisti può attingere dei tesori inestimabili. Questo spontaneo ed esuberante improvvisatore ha aperto un ricchissimo emporio ai ladri dell’avvenire. Chi saprà derubarlo per bene, otterrà forse maggior fama e più duratura.
Rossini diceva: «Guai se quest’uomo sapesse la musica! nessuno potrebbe stargli a paro.» S’egli avesse meditate le proprie composizioni, e imposto un freno alla sua foga estemporanea, Pacini avrebbe dunque sorpassati i suoi emuli? Noi ci permettiamo di dubitarne. Vi hanno degli ingegni frettolosi, ai quali la ponderazione e la lima nulla giovano. Basti ricordare che i più illustri poeti estemporanei riuscirono il più delle volte meno potenti di impeto e di ispirazione nei loro poemi meditati.
Le Memorie artistiche del Pacini che noi abbiamo sott’occhio ed alle quali informiamo la nostra breve biografia, non contengono episodi di molto rilievo. Più che altro esse rivelano, nello stile, nella sovrabbondanza dei superlativi, e nella cortigianeria delle lodi, il carattere dell’uomo? Ma quando mai il Pacini ebbe tempo di esser uomo? Dai sedici fino ai settantaquattro anni, in ogni luogo ov’ebbe a trasferirsi, sotto ogni condizione di tempi, egli fu sempre e poi sempre maestro.
Vediamo di seguirlo rapidamente nelle tappe più interessanti e più gloriose della sua carriera artistica.
Le opere che più illustrarono il Pacini in quella che suolsi chiamare la sua prima epoca, furono L’ultimo giorno di Pompei, Gli Arabi nelle Gallie e la Niobe.
Il celebre tenore Rubini va debitore del suo più luminoso successo ad una cabaletta di quest’ultima opera; cabaletta che anche oggigiorno si ripete nei concerti da qualche artista privilegiato e che ebbe l’onore di parecchie trascrizioni felicissime.
Pacini possedeva in grado eminente il genio della trovata. Nessuno ha potuto sorpassarlo, pochissimi stargli a paro nella spontaneità, nella eleganza, nella arditezza di quegli slanci lirici della melodia che si chiamarono le cabalette.
Oggi la cabaletta non è più, come la era pochi anni addietro, una inevitabile perorazione delle arie e dei duetti. Dovremo noi dedurne che il gusto del pubblico sia mutato; che quanto ieri aveva potenza di elettrizzare le masse e di rapirle a immediati entusiasmi, verrebbe oggi riprovato quale una risorsa volgare dei talenti stazionari?—Non è più verosimile che la cabaletta sia caduta in disgrazia a causa dello spietato abuso che taluni ne hanno fatto, e della impotenza dei moderni compositori a creare quelle facili e originali melodie, dalle quali soltanto le cabalette traggono effetto? I palliativi qui non giovano; non è il caso di abbagliare il pubblico coi fuochi di artifizio. La cabaletta è il madrigale, l’anacreontica, l’epigramma dell’opera in musica—concetti qui si vogliono e non suoni—si esigono cuore e fantasia, non contrappunto; convien proprio, per fare qualche cosa di eletto e di affascinante, esser artisti di ispirazione, non vacui professori di armonia o di acrobatismo orchestrale.
Dateci qualche cosa che rassomigli nella vivace freschezza del pensiero, nell’impeto della spontaneità, nella schiettezza della eleganza, alle famose cabalette del Pacini, del Donizetti, del Bellini e di tanti altri ispirati, e le masse più intelligenti vi risponderanno coll’ammirazione entusiastica. Non sono trascorsi dieci anni dacchè il pubblico domandava con grida frenetiche la replica della cabaletta Di quella pira, che non va posta fra le più elette del Verdi; e della Norma, della Favorita, del Ballo in maschera non vediamo anche oggigiorno accolte con preferenza, e applaudite, e bissate queste simpatiche concitazioni della melodia, che si vorrebbero da taluni critici eliminate dall’opera moderna.
Rovani direbbe: gli è che una buona cabaletta vuol esser fatta con vino d’uva—e pur troppo la più parte dei giovani maestri non chiudono nelle loro botti che vino Grimelli[1].
L’ultimo giorno di Pompei e Gli Arabi nelle Gallie vennero più volte riprodotte nei principali teatri d’Italia e dell’estero. Con queste due opere, Pacini sostenne decorosamente il suo posto a fianco dei tanti illustri competitori coi quali aveva a lottare. È però da notarsi che nella sua prima giovinezza, carattere vero da artista, lo spigliato e versatile maestro non pose mai, nel condurre a fine le sue opere, quell’impegno che la fortuna seconda e le esigenze di una fama prestamente conquistata parevano imporgli.
Nelle Memorie artistiche vediamo leggermente accennato a questo difetto, laddove il fecondo compositore ricorda un episodio avvenutogli a Milano. Doveva il Pacini scrivere per le massime scene della Scala un’opera nuova, la Giovanna d’Arco. «Non nasconderò (sono parole del maestro) che una avventura galante che mi aveva fatto perdere il cervello, mi distolse dal lavoro. La stagione teatrale volgeva al termine e a me mancava ancora un intiero atto. L’impresario, vedendo che io poco pensava a dar compimento all’impegno assunto, dopo avermi più volte ammonito, espose alla Direzione degli spettacoli quanto accadeva; la quale, non perdendo tempo, inviò rapporto al direttore di polizia signor conte Torresani, che, fattomi chiamare con tutta gentilezza, mi fece intendere che se entro il termine di otto giorni non avessi ultimato lo spartito, Santa Margherita mi aspettava![2]. Capii benissimo qual vento spirava, per cui pensai di non dare occasione di porre in pratica la garbatissima offerta»[3].
Il pubblico milanese, edotto di questi dettagli risguardanti la vita intima dell’autore, divenne implacabile più dello stesso Torresani. La rappresentazione della Giovanna d’Arco fu per il già acclamato autore degli Arabi, dell’Ultimo giorno di Pompei e del Barone di Dolshein, una vera disfatta.
Un giornale milanese, il Corriere delle Dame, già fino dall’anno 1820, ragionando del Vallace, altra delle tante opere del Pacini favorevolmente accolte al teatro della Scala, rimproverava al giovane maestro la sua condotta alquanto dissipata e la sua negligenza al lavoro. Dopo molte allusioni a tale scopo dirette, l’articolista (che pure ha tutta l’aria di un galantuomo e di un amico sincero del maestro) conchiude colla seguente citazione, il cui significato non può essere equivoco:
Signor; non sotto l’ombra in piaggia molle,
Tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
Ma in cima all’erto e faticoso colle
Della virtù, riposto è il vero bene,
Chi non gela, non suda e non s’estolle
Dalle vie del piacer, là non perviene.
Durante questa prima epoca, il Pacini si trovò sempre di fronte quell’inarrivabile colosso, la cui altezza nessun maestro dell’epoca ha potuto raggiungere—Gioachino Rossini. L’autore degli Arabi nelle Gallie e della Niobe, malgrado una originalissima tempra di ingegno, doveva necessariamente, per secondare il gusto predominante e in qualche modo farsi perdonare la propria audacia, seguire le orme più accette dello stile rossiniano. Nelle Memorie Artistiche vediamo ingenuamente espressa dal Pacini cotesta confessione. «Mi sia permesso far osservare, scrive egli, che quanti in allora erano maestri miei coetanei, tutti seguirono la stessa scuola, le stesse maniere, e per conseguenza furono imitatori, al par di me, dell’Astro maggiore.»—Io però non convengo pienamente nell’avviso dell’illustre Pacini laddove dice che «nelle belle arti e nelle lettere ogni epoca segna un carattere proprio, di cui un solo uomo crea lo stampo.» A me pare che il concetto della parola epoca non sia stato mai determinato con precisione. L’epoca non rappresenta nello spazio del tempo che una cifra senza significato; ciò che dà una espressione particolare, uno speciale colorito a quel diametro convenzionale che chiamasi epoca, è il predominio di uno o più geni. Il gravissimo errore a cui soccombono non pochi artisti di altissimo ingegno è questo appunto di subordinarsi volontariamente all’imitazione di quell’uno, che, a loro avviso, ha creato lo stampo più conforme al carattere dei tempi. Questa fatale sommissione ha cagionato la perdita di molti ingegni, i quali, altrimenti operando, vale a dire, emancipandosi dalla imitazione e seguendo liberamente i propri istinti, avrebbero raggiunto una meta elevata. Una prova di quanto asserisco mi si presenta nelle biografie artistiche del Bellini e del Donizetti, i quali non riuscirono a produrre dei veri capolavori, ad impressionare vivamente colle loro musiche, se non quando ebbero il coraggio di ripudiare affatto gli abiti del Pesarese per presentare al pubblico nuda e schietta la loro individualità. Il nome di Bellini non vivrebbe tuttora glorioso senza la Norma e la Sonnambula che marcano del patetico genio di lui la espressione più caratteristica e più vera. Così del Donizetti, la Borgia sopravvisse alla Bolena, sebbene l’una e l’altra ricche al pari di squisite melodie. Gli è che nell’Anna Bolena si ravvisa ancora l’imitatore di Rossini, mentre nella Borgia incomincia il precursore di Verdi. Io non cesserò mai, ogniqualvolta mi si offra l’occasione, di gridare agli ingegni: abbiate il coraggio della vostra individualità; non immaginate mai, perchè un maestro ha conquistato il pubblico con una data maniera d’arte, che questa sia da adottarsi esclusivamente, che fuori di là non esista via di salvezza. In arte bisogna procedere, come tutto procede nell’ordine della natura. Può darsi che questo moto non sia che una rotazione perenne, per la quale la intelligenza umana ritorna, di secolo in secolo, al punto donde è partita. E che perciò?—L’artista dev’essere una molla di questa rotazione. Chi non procede non approda.
Sotto questo aspetto, il Pacini fu veramente disgraziato. Egli sentiva, come ogni vero artista la sente, questa necessità di crearsi una propria maniera. Ma al momento istesso in cui la sua nobile e appassionata intelligenza prendeva a slanciarsi verso un mondo novello, ecco degli altri innovatori, dei giovani privilegiati, insorgere all’improvviso da questa terra fertile di ingegni che è l’Italia, e prevenire i concetti di lui, e sorpassarne gli ardimenti. Dopo aver lottato con Rossini, dopo essersi aperta una nuova via per sottrarsi alla schiacciante supremazia di questo atleta invincibile, Pacini si trovò di fronte due competitori non meno formidabili, Bellini e Donizetti.
Questi erano entrati nella carriera spandendo dei lampi di luce. Al momento in cui l’autore dell’Ultimo giorno di Pompei, «mirava a dare un carattere di tinta locale ed un far proprio alle sue composizioni» il maestro innovatore si accorse che due innovatori più audaci lo avevano precorso.
Vi sono due righe nelle Memorie Artistiche, le quali, nella loro ingenua schiettezza, commuovono grandemente. Quelle due righe rivelano una immensa angoscia di artista.
«L’amore per l’arte che ho debolmente professata e professo—scrive il Pacini, entrando a parlare del suo proposito di ritirarsi momentaneamente dall’arringo teatrale—non mi ha lasciato mai un po’ di tregua. Invidiava nobilmente i miei rivali, e gli ammirava. Diceva a me stesso: essi ora levano grido, ed io mi occuperò come so e posso d’istruire la gioventù in modo chiaro ed acconcio.»
Queste poche linee sono una grossa lacrima spremuta da un cuore disingannato. È un nobile e generoso ingegno che, in un momento di sconforto e di prostrazione, si ritira dalla battaglia. Tutti gli artisti ed i poeti, tutti i martiri della intelligenza sono passati per queste crisi.
Fu dunque verso l’anno 1833, che il Pacini, nella pienezza della virilità, tuttochè accarezzato da promesse lusinghiere e adescato da lucrose profferte, si ritirò a Viareggio, sua patria di elezione, per istituirvi un Liceo musicale. L’intrapresa gli riuscì completamente, e quell’Istituto in brevissimo tempo accolse buon numero di allievi e prosperò sotto il valido impulso dell’illustre maestro. Nel teatrino dello Stabilimento gli allievi erano già in grado di eseguire, nell’anno 1835, un’opera dello stesso Pacini. Il quale, non potendo resistere al prepotente bisogno di produrre, scrisse in quell’epoca non poche composizioni sacre, fra cui tre Messe ed un Vespro di ottimo stile. Infinito è il numero dei componimenti sacri, de’ pezzi da camera, delle sinfonie, prodigate dal Pacini durante gli intermezzi della sua teatrale carriera. Il lavoro era un bisogno per lui—quella fantasia bollente, agitata, sussultante, domandava incessantemente di espandersi. Era necessario che una delle sue valvole rimanesse aperta in ogni tempo.
Da Viareggio il Pacini passò a Lucca nel 1838 e quivi parimenti fondò un Istituto musicale sotto la protezione del Duca. E fu verso quell’epoca, che l’illustre maestro, riposato dalle lunghe lotte, e incoraggiato da circostanze più favorevoli, sentì nascere il desiderio di ritentare le sorti del teatro. Rossini aveva cessato di scrivere, Bellini era morto, Verdi non era per anco apparso sull’orizzonte teatrale. Non restavano, a militare nel nobile campo, che Donizetti, Mercadante ed altri pochi meno operosi e meno acclamati.
La seconda apparizione del Pacini s’inaugurò splendidamente; si inaugurò con un capolavoro completo, con una di quelle opere che conquistano l’universo, con una di quelle musiche che sublimano lo spirito e rapiscono di entusiasmo tutti i cuori. Se Pacini non avesse creato altra opera che la Saffo, questa sola basterebbe per meritargli di essere iscritto nel libro d’oro fra i più insigni maestri dell’epoca nostra. La Saffo è tutta una ispirazione. Come Bellini nella Norma, Pacini ha soffiato tutta la potenza del suo spirito animatore nella plastica affascinante della sua protagonista. Molte cantanti contemporanee si sublimarono in quest’opera del Pacini e per questa salirono a invidiabile rinomanza. Se la Pasta, la Malibran, la Grisi, la Montenegro, e più recentemente la Galletti, la Lafon e la Fricci toccarono l’apogeo del successo teatrale investendosi delle enfatiche gelosie della profetessa druidica, quante non furono le prime donne che i loro più solenni trionfi e la loro fama collegarono al nome della lesbia poetessa! E basti citare l’Abbadia, la Marini, la Gabussi, la Penco, la Tedesco, e quella ideale artista che era la Sannazzaro, per non dire di molte altre[4]. Fa meraviglia che quest’opera, così esuberante di melodia e di affetto, non seduca il talento di molte prime donne d’oggigiorno, cui la voce di mezzo soprano impone un limitato repertorio. Lasciamo passare l’invasione—a suo tempo questi irresistibili capolavori rifaranno la loro marcia trionfale sui teatri della penisola.
È strano. Il libretto di quest’opera destinata a rinverdire gli allori di un maestro già quasi obliato e ad assicurargli un posto eminente nella storia dell’arte italiana, era stato, in sulle prime, respinto dal Pacini come impossibile a musicarsi. Non ci volle che l’insistenza entusiastica del poeta per indurre il maestro ad accettarlo. Come il tenore Rubini erasi ribellato ad eseguire la famosa cabaletta della Niobe, ritenendola di nessun effetto, così il maestro che doveva illustrarsi come autore della Saffo, si mostrava ritroso a musicare il miglior libretto uscito dalla mente del Cammarano[5]. Nella storia degli artisti celebri si trovano ad ogni passo consimili aberrazioni di criterî.
Il successo della Saffo vulcanizzò, com’era da attendersi, l’estro riposato del Pacini. Alla breve tregua successe l’eruzione violenta. Dal 1840, fino all’ultimo anno della sua vita, l’inesauribile maestro si prodigò con una alacrità prodigiosa.
Donizzetti si approssimava alla fine della sua carriera; Mercadante taceva o ben di rado dava segni di vita—ben il Pacini poteva illudersi che nel campo dell’arte, ormai sgombro de’ suoi antichi e recenti competitori, gli fosse dato dominare da sovrano. Ma un nuovo astro sorgeva allora appunto sull’orizzonte musicale; un giovane artista, dotato di una eccezionale energia di temperamento; un giovane maestro che già nella terza sua opera annunziava i caratteri di un innovatore predestinato. Questo ultimo formidabile competitore del Pacini, che veniva improvvisamente ad afferrare lo scettro della musica italiana, si chiamava Giuseppe Verdi. Nelle Memorie artistiche, il nome di questo insigne maestro viene accennato alla sfuggita con un freddo epiteto di omaggio. In quel libro, dove quasi ad ogni pagina l’autore e prodigo di encomi verso i suoi emuli dell’età prima, notiamo, a proposito del Verdi, delle significanti reticenze.—Noi comprendiamo quel silenzio, e lo rispettiamo come si rispettano i dolori di una nobile ambizione mai sempre contrastata dalla fortuna. Verdi fu l’ultimo rivale del Pacini. Un rivale bene agguerrito, che, nel pieno fervore della sua giovinezza, recava sul campo un emporio ancora intatto di armi e di munizioni. Mentre Pacini, rientrando nell’arringo, si compiaceva di vedere apprezzata la evidente trasformazione del suo stile e di sentirsi battezzato dalla opinione pubblica non più come compositore di facili cabalette, ma bensì di elaborati lavori e di meditate produzioni—ecco affacciarglisi un ingegno prepotente che di un tratto lo sopravanza nella innovazione e che, affascinando le moltitudini cogli impeti di una originalità irresistibile, diviene in pochi mesi l’assoluto signore del pubblico italiano.—E nondimeno, il Pacini questa volta non recesse dalla battaglia—forse anche si illuse di uscirne vincitore. Noi siamo ben lontani dal fargliene aggravio. Ammiriamo il veterano che muore sulla breccia, rispettiamolo nelle sue illusioni, nelle sue temerità, nelle sue convulse maníe. Lottare ostinatamente, lottare nella fede o nella disperazione, è il carattere dei veri artisti.
Dopo la Saffo, che segna il principio della così detta seconda epoca del Pacini, le migliori opere di lui furono: La fidanzata Corsa, acclamatissima al San Carlo di Napoli, il Lorenzino de’ Medici, la Medea, Maria Regina d’Inghilterra, il Buondelmonte e la Regina di Cipro. A mio giudizio il Lorenzino de’ Medici, la Medea e il Buondelmonte primeggiano sull’altre. Nell’opere che il Pacini scrisse dippoi, notasi una deplorevole decadenza di fantasia e di stile. Il Saltimbanco, l’Allan Cameron e gli ultimi spartiti apparsi alla Fenice di Venezia ed al San Carlo di Napoli, portano una impronta febbrile, e sembrano accusare il convulso anelito di un ingegno già esausto. Queste musiche fanno pensare ai sussulti erotici di un vecchio libertino, il quale si strugge ancora per un sesso ingrato che gli volge le spalle.
Tale fu la carriera del Pacini—carriera di luce e di tenebre, di immensi trionfi e di immense sconfitte.—La sua biografia artistica è quella di tutti coloro che hanno fatto assai, che vollero far troppo. Ma chi può fissare i confini dell’ingegno umano? chi può imporre agli istinti di un individuo? Come abbiamo detto da principio, questo torrente impetuoso di artista ha deposto degli strati d’oro per ogni dove è passato. La più informe delle sue opere racchiude delle gemme, le quali, raccolte e levigate da mano paziente, brilleranno per avventura nelle musiche dei maestri avvenire.
Pacini ebbe statura mediocre, occhio vivace, fisonomia non bella ma espressiva, persona snella ed elegante. Tuttochè amabilissimo e qualche volta cortigiano, non conosceva l’arte di cattivarsi le simpatie. Si creò non pochi nemici; fu ingiustamente perseguitato e fatto oggetto di basse calunnie—sorte comune a tutti gli artisti operosi. Da sovrani e da principi ottenne onorificenze non poche. Fu cavaliere di più ordini. Da tre mogli ebbe prole numerosa. La terza a lui sopravvisse, e con essa cinque figli, uno del primo, l’altro del secondo letto, i tre ultimi del terzo.
Alla famiglia superstite furono non lieve conforto gli onori che in alcune città d’Italia si resero alla memoria di lui. Arezzo decretò all’autore della Saffo uno splendido monumento. A Napoli, per iniziativa dei signori Torelli e Colucci, vide la luce una Strenna funebre dedicata alla vedova dell’illustre maestro—esequie solenni si celebrarono a Pescia ed a Lucca—e in altre insigni capitali del Regno.
Gli Italiani non sono ingrati coi.... morti.